Verona, mercoledì 30 aprile 2008.
Dodici anni fa.
Hai una sigaretta?
Una settimana corta, questa, domani è festa e davanti ci quattro giorni di ponte.
Quattro giorni liberi, tutti da inventare. Quattro giorni non programmati. Del tempo da passare in famiglia, con gli amici, da dedicare a ciò che si ama. Quattro giorni per staccare dalla quotidianità.
Quattro giorni. Un giorno, 24 ore ore. E, allora, davanti, 96 ore “impreviste”, tutte da scrivere, tutte da riempire.
Come dappertutto, i ragazzi ne approfittano per uscire e fare tardi che tanto domani non c’è da andare a scuola o lavorare, che tanto “la città è tutta per noi”, “si può fare quello che ci va”, “facciamo un giro in centro”, “vedrai che ci divertiamo”, “Hai una sigaretta?”
A Illasi, due amici si ritrovano al Boomerang, gente seduta al bancone, la cameriera carina, e il solito gruppo che suona dal vivo. Nessuna novità, insomma, che a Illasi la sera non c’è proprio nulla da fare, e quindi: “Andiamo a Verona, ti presento qualche mio amico”.
Adesso gli amici sono cinque, seduti ad un tavolo del Caffè Malta, in pieno centro. I ragazzi ridono, parlano, ordinano da bere: “Che birra avete? Mi porti una birra?” “Rossa, chiara, ce l’avete alla spina? Moretti?”
Le ore passano, le risate si fanno più intense, le parole più forti, le birre continuano: “Ancora un giro”, festeggiare, sì, bisogna festeggiare che l’Hellas Verona ha appena battuto il Novara 2 a 1, che si dice “quest’anno diventiamo la Juve della Serie C”.
Adesso è la 1,30 i cinque prendono giacche, bomber, cappellino ed escono dal locale. Il giro è lo stesso di sempre: piazza Bra, piazza delle Erbe, via Mazzini, via Cappello, il lungadige Bartolomeo Rubele. E poi indietro, di nuovo, ancora mentre si fa più tardi, mentre la città si svuota.
I cinque camminano e le chiacchiere e le risa continuano, nessuno ha ancora voglia di tornare a casa, stanotte si può fare tardi, stanotte non esistono orari, non ci sono regole, stanotte si fanno strappi alle regole.
Così si sta in giro, “Butei, che facciamo?”
“Butei”, lo sapete, a Verona significa “ragazzi”.
Io non lo sapevo, ma ho capito che i butei sono come gli “gnari” bresciani, i “bocia” bergamaschi, i “raga” milanesi.
Perché quella dei butei, degli “gnari”, dei “bocia”, dei “raga” a volte è più un’appartenenza: fratelli che condividono la stessa storia, le stesse esperienze, lo stesso modo di vedere la vita.
La stessa noia, a volte. Magari quando non ci sono partite di calcio, magari quando non ci sono partite di calcio dell’Hellas.
O in quei weekend di ponte troppo lunghi in cui si sta al bar a bere qualche birra e il tempo non passa mai. Come questo di questa storia, questo con le sue 96 ore “tutte da riempire”.
E così, a Verona, i butei iniziano a passeggiare per le strade quando piano piano si svuotano e sotto il balcone di Romeo e Giulietta non c’è più la folla pigiata a guardare verso l’alto. Camminano e chiacchierano i butei, stretti nei loro giubbotti.
“Hai una sigaretta?”
I cinque decidono per un altro pub, adesso è l’ 1,58, così, per bere ancora qualcosa assieme, e si muovono verso il centro in direzione Porta Leoni.
In via Cappello, incontrano un ragazzo, vestito come un punk. Gli chiedono dei soldi, 10-15 euro, lui rifiuta, “No” dice, allora insistono, “No, non ce li ho” dice, “Be’, dacci le tue spillette”, insistono, lui allora stacca tutte le spillette dai vestiti e gliele dà.
I ragazzi riprendono a camminare lungo via Cappello, passano circa 15 minuti e all’angolo con Corticella Leoni incrociano tre ragazzi, forse, stanno fumando.
Anche loro hanno fatto serata. Parlato, scherzato, bevuto, fumato. Si sono divertiti. Anche loro domani non andranno al lavoro che domani è il Primo maggio, domani, cascasse il mondo, si dorme.
I tre, sono appena usciti da un locale e stanno tornando alla macchina.
Camminano quando ad un certo punto sentono una frase che è questa: ”Codino, dame na sigareta”, e uno di loro risponde “No”.
Luca e Maria Tommasoli sono fuori dalla sala operatoria dell’Ospedale di Borgo Trento, Verona.
Maria è seduta e fissa il muro bianco davanti a sé.
Luca percorre avanti e indietro corridoi lunghi e stretti, tutti uguali, che si incrociano, si diramano, che scompaiono dietro a grandi porte, che vengono inghiottiti da grigi ascensori, corridoi che portano a sale piene di sedie in fila e gente seduta che aspetta.
Luca e Maria Tommasoli non parlano molto, ogni tanto guardano l’orologio appeso alla parete, poi il telefono cellulare: “Era Alessandro, sta venendo qua”. Ogni volta che passa un medico Luca Tommasoli gli si avvicina, fa domande nella speranza di ottenere risposte. Anche Erika arriva, ha gli occhi lucidi, trema e senza una parola si lascia cadere sulla sedia accanto a Maria Tommasoli. Chi è Erika? Erika è la fidanzata del ragazzo che in questo momento sta dentro la sala operatoria dell’Ospedale di Borgo Trento.
Alle loro spalle, la porta della sala è chiusa. Dentro i neurochirurghi, nei loro camici e cuffiette verdi, le mani in guanti di lattice, incidono, aspirano, rimuovono. La concentrazione è massima, i gesti precisi, le parole fitte, si guardano e ricominciano da capo, ”taglia”, “aspira”, “forse ci siamo”.
Adesso, ci spostiamo, e siamo a Boscochiesanuova e ci sono due ragazzi in una casa che stanno pranzando, si dicono che devono parlare con il loro amico, si dicono che hanno avuto un’idea. Da ieri in tv, sui giornali, alla radio, facebook non si fa che parlare del tipo picchiato in Porta Leoni. Del tipo che è a Borgo di Trento per una gravissima emorragia cerebrale.
Sì, i due che ora sono a casa e stanno pranzando, devono assolutamente parlare con l’amico, dirgli di non preoccuparsi, di stare tranquillo e di non dire niente a nessuno, che in questi casi non bisogna dire niente a nessuno, che loro hanno un piano.
Arriva l’amico, parlano e spiegano: il piano è semplice, il solito, quello visto tante volte nei film, andarsene.
“Partiamo, poi si vedrà”, “Partiamo che magari intanto si ripiglia”, “Partiamo che mia madre mi conosce, mi ha già detto che sono strano”, “Partiamo e non ci pensiamo più un po’.
Il loro amico però, non vuole partire. E loro, a questo punto, non hanno altro tempo da perdere. Le borse sono già tutte pronte, perché poche cose si portano dietro, giusto qualche cambio, i documenti, “Mi raccomando, i documenti”, e poi i soldi, tutti quelli che sono riusciti a trovare.
Prendono la macchina di una delle loro madri, un’Audi A3 grigia, e arrivano fino ad un parcheggio alle Golosine. Scendono dall’auto, la chiudono a chiave e la lasciano lì. C’è un ragazzo con una Y10 che come da accordi li sta aspettando, un ragazzo che conoscono, un ragazzo che uno di loro ha conosciuto tempo fa quando si era candidato alle ultime amministrative.
Salgono sulla Y10 del ragazzo e partono, direzione Austria. Sì, perché gli hanno chiesto di accompagnarli in Austria dove possono trovare due biglietti aerei low-cost, così, per andare a Londra, così, per assistere ad una partita di calcio.
Circa tre ore di viaggio passate tra una sigaretta e l’altra, a parlare di politica, di calcio, e di quel tipo, quello dell’altra notte in Porta Leoni, quello che stanno operando da ore, quello che “Vedi che sicuramente si ripiglia, e quando si ripiglia lui noi torniamo”, si dicono mentre attraversano il Passo di Resia. “Dammi un’altra sigaretta”.
A casa, a San Giovanni Lupatoto, c’è il loro amico, quello che non è partito, sta parlando con il padre. Perché lui, in realtà, ci aveva pensato subito alla fuga. Sì, subito, l’altro giorno, all’alba si era messo una tuta ed era uscito di casa, ma poi era tornato il giorno stesso, e c’era suo padre ad aspettarlo, a fissarlo senza dire niente. Perché suo padre l’ha capito subito com’è.
Mentre lui parla con il padre, a Illasi, due ragazzi aspettano da giorni, fermi, vigili, sentono che qualcosa sta per accadere.
Un giro per le strade del paese, un salto al Boomerang, tutti parlano di Verona, di Porta Leoni, dell’altra notte. E i due ragazzi tornano a casa che a Illasi la sera non c’è proprio nulla da fare.
L’Y10 arriva a Innsbruck, lì i due con 300 euro pagano un taxi che li porta fino all’aeroporto di Monaco e da lì, con un volo low cost della Easy Jet, arrivano a Londra.
“Hai una sigaretta?”.
Sigarette, caffè, sono giorni e notti che il magistrato Francesco Rombaldoni non fa che visionare i filmati ripresi dalle telecamere del centro di Verona.
Rombaldoni, il viso asciutto, le dita lunghe, li manda avanti e indietro, i filmati, li ferma, ingrandisce le immagini, di nuovo e ancora alla ricerca di “qualcosa”.
Ecco, la videocamera a circuito di una banca inquadra cinque ragazzi mentre corrono veloci in via Leoni. Sì, ci sono cinque di spalle che corrono via, e altri tre, due si reggono in piedi a malapena, appoggiati a un muro, un terzo è disteso a terra, immobile.
I dettagli sono pochi, pochi i dettagli di quelli che scappano: due di loro indossano jeans, due un giubbotto bomber, uno un cappellino.
Intanto i due del muro, quelli che si reggono a malapena in piedi, sono stati ascoltati più e più volte dalla polizia, ma sono sotto shock, tutto è confuso. L’unico ricordo che hanno sembra essere quello dell’amico, lì, steso a terra, di loro che lo chiamano e di lui che non si muove. Tutto il resto, è annebbiato, dicono, si sforzano ma è come se le loro menti si rifiutassero di rievocare quei minuti da incubo, dicono, forse 3 minuti, durati un’eternità, dicono loro.
Quello che emerge, però, è che i cinque sono italiani, “probabilmente di Verona, parlavano in dialetto”, e giovani, “probabilmente 20 – 25 anni”. Almeno questo il magistrato Francesco Rombaldoni ce l’ha chiaro.
E, allora, i carabinieri diffondono queste informazioni tramite la stampa, sperando in qualche altro testimone: altri ragazzi, anche loro in giro fino a tardi, il camion dell’AMIA, o i soliti barboni che girano per Porta Leoni, chiunque. Chiunque possa contribuire alle indagini.
Anche la madre Maria, il madre del ragazzo che ancora dopo ore e ore si trova all’ospedale di Borgo Trento, tramite il quotidiano locale l’Arena lancia un appello: “Chi ha visto qualcosa quella sera non abbia paura di dirlo perché un ragazzo non può essere in fin di vita per una sigaretta”.
A Verona gli anziani ritrovano seduti ai tavolini in piazza delle Erbe, un signore appoggia il giornale locale di quel giorno, una frase scrive così: “Non fa storia, capita una volta su un milione”, e commenta: “Verona è una città che è sempre stata così, è un po’ estremista, diciamo, ma la famiglia c’entra poco secondo me. Che adesso, la violenza mi sembra che si è un po’ accentuata rispetto agli anni passati, sono più violenti i ragazzi.”
“La famiglia c’entra, come può non c’entrare? È lì che ti educhi”, fa un altro.
“La famiglia non c’entra, non è più importante come prima, ora ci sono gli amici, c’è il gruppo è quello che stravolge quella che dovrebbe essere l’educazione”, insiste quello con il giornale.
“È una violenza che sta dilagando sempre più, per la quale bisogna intervenire. Dipende da tante cose, prima di tutto dalla cultura che non esiste, dall’educazione, e poi da certi principi che si diffondono anche sulla prepotenza, sul contrasto l’uno con l’altro, e finisce che così impiegano il tempo”.
“Famiglia, gruppo… Assurdo, per come la vedo io, è una violenza inconcepibile”, dice una donna mentre con una mano lentamente si sistema le pieghe del vestito.
“Mio figlio, mio figlio è titolare di un ristorante vicino a Castelvecchio, dice che il centro di Verona è pericoloso, lui ha lavorato in una famosa enoteca nel cuore della città e ne ha viste di tutti i colori. Anche nel suo locale le porte dopo una certa ora vengono chiuse.”
“Almeno ora ci sono gli “assistenti civici”, le ronde per la città approvate dal Sindaco, sono aumentati fermi, è vietato dormire per strada“.
“Oggi i la violenza non la puoi controllare, si diffonde più facilmente, internet, la televisione”, commenta la coppia di clienti mentre paga il conto.
Verona si alza un mattino e non si riconosce più.
Verona, dove il benessere del Nord-Est lo si respira camminando nelle strade del centro dove i locali si accalcano l’uno sull’altro e per l’happy hour si preparano spritz a ritmo frenetico: prosecco, seltz, Aperol. Verona, dove i turisti, dicono, sono 3 milioni ogni anno, arrivano da tutto il mondo e si accalcano per entrare in via Cappello per lasciare al balcone di Giulietta bigliettini o scrivere direttamente sul muro i loro messaggi d’amore. Tutti lo abbiamo fatto, no?
La bella Verona, Verona la città dell’amore e delle sue promesse.
Verona si alza un mattino e non si riconosce più. Incredula, sgomenta, sofferente, vuole reagire e chiede sicurezza.
Verona si alza un mattino e non si riconosce più, o forse almeno per un istante, osserva il suo viso sotto al trucco, che lei lo sa che c’è dell’altro, che c’è da sempre, solo che di solito è nascosto dal trucco, mentre e ora sembra impossibile nasconderlo.
Perché questo è il quindicesimo episodio di violenza dal 2001, contando solo i fatti più gravi.
Ma ci sono cose che le guide turistiche non dicono. Non raccontano le storie della gente e delle strade, non parlano delle sofferenze e delle grida. Non lo scrivono le guide e non lo sanno i turisti tedeschi, americani e giapponesi che sciamano nelle strade.
È così che gli anziani, seduti al bar, parlano dei giovani in quel tiepido mattino di maggio.
Luca e Maria Tommasoli sono ancora seduti fuori dalla neurochirurgia di Borgo Trento, stanno aspettando fuori da quella sala operatoria da 40 ore, 40 ore di intervento. E per 40 ore in quella sala i medici ci hanno provato. E per 40 ore loro hanno aspettato, il lungo corridoio, avanti e indietro, e il muro bianco, freddo, senza una crepa.
“È stato fatto tutto il possibile”, hanno detto quelli nella sala a quelli fuori dalla sala, “ma è entrato in coma irreversibile”.
I giorni passano e sono tutti uguali.
Di nuovo il corridoio, il muro bianco, il sedersi accanto a lui, collegato alle macchine e ai tubi.
È un tempo senza tempo, è un tempo non-tempo.
Le lancette dell’orologio paiono muoversi in modo impercettibile seguendo una linea tutta loro in cui i giorni si accavallano alle notti e i giorni e le notti ad altri giorni e ad altre notti cosicché diventa quasi impossibile distinguere l’oggi dal ieri.
È un tempo in cui sembra che nulla accada. Tutto è fermo, silenzioso e, nello stesso tempo, tutto è attento a cogliere il più piccolo movimento, ogni fatto, ogni gesto, ogni parola che potrebbe tramutarsi in evento.
I giorni passano e sono tutti uguali.
“Le sue condizioni sono stazionarie ma la sofferenza al cervello è gravissima”, spiegano i medici; “a questo stadio rimane poco: o migliora, o peggiora”.
Non ci sono più i rumori, tutto è ovattato, i passi, le voci, gli odori, gli sguardi.
Sguardi ovattati che incontrano altri sguardi ovattati, e quell’odore acre di disinfettante che arriva al naso come un pugno.
È un luogo che sa di sospensione quello dell’ospedale.
Solo ogni tanto dei rumori: i passi in fondo al corridoio, la porta dell’ascensore che si apre, la macchinetta del caffè, le monete che cadono. Qualcuno che apre una finestra e dal basso le voci degli infermieri che chiacchierano mentre si fumano una sigaretta.
Ma sembra tutto lontano, distante, chiuso in quell’odore di anestesia e in quel colore bianco che trattiene.
Dentro la stanza, lui, quello dell’altra notte in Porta Leoni, quello con i due amici, quello del “no” alla sigaretta. Lui è disteso sul letto mentre c’è chi entra e gli si siede accanto, gli parla, lo accarezza, e la stanza è un continuo via vai: i suoi genitori, il fratello Alessandro, la fidanzata Erika, e poi gli amici di quella sera durata un’eternità, quelli i cui ricordi sono ofuscati, i due che sono appoggiati al muro e a malapena si reggono in piedi, e poi i colleghi. E poi di nuovo i suoi genitori, e Alessandro, Erika, e gli amici, i colleghi.
In ospedale arrivano fiori, biglietti perché tutti vorrebbero trovare le parole giuste da dire, tutta Negrar, ma anche tutta Verona, si stringe intorno alla sua famiglia.
Le “parole giuste da dire”.
“Coma irreversibile”. “Essere in fin di vita per una sigaretta”, dice Maria Tommasoli nel suo appello.
No, non possono e non devono essere queste le “parole giuste”.
Al parcheggio delle Golosine viene ritrovata l’Audi A3 grigia viene ritrovata, si risale al proprietario della macchina, una donna di Boscochiesanuova. L’auto è chiusa a chiave, sui sedili e nel bagagliaio scarpe, un casco, alcuni cd, un paio di dvd e delle fotocopie di un libro. E ancora, svariati programmi elettorali di Forza Nuova con scritta nera su fondo rosso. E, poi, i volantini dell’Hellas Verona, con lo stemma a righe gialle e blu, la scritta nera e i due mastini con tra loro il tricolore.
Intanto le indagini proseguono. Il magistrato Francesco Rombaldoni intanto ha un’intuizione, che bisogna partire da qualche parte, e allora si mette a cercare tra la “lista dei 17”, tra i nomi di quei 17 giovani, tutti di Verona, tutti tifosi dell’Hellas e appartenenti all’estrema destra, ritenuti responsabili di vari pestaggi avvenuti tra il 2006 e il 2007, per i quali si ipotizza il reato di “associazione a delinquere con l’aggravante della Legge Mancino, contro la discriminazione razziale, etnica e religiosa”. Perché Verona dall’estate precedente è tornata prepotentemente sulle pagine di cronaca, come per esempio con aggressioni a extracomunitari, o a tre militari paracadutisti della Folgore perché meridionali, perché “terroni”, a un ragazzo con la maglia del Lecce; o a uno che mangiava un kebab, e a frequentatori di centri sociali.
Rombaldoni legge le parole degli inquirenti: “L’obiettivo era quello di colpire con calci, pugni, colpi di spranga e catene chiunque potesse sembrare diverso.”
Rombaldoni, il viso asciutto, le dita lunghe, legge e pensa. E, forse, la sua intuizione è giusta.
Adesso sono le ore 12, e in questo momento all’ospedale di Borgo Trento scattano le sei ore di osservazione. Cioè, bisogna aspettare 6 ore prima che il collegio medico possa esprimersi sulle condizioni cliniche del 29enne ricoverato in terapia intensiva e in stato di coma in seguito al gravissimo trauma cranio-cervicale con emorragia cerebrale provocato da un calcio alla testa, “C’è assenza di attività cerebrale”, dicono.
Il ragazzo con la tuta, a San Giovanni Lupatoto parla a lungo con il padre. Lui vorrebbe convincere il figlio a chiamare un legale e a costituirsi. Perché forse questa è la soluzone migliore, perché il ragazzo di Porta Leoni non si ripiglia e, allora, forse questa è la cosa giusta da fare. Il ragazzo con la tuta non sa che fare, “Però forse, sì, forse è meglio costituirsi, forse con un buon avvocato questa storia si sistema”. Il ragazzo ci pensa.
Anche a Londra i due ci stanno pensando, che le notizie dall’Italia non sono buone, le notizie dall’Italia dicono che quel ragazzo aggredito in corticella Leoni non è mai uscito dal coma, e che le indagini sono iniziate. E poi, la vita Londra è cara, si sa, e i due per risparmiare dormono in ostello ma gli basta fare una colazione che spendono una cifra esagerata e in un paio di giorni si trovano senza denaro.
È pieno giorno, al commissariato di Verona l’appuntato vede entrare un ragazzo giovane e due uomini. Il ragazzo è quello della tuta, i due uomini sono il padre e un avvocato.
Il ragazzo della tuta si presenta alla polizia, racconta la propria versione dei fatti ma non fa nomi “per non essere scambiato per infame”, spiegano gli investigatori, “Il padre ci ha fornito subito la massima collaborazione, mettendo per iscritto, senza esserne obbligato, le responsabilità del figlio, l’uomo dice che vorrebbe essere il papà della vittima anziché il padre di suo figlio”.
Anche a Illasi i due ragazzi ci stanno pensando da giorni, camminano per le strade del paese e ci pensano “No, aspettiamo, aspettiamo ancora”.
Il ragazzo con la tuta si è presentato alla polizia e quella notte, in due case di Illasi si sente bussare alla porta, i due ragazzi aprono ed è la polizia che arresta entrambi, nessuno di loro oppone resistenza, solo uno sguardo alla madre che gli aveva consigliato di costituirsi.
Il ragazzo della tuta e i due di Illasi finiscono in carcere con l’accusa di “lesioni gravissime”.
Ne mancano altri due adesso, quelli a Londra che si stanno chiedendo: “Come facciamo qui senza soldi?” Dicono che il fratello di uno dei due sta collaborando con la Digos e allora provano a mettersi in contatto con i fuggiaschi e li convince a tornare, acquistando loro un biglietto aereo Londra-Bergamo. Il 5 maggio alle 22,30 i due arrivano a Orio al Serio, ad aspettarli ci sono la Digos e il magistrato Francesco Rombaldoni.
I due fuggiti a Londra vengono portati, come il ragazzo della tuta e i due di Illasi, nel carcere di Montorio Veronese.
Adesso sono tutti in carcere.
All’ospedale di Borgo Trento, alle ore 18 viene dichiarato il decesso di quel ragazzo rimasto sotto i ferri per 40 ore e in coma da giorni perché picchiato per un “no” ad una sigaretta.
È proprio mentre alle spalle dei cinque si chiude la cella i cinque capiscono che ora le cose non sanno se si sistemano.
Il giorno dopo il capo d’accusa dei cinque diventa “omicidio preterintenzionale”. “Preterintenzionale” significa che va oltre l’intenzione di chi agisce, che è un’azione in cui l’evento dannoso è più grave di quanto fosse l’intenzione dell’autore. Che è più grave di quanto si pensava.
Forse scappare non è stato un buon piano, forse picchiarlo non è stata una buona idea, forse non è come nei film.
Ci sono dei giorni in cui i cerchi che si chiudono. Nei modi più inattesi, a volte modi desiderati, altri scongiurati, perché nessun genitore dovrebbe seppellire un figlio.
Ci sono giorni come questo 5 maggio 2008, dieci anni fa, come domani, in cui alcuni pezzi strappati sembrano andare al loro posto: le confessioni, gli arresti; mentre altri sembrano destinati a non ricucirsi mai più.
Fine dell’attesa, della sospensione.
Fine dei giorni e delle notti passate a guardare un muro bianco, a bere caffè scadente, a fare su e giù per il corridoio, a entrare in una stanza per parlare e stringere mani e accarezzare un volto sperando, sperando anche in un minimo movimento.
Fine delle preghiere.
Adesso come non mai, Luca e Maria Tommasoli si stringono e cercano di proteggersi e farsi forza, perché un senso è impossibile da trovare e, allora, si rimane così, come quei pezzi strappati tra le mani.
“Oh ce l’hai una sigaretta o no?”
Chi sono loro?
Adesso ve lo dico.
Il ragazzo della tuta si chiama Raffaele Dalle Donne, lo chiamano “Raffa”, 19 anni, è di San Giovanni Lupatoto, studia al liceo classico Maffei ed è un ex attivista di Blocco Studentesco, l’associazione giovanile legata a Fiamma Tricolore e Casa Pound.
È già noto alle forze dell’ordine, colpito dal Daspo, nel febbraio 2008, il provvedimento che allontana per un anno gli ultras violenti dagli stadi, ed è implicato nelle indagini della Procura veronese sul gruppo di 17 giovani accusati “associazione a delinquere con l’aggravante della Legge Mancino”. Questo è Raffaele Dalle Donne, ed è un tifoso Hellas Verona.
Quelli scappati a Londra sono Federico Perini, “Peri”, 20 anni, di Boscochiesanuova, ultras della curva sud dell’Hellas, colpito da Daspo. È stato candidato di Forza Nuova alle ultime amministrative per la seconda e l’ottava Circoscrizione, è così che ha conosciuto quello che li ha portati in Austria. E, poi, Nicolò Veneri, detto“Tarabuio”, 19 anni, vive a Verona, anche lui già indagato nella lista dei 17; anche lui ultras dell’Hellas, anche lui colpito da Daspo.
E poi ci sono i due di Illasi, quelli che non si sono mossi da lì, Guglielmo Corsi, di 19 anni, metalmeccanico, lui è un tifoso dell’Hellas e fondatore di un gruppo di supporter. E Andrea Vesentini, 20 anni, promotore finanziario, dicono c’entri poco con il calcio e pure con la politica, e che sia sconosciuto alla polizia.
E, poi, c’è il ragazzo di Borgo Trento, il ragazzo che non s’è ripigliato, lui è Nicola Tommasoli.
Nicola che quella notte aveva 29 anni, Nicola che da un anno viveva a Negrar con la fidanzata Erika, che aveva studiato al liceo Maffei e poi a Treviso dove si era laureato in disegno industriale allo Iuav in Industrial design, e lì aveva abitato in un appartamento insieme ad altri studenti. Nicola che adesso aveva un buon lavoro come disegnatore tecnico per una ditta di Affi. Nicola che aveva una creatività incredibile, che esprimenva al computer, aveva vinto anche alcuni concorsi internazionali. Nicola che aveva tantissimi amici e che spesso usciva anche con il fratello poco più grande di lui. Nicola che non amava il calcio ma aveva una grande passione per i motori, auto e moto da corsa. Nicola che d’inverno praticava lo snowboard e d’estate andava in skate. Nicola non aveva mai avuto nessun particolare credo politico, che era una persona creativa e sensibile.
Nicola che aveva una bella vita e che e adesso stava pensando al futuro.
Nicola che quella sera era uscito per divertirsi e divertirsi non è reato. Nicola che quella sera aveva rifiutato una sigaretta, e anche dire “no” non è reato.
Nicola Tommasoli che è morto il 5 maggio 2008 all’ospedale di Borgo Trento.
Nicola Tommasoli il cui processo, per il suo omicidio, è iniziato il 9 febbraio 2009 e ancora non è terminato.
Adesso silenzio.
C’è uno strano silenzio il 10 maggio, a Verona e a Negrar, tutto si è fermato, è lutto cittadino.
Il funerale di Nicola si svolge il 10 maggio nella chiesa del XV secolo di San Bernardino a Verona.
A Verona, e non a Negrar, dove abitava. A Verona perché è lì che è morto, e allora forse è giusto che sia questa la città dove celebralo. A Verona perché il maggior numero di persone possa partecipare al saluto a Nicola, perché questo saluto si diffonda per tutta la provincia.
Per volere della famiglia non ci sono giornalisti né autorità.
La chiesa è piena: la famiglia, gli amici, i compagni di scuola, gli insegnanti, i colleghi, quelli che Nicola non lo conoscevano bene, ma che ogni tanto lo incrociavano, quelli che Nicola non lo avevano mai visto, ma che in questi giorni non hanno potuto non pensare a lui.
Non ci sono giornalisti o telecamere oggi.
Adesso c’è solo silenzio.
Anche a scuola c’è uno strano silenzio.
Certo che a uno strano effetto leggere di tuoi coetanei coinvolti in un fatto di cronaca. Leggere che hanno picchiato un ragazzo, lasciandolo lì, steso a terra, immobile e tutto per un “no” ad una sigaretta. L’effetto strano si amplifica se sai che quei ragazzi li hai sicuramente incontrati per le strade della tua città, per i corridoi della tua scuola, magari erano seduti al banco dietro al tuo. Magari ti stavano simpatici, o magari no, non ti era mai sembrato così importante.
Fa uno strano effetto anche se sei l’insegnante di questi ragazzi. Ti domandi se c’entri in qualche modo anche tu in quello che è accaduto, se avresti dovuto notare di più, fare di più. O, forse, no, forse sì. Insomma, tu sei l’insegnante, ma poi c’è la famiglia, gli amici, la società…
Sono giorni dall’aria pesante quelli che seguono la morte di Nicola, giorni che non lo diresti che è primavera e che per molti la maturità è alle porte, giorni densi di domande senza risposta.
Nelle classi, gli insegnanti dedicano un tempo per parlare insieme, ragionare, riflettere, i temi sono sempre gli stessi le scelte, il futuro: “Cosa farai l’anno prossimo?, “E tu? Io ancora non lo so”
Si parla tanto, si parla di Nicola, di quei cinque, di quello che è successo quella notte, di quello che succede in città.
Si parla tanto perché questo è qualcosa di molto vicino a loro, di vicinissimo, perché si parla di loro.
Al liceo Maffei, poi, è ancora più strano. Qualcuno se lo ricorda bene Nicola, passato da lì dieci anni prima, e tutti conoscono Raffaele che su quei banchi sedeva fino a due settimane fa.
Durante l’intervallo ci si raduna come al solito in piccoli gruppi, tutti parlano sottovoce e guardano quell’aula, quella dove c’era uno di quei cinque, “che io mai l’avrei pensata una roba così”.
Nicola e Raffaele – Nicola dieci anni prima di Raffaele, dieci anni prima di essere ucciso da Raffaele e dai suoi quattro suoi amici, così, una sera – hanno studiato nello stesso liceo, lo “Scipione Maffei”, fiero di essere il più antico liceo d’Italia. Nato nel 1804, il “Maffei” è orgoglioso della sua storia bicentenaria, ma anche delle virtù custodite, generazione dopo generazione, in una carta dei valori che onora “lo spirito critico; la laboriosità; la legalità; l’assunzione di responsabilità; la coscienza dei diritti e dei doveri”.
Qui si impara a dare forma di parola alle emozioni, nutrimento e argomenti per le passioni e le idee. Qui è radicata la consapevolezza che la democrazia sia “ars dubiae”.
E allora bisogna chiedersi dove nasce la muffa aggressiva che ha rovinato i giorni di Raffaele e spezzato la vita di Nicola?
“Ce lo stiamo chiedendo – dice il preside – e ce lo siamo chiesti. Ci siamo chiesti se abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per educare gli studenti alla buona cittadinanza”, dice, “Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti”.
Il preside non vuole e forse non può dire di più. Il circuito istituzionale e mediatico descrive un’occasione perduta di “recupero”, di disvelamento, ma non spiega le ragioni della “caduta” in un “rito della crudeltà”, per nulla occasionale o impulsivo, che nel tempo si è esercitato nel cuore di Verona contro gli “altri”.
I compagni e le compagne di Raffaele hanno come il muso. Non vogliono difendere Raffaele, ma non si è mai comportato da mostro.
E allora come è potuto accadere ad un loro compagno di classe?
Ne stanno parlando accanto alla fontana del chiostro, Giulia e Simone provano a ragionare – ancora una volta, in questi giorni – su quei perché.
“Come è potuto accadere? Perché?”
Prova a spiegarsi Giulia: “Non c’è spazio per l’ignoranza che produce l’ottusa violenza senza scopo qui. Si viene travolti da quel che c’è là fuori, oltre quel cancello. Se un responsabile e una responsabilità si deve cercare, va trovata non in questo liceo, ma nella città. In quella Verona dove può capitare – e capita spesso – che si senta dire in autobus “non siedo qui, accanto a questo negro” e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole… Magari chi le ascolta, non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica”.
Simone ne sta parlando tanto con Giulia e, come Giulia, ha idee lucide e asciutte. “In questa storia, si usano le parole per nascondere quel che è accaduto e ancora può accadere. Si dice: Raffaele era un bullo. Non lo era. Si dice: è un delinquente. Non lo era. Si dice: è solo una mela marcia, è un caso isolato. È falso che sia la sola mela marcia del cesto, il caso non è isolato ma addirittura, nella sua assurdità, ordinario. Si dice: la politica non c’entra. E invece, c’entra, eccome”, dice Simone, “se politica è l’odio per il diverso, se politica è un’ideologia diffusa là fuori”, indica l’arco, il cancello, la strada, “che legittima chi vuole liberarsi di chi non è uguale a te, per colore della pelle, per convinzioni, per religione, per la lunghezza dei capelli. Tutto questo ha un nome: razzismo, xenofobia. Se si usano le parole appropriate, le ragioni della morte di Nicola, e di quel ha combinato Raffaele con i suoi amici saranno evidenti. È quel che dovreste fare: ed è chiamare le cose con il proprio nome”.
Chiamare le cose con il proprio nome.
“Difendi il tuo simile e distruggi il diverso” recita il motto dell’Hellas Verona, una delle curve da stadio più famose in Italia: dura, pura, rigorosamente di estrema destra.
Nel settembre 2004, di fronte ad un bar nei pressi dello stadio, poco prima di una partita, un appartenente alla tifoseria dell’Hellas Verona insulta (“Negro di merda!”) un ragazzo di origine senegalese di passaggio. Il ragazzo nero chiede conto e ragione di questo insulto e, allora, il ragazzo bianco gli lancia un boccale di birra in faccia, che gli procura una profonda ed indelebile cicatrice sul volto.
Nel marzo 2008, un altro ragazzo nero è in un bar della Valpolicella. Tutto il bar sta cantando canzoni da stadio dell’Hellas Verona. E allora anche il ragazzo nero lo fa con gli amici si unisce ai cori, canta le canzoni da stadio dell’Hellas Verona.
Ma lui è “negro” e questo fatto infastidisce più di qualcuno. Nemmeno il tempo di apostrofarlo con i soliti epiteti, e la furia dei “butei” si accanisce sul ragazzino. Furia violenta a tal punto che il ragazzino è tuttora in sedia a rotelle e non riesce a camminare a causa delle lesioni subite.
Nel bar erano circa 40, ma nessuno ha visto niente.
Chiamare le cose con il proprio nome.
E, allora, torniamo indietro.
Verona, mercoledì 30 aprile 2008.
Dieci anni fa.
Dammi una sigaretta.
Una settimana corta, questa, domani è festa e davanti ci quattro giorni di ponte.
Quattro giorni liberi, tutti da inventare. Quattro giorni non programmati. Del tempo da passare in famiglia, con gli amici, da dedicare a ciò che si ama. Quattro giorni per staccare dalla quotidianità.
Quattro giorni. Un giorno, 24 ore ore. E, allora, davanti, 96 ore “impreviste”, tutte da scrivere, tutte da riempire.
Come dappertutto, i ragazzi ne approfittano per uscire e fare tardi che tanto domani non c’è da andare a scuola o lavorare, che tanto stanotte “la città è tutta per noi”, “si può fare quello che ci va”, “facciamo un giro in centro”, “vedrai che ci divertiamo”, “Hai una sigaretta?”
Corticella Leoni, è uno spazio buio, stretto. Lì ci sono tre ragazzi sono Nicola, Andrea ed Edoardo.
Anche loro hanno fatto serata. Parlato, scherzato, bevuto, fumato. Si sono divertiti. Anche loro domani non andranno al lavoro che domani è il Primo maggio, domani, cascasse il mondo, si dorme.
I tre, sono appena usciti da un locale e stanno tornando alla macchina.
Camminano quando ad un certo punto sentono una frase che è questa: ”Codino, dame na sigareta”, e uno di loro risponde “No”.
96 ore da riempire che cominciano con 3 minuti.
Andrea viene colpito, all’improvviso, di spalle, neanche il tempo di girarsi.
E, poi un altro, secco, duro, mentre fanno per girarsi, senza il tempo di voltarsi, senza il tempo per capire, Nicola, Andrea ed Edoardo hanno i cinque addosso. Sono quelli con il bomber, i jeans, il cappellino. Sono quello della tuta, quelli che scappano a Londra, quelli di Illasi.
Colpiscono, senza un fiato, senza una parola. Solo calci, pugni, capelli tirati, vestiti strappati.
I tre cercano di difendersi, corpi che non riconoscono, che non vedono se non a pezzi. E sono braccia e gambe, e sono bomber, e scarpe, e mani, e un cappello, e capelli e occhi e jeans. Ed è un cadere a terra e rialzarsi, continuamente, con la città che gli ruota intorno, negozi, bar, ciottoli, e quel negozio con le insegne luminose.
I tre cercano di difendersi, gridano, cercano aiuto.
La furia dei cinque è grande, e sotto i colpi, le ginocchia cedono, i corpi si piegano. E ogni volta cadono e ogni volta provano a rialzarsi, fanno leva sulle braccia, ma ogni volta un altro colpo li ributta a terra. Le teste tirate all’indietro, per i capelli, le braccia ora sono bloccate, la schiena inarcata, colpita.
I cinque sembrano un corpo solo, un’unica forma di braccia e gambe. Non parlano, non un insulto, non un nome, non una voce.
Sono bestie. Bestie silenziose, animali impazziti, furie cieche.
Colpiscono, spingono, tirano, calciano. I loro occhi sono fuoco , le bocche serrate. I muscoli tesi, i corpi rigidi, corpi come macchine. Ad ogni colpo ne segue un altro, e poi un altro e un altro ancora.
“Quando finirà? Quando smetteranno?” Non smettono. “Bisogna pensare, capire cosa fare” ma i colpi sono più veloci dei pensieri e pensare diventa praticamente impossibile.
Nessuno pensiero. Solo colpire. Uno, due, tre, quattro, cinque, dieci e di nuovo.
Gambe che tremano che faticano a reggere il peso del proprio corpo. Paura per il prossimo colpo che arriverà. È arrivato il prossimo colpo.
Sentire i polsi che vengono stretti, torti. Il dolore in ogni parte del corpo fino a non sentire più nulla, a non distinguere più una parte del corpo dall’altra, a non distinguere più il proprio corpo.
Nicola, i pugni serrati cerca di difendersi, vuole difendersi, Nicola, resistere. Le mani le tiene strette, Nicola, più strette per poi sentire un dolore acuto, più forte del resto. Il pollice e l’indice di Nicola scricchiolano, si frantumano.
Un altro colpo, un altro, di nuovo, alle gambe, all’addome, un calcio.
Nicola è a terra. Gambe e braccia non lo reggono più. Rimane a terra.
Lo sguardo su questa notte di metà primavera, su questo blu veronese. Lo sguardo a contare le stelle per provare a non sentire il dolore,
Continuano a colpire.
Nicola è a terra, conta le stelle e si dimena.
Urla di dolore.
Un calcio, ancora, gli arriva dritto alla nuca, un colpo lì alla base del collo.
Un colpo che è l’ultimo.
Adesso Nicola non urla più, non si dimena, resta steso a terra immobile che pare addormentato.
Il tempo sembra essersi fermato,
Il tempo si è fermato all’improvviso, ora che qualcosa è cambiato, ora che qualcosa si è strappato.
I cinque scappano via, ora.
I due amici, Andrea ed Edoardo, si reggono a malapena in piedi, si avvicinano a Nicola, lo chiamano, lui non risponde e loro quasi non lo riconoscono. Che non è Nicola quello, che sembra diverso, gambe e braccia e dita spezzate. Che non è Nicola quello, che vorrebbero rimetterlo insieme,e allora, per un istante restano lì, contro la parete alta e bianca di Porta Leoni. E poi li riprendono quei pezzi, pezzi di Nicola e li riattaccano insieme, e capiscono che devono chiamare i soccorsi.
Verona, mercoledì 30 aprile 2008.
Dieci anni fa.
Il resto della storia ve l’ho già raccontato.
Versione audio https://www.youtube.com/watch?v=vsDGFscz8J8
SARA PARZIANI. Classe ’84, laureata in Scienze sociali per la cooperazione e lo sviluppo. Tra il 2008 e il 2012, frequento la Scuola di Teatro SpazioVerticale, diretta da Simona Assandri e basata sulla metodologia del Maestro Jurij Alschitz. Costantemente in formazione, proseguo i miei studi di teatro e di teatro di comunità con, in particolare, Jurij Alschitz, Luciano Colavero, Sandra Zoccolan, Matilde Facheris, Tatiana Tarasova, Olga Melnik, Giorgina Cantalini, Lucia Calamaro, Teatro Periferico, Social and Community Theater Center e Bird -Shaped Theater. Dal 2015 sono parte di Teatro degli Incontri, diretto da Gigi Gherzi. In occasione di EXPO 2015, per la ong Deafal sono attrice e autrice di “Cerchiamo terra”. Nel 2018 collaboro con Ture Magro come co-autrice dello spettacolo “Uno strappo. Storia di Nicola Tommasoli”. A ottobre 2018 vengo selezionata per il progetto “Scritture – 6 nuove voci della drammaturgia italiana” da Lucia Calamaro. Lo spettacolo, di cui sono autrice e attrice, debutta a maggio 2019 al Teatro India – Teatro di Roma, e nell’ottobre 2020 vince il primo premio di drammaturgia contemporanea del Progetto DOIT festival L’artigogolo – scrittori per il teatro.
TURE MAGRO Ture Magro, attore e sceneggiatore nasce nel 1984 da una famiglia catanese di artigiani e architetti del legno. A 18 anni inizia il proprio percorso artistico professionale nella collaborando con diversi registi e attori provenienti dal Teatro stabile di Catania. In seguito a questa esperienza e al percorso di studi di Scienze per la Comunicazione Internazionale, si trasferisce nel 2004 a Londra dove porta a termine un lavoro mirato sul corpo che unisce agli studi di arti marziali e ad una costante ricerca giornalistica e di scrittura con un focus sui temi più attuali della contemporaneità. Rientrato in Italia a 22 anni si trasferisce a Genova dove è’ attore di diversi spettacoli diretti dal regista Jurij Ferrini e nel 2007 è scritturato al Teatro Biondo di Palermo, per Il povero Piero, diretto da Pietro Carriglio. Nello stesso anno con Andrea Lanza, avvia un altro percorso professionale e di formazione lavorando per un intero anno sul Popriscin de Il diario di un pazzo (Gogol). Lavora a diversi spettacoli diretti dal regista Beppe Rosso nel 2016 /2017 /2019 /2020 . Nel 2009, dopo l’incontro con un gruppo di colleghi, decide di dedicarsi alla fondazione di una nuova compagnia. Nasce così Sciara Progetti Teatro, delle cui produzioni Magro è autore, regista e interprete e che, come punto di partenza, si prefigge quello di sperimentare spettacoli di narrazione su alcune tematiche centrali del contemporaneo. Gli ultimi spettacoli di Ture Magro: Padroni delle nostre vite , storia di un imprenditore calabrese che si è ribellato alla ‘ndrangheta, Malanova e Uno strappo, il caso Nicola Tommasoli sono stati rappresentati in Italia, Germania e Sud America.
Immagine di copertina: Opera di Akiko Suzuki, coperta con materiali composti, “Another Person # 1”.