Unregistered – Racconto inedito di Giuseppe Pensabene Perez

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Dilwàn

Dilwàn non aveva ben capito come fosse successo, eppure intuiva di esserne responsabile: quel pizzicore fortissimo alle mani e Kamràn, il figlio di Shaqvàn, era volato via dalla bicicletta cadendo due metri oltre la stradina. Sembrava come se un’improvvisa folata di vento l’avesse sospinto via dalla bicicletta, sebbene quel giorno non spirasse un filo d’aria e la stradina del campo fosse priva di ostacoli tali da giustificare un simile volo. Kamràn era capitombolato proprio di fronte al negozio del campo, di proprietà suo padre Shaqvàn. Era rimasto a terra per un due minuti e quando era stato rialzato dalla gente venuta a soccorrerlo, a Dilwàn, vedendogli la faccia coperta di sangue, era spuntato un sorriso di soddisfazione.

Kamràn se lo meritava. Era un bullo, anzi era il più bullo di tutti ragazzini del campo rifugiati. Inoltre, suo padre era Shaqvàn, il leader indiscusso della comunità, nonché il più ricco. Gestiva il negozietto di beni alimentari e sigarette di contrabbando, mantenendo così la quasi totalità degli abitanti del campo rifugiati in perenne debito con lui, giacché tutti compravano nel suo negozio a credito, per poi pagare quando arrivava il mensile della Croce Rossa. Oltre che da quell’attività commerciale, (ovviamente abusiva ed esentasse), ricavava potere, rispetto e devozione prestando soldi ai residenti del campo che avevano necessità improvvise e inderogabili: una visita medica privata, non disponibile negli ospedali pubblici, le marche da bollo per emettere il documento di viaggio, medicine, multe da pagare e varie altre spese. Non prestava a strozzo, sia chiaro, però attraverso quelle elargizioni annunciate a piena voce e fatte passare come grandiosi atti di umanità e amore per il prossimo, si guadagnava eterna fedeltà, rispetto e, soprattutto, la possibilità di richiedere favori in futuro. E Kamràn, suo figlio, appena tredicenne, si approfittava della autorità e il potere del padre in quel campo rifugiati commettendo con impunità le peggiori marachelle e angariando gli altri bambini senza pietà.

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Quando non girava con la sua bicicletta nuova fiammante tra i container di plexiglas (unità abitative, come le chiama l’ente gestore o caravan come li chiamano i residenti), in cerca di vittime o scherzi da fare per passare il tempo (tutti si ricordano ancora quanto aveva pianto Umm Yusef quando le aveva ucciso a sassate tre dei suoi amati gatti, o di quando aveva pisciato a sfregio sui pomodori lasciati a essiccare al sole dall’unica famiglia somala del campo), se ne stava seduto su una panchina a giocare a Bobgee sul suo ipad, circondato in silenziosa ammirazione dagli altri ragazzini. L’ipad e la bicicletta non le faceva toccare a nessuno, solo a volte ai suoi sgherri più fedeli, Talàl e Jalàl. Gli altri bambini potevano giocare a Bobgee solo quando i genitori permettevano che usassero il loro telefonino, mentre Kamràn era l’unico bambino ad avere un dispositivo tutto per sé, un ipad per giunta, nuovo e perfettamente funzionante, non come quei vecchi android che si bloccavano sempre.

Kamràn, dopo la caduta, nonostante il brutto taglio sulla fronte (avevano dovuto ricucirlo all’ambulatorio) non aveva versato una lacrima, bisognava riconoscerglielo, ma quando si era accorto che lo schermo del suo ipad si era scheggiato, era scoppiato a piangere. Il sorriso di Dilwàn, allora, si era trasformato in una risata di pura gioia. Kamràn che piangeva come una femminuccia davanti a tutti. Forse il momento più felice da quando era arrivato in quel campo rifugiati nel nord della Grecia.

Unregistered, non registrati, abusivi, ghayr musaǧǧalin bi-l-mukhayyam, Dilwàn e la sua famiglia non erano residenti ufficiali del campo rifugiati. Non avevano l’aussweiss, il documento da richiedente asilo, non erano regolari sul territorio. L’Isobox in cui vivevano non era stato assegnato, l’ente gestore li considerava occupanti illegali di un alloggio di proprietà del governo greco. In realtà la famiglia di Dilwan pagava un affitto a Sheqvan, il boss del campo, il quale irrompeva sistematicamente negli isobox rimasti vuoti per poi affittarli ai clandestini, i cosiddetti spontaneous arrivals, in umanitariese. In quanto unregistered, su di loro incombeva la minaccia della deportazione coatta: sarebbe potuta arrivare la polizia in qualsiasi momento, caricarli prima su una macchina, poi su un pullman e in meno di tre ore si sarebbero ritrovati di nuovo dall’altra parte del fiume Evros, in Turchia.

“Tu non ci puoi venire, perché non siete registrati e i bambini non registrati non possono andare alla scuola greca!” Così gli aveva detto un bambino una mattina qualche giorno dopo il loro arrivo, mentre Dilwàn guardava con gli occhi pieni di curiosità e invidia gli altri bambini del campo raggrupparsi in fila per salire sullo scuolabus. Per un po’ aveva continuato a farlo. Ogni mattina si alzava presto, e andava nel piazzale dove arriva il pullman. Sperava che magari si sarebbero impietositi e avrebbero fatto salire anche a lui. Ma non era mai successo.

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E Kamràn (che non ci andava comunque a scuola, anche se era registrato nel campo) l’aveva preso subito di mira. Il giorno dopo il loro arrivo, circa due mesi prima, Dilwan si era fatto un giro nel campo. Quasi seguendo il suo istinto di bambino, aveva subito trovato il punto di ritrovo dei suoi coetanei. Dietro al negozietto di beni alimentari, c’era uno spazio che un tempo doveva essere stato un parco giochi, con un campetto da calcio vuoto. Un gruppetto, invece di giocare a pallone, se ne stava seduto attorno a una panchina dove sedeva un ragazzino con un ipad in mano. Dilwàn rassicurato dal fatto che parlavano curdo sorani, la sua stessa lingua, si era avvicinato, intimidito ma fiducioso. “E tu chi cazzo sei, scopasorelle?” Gli aveva detto il ragazzino con l’ipad e tutti gli altri erano scoppiati a ridere. “Guardate che maglione da scopasorelle”. Giù altre risate. Dilwàn aveva girato i tacchi e se n’era tornato nel suo isobox, forzandosi di non piangere. Quel ragazzino con l’ipad era Kamràn, il figlio di Sheqvàn, l’uomo che suo padre non smetteva di ringraziare. “Che dio ti allunghi la vita, Sheqvàn, mille volte misericordia sui tuoi genitori, ti siamo debitori”. per averli fatti entrare (dietro pagamento di un affitto) in quel caravan sdirrupato, senza bagno e senza fornelli. Le cose non erano migliorate neanche dopo. Kamràn ogni volta che lo incontrava lo prendeva in giro, lo chiamava scopasorelle di Dohuk (per fortuna Dilwàn non aveva sorelle, quindi in qualche modo considerava che l’insulto fosse meno grave) e lo sfotteva per i suoi due maglioni (ne aveva solo due, le loro valigie erano andate perse attraversando il fiume Evros, e se li metteva uno sopra l’altro, cambiando l’ordine a giorni). “Hey, scopasorelle, ma hai sempre gli stessi vestiti? Ma ti lavi? Puzzi di asino morto! Come fai a lavarti che non avete neanche il bagno nel caravan”.

Gli era successo altre volte in passato: cominciava sempre con un’emozione fortissima seguita da un prurito fortissimo alle mani, poi quella cosa accadeva. La prima quando aveva sette anni e viveva ancora a Dohuk, in Kurdistan. Ramyàr, il più grande dei suoi fratelli gli aveva dato uno schiaffo davanti a tutti per essere inciampato sul joystick della playstation mentre erano impegnati in un torneo a tekken. Quella maledetta playstation che non gli facevano mai usare. Dopo lo schiaffo si era seduto sul tappeto dietro ai ragazzi che avevano continuato a giocare come se niente fosse, mentre la rabbia e l’umiliazione lo sconquassavano dentro. Le mani avevano cominciato a prudergli fortissimo. Aveva fissato lo sguardo sulla maledetta playstation posata a terra e quella, all’improvviso, dopo due scintille e aveva iniziato a fumare. Lo schermo della televisione si era spento e la playstation aveva preso fuoco. “Allah Akbar”, avevano gridato i fratelli, increduli. Quella sera il padre li aveva picchiati, aveva mollato un ceffone a testa a ognuno dei suoi tre fratelli più grandi, convinto che fosse colpa loro perché ci giocavano troppo, facendola surriscaldare. Dilwàn se n’era dispiaciuto, Khorshid e Sidar non c’entravano nulla, loro due erano sempre buoni con lui.

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Quella mattina però, con Kamràn, era stato diverso. Era la prima volta che quella cosa era avvenuta a seguito di un suo desiderio, forte e definito. Aveva voluto che Kamràn si facesse male, che cadesse dalla bici. Suo fratello Khorshid era sceso a Salonicco e gli aveva portato una confezione con tre liquerizie haribo, quelle a forma di rotella, le sue preferite. Le mangiava anche in Kurdistan. Tutto contento si era fatto un giro per il campo con il suo piccolo patrimonio, voleva offrirne una a Saif, un ragazzino siriano di nove anni come Dilwàn, anche lui bullizzato dal gruppetto dei curdi, con cui sembrava stesse nascendo una sorta di amicizia. Kamràn e i suoi due sgherri l’avevano intercettato sulla strada: “Hey scopasorelle, che hai lì in mano? Ma lo sai che Talal legge il futuro nelle haribo, dagliela e ti dirà se ti sposerai o continuerai a scoparti tua sorella.” Risate. Lui aveva alzato gli occhi terrorizzato e in quel momento Talal gli aveva strappato di mano la bustina con le haribo e se l’era ficcate tutte e tre insieme in bocca, mentre Kamràn e Jalal si sganasciavano dal ridere. Poi se n’erano andati. Dilwàn ci era rimasto di merda. Una lacrima gli era uscita, nonostante avesse provato con tutte le forze a non piangere. Era stato allora che aveva sentito il prurito fortissimo alle mani e aveva capito che quella cosa stava per succedere. Aveva fissato lo sguardo su Kamràn che si allontanava sulla bicicletta ancora ridendo e dopo neanche due pedalate si era catapultato sulla stradina.

Dilwan, ancora sorridendo si avviò verso il caravan dell’amichetto siriano, aveva voglia di raccontargli della caduta della bicicletta del loro nemico e di come aveva pianto davanti tutti, proprio come uno scopasorelle.

 

Giorgos

Quel giorno non ne aveva proprio voglia, era anche una bella giornata. Le porcate (e quella che stava per fare era una porcata bella e buona) andrebbero fatte quando il cielo è grigio e nuvoloso, altrimenti ti rovinano anche quel poco di buon umore dato da una giornata di sole a dicembre. Così pensava Giorgos mentre guidava verso il campo di Lagadikia, succhiando svogliatamente dalla cannuccia il solito frappè. La pancia già gli cominciava a borbogliare, come se la tiropita che aveva mangiato a colazione gli fosse rimasta sulla bocca dello stomaco.  Non che a lui gliene fregasse più di tanto del destino dei profughi, anzi, era che convinto che meno ne fossero arrivati, meglio sarebbe stato per i Greci. Abbiamo già abbastanza problemi per conto nostro per doverci occupare pure dei problemi di questi disperati. Non ci vedeva niente di male a rimandare dietro i barconi che arrivavano alle isole o bloccare gli ingressi via terra dalla Turchia, arketá, basta, sono troppi. Che poi manco ci vogliono rimanere in Grecia, almeno prima se ne andavano subito in Germania, neanche il tempo di sbarcare ed erano già a succhiare il latte di mamma Merkel; mentre ora dovevano restare fino a ottenere il travel document prima di potersi muovere, minimo tre anni a spese nostre, nutriti e pasciuti dal governo. Ecco cos’era diventata la Grecia per quella gente: un passaportificio. Ciononostante, quello che stavano per compiere quella mattina gli sembrava comunque una porcata. L’ultima volta che l’avevano dovuto fare aveva perfino vomitato appena tornato a casa e per una settimana aveva avuto problemi di digestione e insonnia. Il fatto che non gli andava giù era la presenza di bambini. Non aveva problemi a rimandare in Turchia i single men, non gli facevano pena. Ma quando c’erano bambini di mezzo gli sembrava una porcata bella e buona. Ancora si ricordava il viso di quelle due gemelline irachene che avevano fatto salire sul furgoncino due mesi prima. Per una settimana non ci aveva dormito, ogni volta che chiudeva gli occhi si ritrovava l’immagine stampata in testa di quelle due bambine identiche, bellissime, ognuna col suo zainetto, in piedi davanti all’isobox che avevano avuto l’ordine di sgombrare per deportarne gli occupanti. Chissà se avevano capito cosa stava succedendo.

Che poi Giorgos stesso era discendente di rifugiati. Tzompanoglu, il suo cognome lo gridava forte e chiaro. Era di famiglia pontica, ovvero di quei greci che avevano vissuti per secoli in Turchia, nella regione del Ponto, per poi ritrovarsi in Grecia, nella regione di Salonicco, come prosfyges, niente di meno che profughi. Non che contasse qualcosa, era storia vecchia ormai, eppure non riusciva a non immedesimarsi in quelle famiglie, soprattutto quando ricevevano l’ordine di sgombero dal comandante.

C’era anche una questione di giustizia, di merito, secondo lui. Va bene impedire agli stranieri di entrare, ma una volta che sono in territorio greco, quando ormai erano riusciti a superare controlli e frontiere, famiglie con bambini, che senso aveva riportarli in Turchia? Ormai erano dentro, bisognava riconoscerglielo e dargli una possibilità.

Come aveva letto nel rapporto, la famiglia che dovevano “accompagnare in centrale”, era composta da sei persone, di cui tre minori. Il bambino più piccolo aveva nove anni. La tiropita della colazione si ostinava a non voler scendere giù, aveva la nausea. Erano arrivati due mesi prima e avevano occupato illegalmente l’isobox numero ZP167. Non si erano mai registrati come richiedenti asilo, e il loro foglio di ingresso irregolare era scaduto da un mese. “Sgomberare l’isobox occupato e condurre gli occupanti al centro di smistamento Makedonia”, questo aveva ordinato il comandante della stazione di polizia di Lagadá.

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Arrivarono al campo e parcheggiarono il furgoncino della polizia davanti all’isobox dove stava la famiglia. I suoi colleghi scesero a bussare alla porta, manganelli in mano come chissà che dovessero fare. Giorgos rimase in macchina, voleva evitare il più possibile ogni contatto umano con quelle persone e limitarsi a guidare. La famiglia uscì dall’isobox e si misero in fila davanti al furgoncino, con aria rassegnata. Padre madre e quattro figli maschi. Uno maggiorenne, due ragazzoni adolescenti e poi lui, il bambino che non avrebbe voluto vedere e che già sapeva gli avrebbe rovinato sonno e appetito per almeno una settimana. Portava un maglione giallo scucito e se ne stava in piedi davanti ai suoi fratelli, grattandosi spasmodicamente le mani, con lo sguardo fisso sul furgoncino. Giorgos ebbe un conato di vomito.

Poi però avvenne qualcosa di inaspettato: una sorta di miracolo divino, pensò Giorgos mentre si faceva il segno della croce. Il furgoncino grigio e verde della polizia greca aveva, improvvisamente, preso fuoco. Prima si erano levate due fumate nere e poi una vampata di fuoco era fuoriuscita dal vano motore.  Prima di catapultarsi fuori dalla macchina ad aiutare i suoi colleghi, Giorgos fece in tempo a dare un’ultima occhiata al bambino. Sorrideva, stringendo la mano dei fratelli, con gli occhi fissi sul furgone in fiamme.

 

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Giuseppe P. Perez, classe 1984, pesci, linguista, tabagista, poliglotta. Lettore vorace, onnivoro. Autori preferiti Stephen King e Roberto Bolaño.

 

Foto di copertina e foto nell’articolo a cura di Giuseppe Pensabene Perez, dal campo rifugiati di Lagadikia in Grecia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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