La prima curiosità che ho soddisfatto sfogliando l’interessante raccolta poetica di Maria Donata Villa, è stata di individuare dove si trova precisamente Fogland. Ho scoperto che è c’è una località vicino a Tiverton, nel Devon, sud ovest dell’Inghilterra. La geografica fisica, però, non deve trarci in inganno: Fogland è, per la poetessa, una pluralità di luoghi, di stati d’animo, di sensazioni profonde. L’intera opera é percorsa dalla concretezza della terra e allo stesso tempo dalla sua trascendenza: la terra della bassa padana, impregnata dalla nebbia che ottunde il paesaggio, ma che fa vedere, per contrasto, con maggiore chiarezza i contorni delle cose quando emergono dalla coltre di vapore acqueo. Terra che si confonde e si unisce col cielo abitato dai passeri, dagli uccelli, dai pettirossi, dalla rondine, da un airone bianco, osservati con gli occhi della meraviglia fanciullesca e col disincanto della desolazione della condizione umana, animali alati coi quali intrecciare un fitto colloquio simbolico-esistenziale, come in Santorini / Città del Messico, poesia dedicata al Bill Congdon, pittore dell’espressionismo astratto statunitense (1914-1998): “e quando avrò imparato / i nomi dei passeri e tutti gli altri uccelli /non rimarrà che cielo / nel corpo del verde c’è più giallo -/ il blu resta d’avanzo / forse i passeri sono / chiamati per nome / da forze preumane.
Terra che si impasta con gli elementi primordiali del fuoco e dell’acqua purificatrice in Avvento: “…dall’incandescenza della terra / dal disaccordo tra il magma e il freddo / in millenni infiniti di pioggia / venite, acque che vi fate respiro / infilatevi dall’aria nel mio corpo carsico / bevete tutto il male…” ,fino ad arrivare al cuore pulsante della raccolta, la lirica Fogland, dedicata dall’autrice al poeta inglese Seamus Heaney (1939 – 2013) che rappresenta la principale voce intima di ispirazione. È proprio della poesia il dono di evocare e rimandare ad altre voci senza confini spazio-temporali, come in questi versi tratti da Consinguineità di Heaney che echeggiano in quelli della poetessa:
“Apparentato da torba
geroglifica su un campo d’erba
alla vittima strangolata,
il nido d’amore tra le felci,
vado tra le origini
come un cane che rigira
sullo zerbino della cucina
le sue memorie d’una landa selvatica:
il fondo della palude trema,
l’acqua ha un fruscio e mormora
mentre discendo tra macchie
di festuca ed erica.
Amo questo volto erboso,
le sue nere incisioni,
I segreti celati
dei processi e dei riti.
Amo la primavera
fuori dalla terra,
ciascun argine un trabocchetto
patibolare, ciascuno specchio d’acqua
l’imboccatura disostruita
di un’urna, bevitore di luna
da non sondare
ad occhio nudo. …”
E’ questa tensione alla nostra origine terrena dimenticata dagli uomini moderni abitatori di spazi e tempi, umanità dilaniata da un falso progresso assunto come normalità, che percorre la poesia di Maria Donata Villa, come nella lirica L’escluso – per Gino Covilli , pittore nato a Pavullo nel Frignano nel 1918 e morto nel 2005.
Le immagini dei dipinti di Gino Covilli evocate nei versi della poetessa si sottraggono alla storia per entrare nel mito: cicli, cronache, epopee di un mondo selvatico, fatto di terra, animali e uomini compongono il suo cosmo. Sono immagini della vita perduta delle nostre campagne, che emozionano per la concretezza dei tratti delle case e degli alberi e per la carnalità dei volti e dei corpi intenti nello svolgimento di mestieri abbandonati o colti nei momenti di festa, che rimandano alla pittura del più noto Antonio Ligabue (1899 – 1965) e alle figure contadine di alcune tele di Peter Bruegel il Vecchio (1526 – 1569).
La terra di Donata Villa diventa paesaggio interiore e memoria, storia collettiva della nostra specie, oggi in serio pericolo, terra desolata, la “waste land” di T.S. Eliot, che ritroviamo nei versi di Contronatura e de Il contadino nell’epoca in rovina.
Nel poscritto della raccolta l’autrice vuole lasciare i lettori con una speranza che affida a T.S. Eliot dei four quartet: In my end is my beginning, distico mutato dal poeta inglese dalla celebre frase di Maria Stuarda. In ogni fine di qualcosa c’è sempre l’inizio di qualcosa di nuovo, di imperscrutabile. Aggiungo, ancora con Eliot e per completare la circolarità del tempo evocato dai versi, che ogni inizio porta già in sé la sua fine.
Bartolomeo Bellanova
Dalla seconda sezione – Fogland
Avvento
nel cuore della nebbia che entra
da sotto il tumulto, dagli scuri
risparmiati dalla grandine
ed entra in casa, si fa respiro
accendo una candela bassa dove si mangia
per ricordare che niente passa invano
il fuoco lavora la cera agli angoli
nella nebbia lavo la paura, accetto
l’imperfezione dell’airone, unico
bianco nella grande traversata
verde che fa l’erba a dicembre
nella pianura, prima del gelo
le mani che tremano sono una forma
di dissenso alla distrazione,
una piccola profezia di fiamma
venite, acque che siete nate
dall’incandescenza della terra
dal disaccordo tra il magma e il freddo
in millenni infiniti di pioggia
venite, acque che vi fate respiro
infilatevi dall’aria nel mio corpo carsico
bevete tutto il male, fatene inno
fate del tempio di carne un cembalo
cavate il suono perfetto dalla pietra delle ossa
che digrada, fate memoria
di quando tutto fu formato, schiaffo e gloria
Fogland
(un canto di terra e acqua)
per Seamus Heaney
il mio posto di acque chiare
è inchiodato a qualche parte delle ossa
di questa città – i suoi midolli
di grassa pianura neolitica
le volte dorsali di pietra bianca
e mattoni partoriti di acqua e terra
non c’è posto come la nebbia
in cui poter stare come a casa
temporaneamente e in eterno
trovando i più remoti
istinti del ritorno
il mio posto di acque chiare
abita da qualche parte nelle ossa
di questa piccola città – le sue pinne
di distanza cetacea, i suoi midolli
di grassa pianura neolitica
non proprio una prateria, ma comunque
l’orizzonte taglia il sole a metà
al margine più estremo della Bassa
questo è il mare che conosciamo,
in cui scheletri di balena preistorica
furono sepolti sottoterra
dal formarsi del pianeta
non c’è un posto come la nebbia
in cui poter stare come a casa
temporaneamente e attraverso il tempo
trovando istinti del ritorno
così, al mattino, quando mi sveglio,
se non riesci a promettermi salvezza,
almeno dammi occhi per percorrere le terre
le betulle troveranno
un arco sopra le teste
un punto nel tempo
dove tutto ha avuto inizio
Dalla terza sezione – Sotto traccia (canti d’inverno)
Contro natura
la menta si è tramutata in ortica
il maggiociondolo lascia cadere semi avvelenati
i tetti antichi delle case
sono divorati dal bosco
siamo anche noi una forma animale
benché fornita di riparo per la notte
nel tempo del grigio che piomba sul verde
si sente solo il frinire dei grilli
come venisse da sotto la terra
dal regno liquido tra Tartaro e Acheronte
di quando qui non era che mare
e il volo basso delle rondini che si chiamano
per avvisarsi della rovina che viene
L’escluso
per Gino Covili
io vi guardo dalla mia zona d’ombra
da questo incedere silenzioso nel giorno;
qui sento il rumore di un mare
alle cui sponde nessuno bagna i piedi
non vedete? c’è un oceano
tra me e i vostri passi, tra tutte le parole
che misurate come guadagno
io vi guardo dal mio confine d’ombra
vedo i buchi neri che avete nella schiena
dove il cuore si rintana tra i vestiti
vi guardo, e non vi passa per la testa stretta
che sorriso lieve mi dia, sotto ai miei stracci,
la presunzione di normalità
non sapete? qui da me il mare
fa capolino ad ogni stanza
e in corridoio si raccolgono conchiglie
e sulla riva ci sono valve vuote da suonare
da cui sono fuggiti muscoli
cardiaci
si sono tutti rifugiati sotto al letto
a risuonare per l’eternità
Il contadino nell’epoca in rovina
ho piantato semi di limone
nella terra della nostalgia
li custodisco nell’inverno
non c’è molto che si possa fare
contro il rigore del gelo
quando penetra il nucleo
dell’epoca
siamo nel pieno di un rigore tiepido
vomitato dalla bocca di Dio
un rigore nascosto sotto agli occhi
che si stende sulle palpebre
come un obolo funerario d’argento
ho piantato semi di limone
nella terra della nostalgia
ne verranno frutti aspri
senza la violenza feconda dell’innesto
Foto: di Lupe de La Vallina
Biografia – Mariadonata Villa insegna a Modena, dove vive.
La sua raccolta d’esordio, L’Assedio (Raffaelli 2012) è stata finalista al Premio Carducci.
Il suo lavoro di poeta e traduttrice è stato ospitato su riviste cartacee come ClanDestino, Atelier, versodove, oltre a numerose pubblicazioni on-line, e nell’antologia “Davanti agli occhi c’è un ponte” (Alla chiara fonte, 2013).
Ha tradotto e scritto a proposito di Les Murray, John Burnside, Ewa Chrusciel, Philip Levine, tra gli altri.
La sua nuova raccolta di poesie, Verso Fogland, è stata pubblicata da Minerva nel settembre 2020.
Ha scritto di teatro, arte, fotografia; è stata membro del CdA di Fondazione Fotografia (attualmente FMAV). Ha tradotto i libri Deep Enough for Ivorybills (it. Dai luoghi profondi, Genova 2011) di James Kilgo e Lapsed Agnostic (ibidem, Milano 2012) di John Waters.