Utu significa ombra, ma è anche il corrispettivo di spirito. Nella cultura yanomami ogni cosa possiede uno spirito, quindi anche gli oggetti, gli animali, gli elementi della natura. Animata, o inanimata come una pentola, ogni forma possiede uno spirito che ha le fattezze della forma stessa. Per estensione, il termine è passato a significare fotografia, diapositiva, immagine riprodotta.
Nella cultura yanomami, tutto ciò che è appartenuto al morto deve scomparire. I beni materiali a lui appartenuti vengono bruciati o messi fuori uso, distrutta è la sua piantagione, incendiate le tettoie di caccia dove ha pernottato, cancellate le impronte dagli oggetti toccati e le orme dai sentieri percorsi. Sopraggiunte dopo il contatto con l’uomo bianco, le fotografie non fanno eccezione; se anche una sola ne rimanesse in circolazione, lo spirito del morto non potrebbe raggiungere la “terra di sopra”. Condizionata dal tabù culturale, all’epoca fortemente sentito dagli yanomami, ho scattato relativamente poche foto durante i quattro anni e mezzo vissuti in mezzo a loro.
Le nove immagini qui riunite risalgono alla fine degli anni settanta e inizio degli anni ottanta del secolo scorso. Si potrebbero guardare con interesse scientifico essendo un registro storico-etnografico, ma le propongo per ragioni sentimentali: io decisi di andare a operare tra e con gli yanomami dopo essere stata sedotta da artistiche, intriganti diapositive che li riguardavano. Spero che gli osservatori delle mie foto vadano oltre l’apparenza, al di là delle forme. Mi piacerebbe che vedessero gli yanomami come io li vedo: donne, bambini, uomini, vecchi in atteggiamenti semplici, quotidiani, consequenziali al sistema sociale da loro forgiato; esseri umani sempre minacciati di genocidio perché la società occidentale vuole abbattere la loro foresta, saccheggiarne il sottosuolo.
Ogni tanto, caritativamente, la stampa si ricorda degli yanomami, ma finisce per aggredirli a sua volta attraverso la banalità dei luoghi comuni, la superficialità delle locuzioni fritte e rifritte, l’inadeguatezza delle parole d’ordine, la perversione dei termini sensazionalistici. Ritenuti i maggiori responsabili delle invasioni del territorio yanomami, a essere criminalizzati sono sempre e solo i cercatori d’oro; ma non si dice che i garimpeiros esistono perché l’oro c’è chi lo compra, lo vende, lo accumula, lo sfoggia, lo ruba, in riserva aurea lo trasforma.
Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il “Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico “Yanomami para brasileiro ver”, la raccolta poetica “Mulher entre três culturas”. In italiano ha pubblicato i libri di racconti “Amazzonia portatile” (Manni, 2003), “A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta” (Arcoiris, 2016), Discriminati (Seri Editore, 2018); le presentazioni degli ultimi due sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del Libro di Torino rispettivamente nel 2017 e 2019, invece per “Amazzone in tempo reale” (Livi, 2013) ha ottenuto il premio speciale della giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. È anche autrice del romanzo breve “Quando le amazzoni diventano nonne” (CPI/RR, 2011) e dell’inedito “Romanzo indigenista”; mentre del libro “Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più”, anch’esso inedito, è la curatrice. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La Macchina Sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA – fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri. La scrittrice Loretta Emiri è una delle macchiniste fondatrici e ha collaborato particolarmente al numero zero della rivista. Si è ritirata dal gruppo operativo a ottobre del 2016.