Uno sguardo per uscire dalla notte pittorica: i recenti lavori dell’artista G. Cuttone (Antonino Contiliano)

2016 Effetto Morgana, acrilico su tela 50x50

 

Comandare significa innanzitutto parlare agli occhi.

Napoleone

 

Vivere significa accecarsi sulle proprie dimensioni.

Cioran

 

Cosa ci sta a fare un microprocessore sulla fronte di una figura di rivoluzionario leggendario quale è stato Ernesto Guevara o lo stampo della memoria-ram sul petto del “Pantocratore” al posto della croce, il simbolo che indicava il rimando a un potere trascendente e insondabile (il divino che attraversa frontalmente lo sguardo dello spettatore)? E cosa indica l’iconizzazione di quelle “forze” simboliche eterogene che, strutturate e “meticciate” come un complessa identità polimorfa, informano di sé la figura pittorica del comandante Giap? Il movimento che la modella con precisi intrecci di varia natura rende visibile un’identità che dà scacco a qualsiasi vecchia convinzione che sfrutta il concetto di una forma compatta e sostanziale (uniformità) per il riconoscimento delle identità dei soggetti. Qui vive invece una com-posizione di proprietà (qualità) che non ha pari; e qui è anche, forse, la ragione del suo titolo “Il sorriso di Giap”? Stiamo alludendo alla produzione artistica più recente del laboratorio del pittore Giacomo Cuttone.

Forse (ma diremo più avanti) il pittore ci vuole dire che ci troviamo di fronte a una visibilità pittorica che non acceca e a una creatività artistica consapevole della responsabilità comunicativa dell’arte e della sua funzione di agente di libertà. Oggi invece la super-eccitabilità di certa estetica contemporanea, permessa da certo uso deviante delle nuove micro-tecnologie elettronico-immateriali, che si sono impossessate della potenza della materia e della sua energia informativa, è assoggettata all’etica delle rappresentazioni estetizzate e sedativo-estetizzanti. Sembra essere di fronte al trionfo di uno spettacolo permanentemente allucinato e tale da trasformare la luce nel regno della notte senza stelle. Tale sono gli esiti incontrollati della rincorsa innovativa e luccicante della civiltà dell’immateriale industrializzato e del portato delle sue immagini di sintesi e del suo fitness sempre più accelerato: un essere inchiodati cioè a un eterno presente, un divenire azzerato. Lo zero che ha di mira l’anestetizzazione dello sguardo e l’azzeramento della sua distanza giudicante, percezioni alternative.

L’accecamento è parte integrante delle nuove immagini di sintesi, ossia quelle costruite ad hoc attraverso il linguaggio bit dell’informatica. Il linguaggio formalizzato in grado di ridurre lo spazio, le superfici, le linee, i punti, i colori… a combinazioni numeriche predeterminate. Spazi e superfici senza immagini. Ambienti che parlano piuttosto del loro silenzio coatto, ossia della pratica del potere e del dominio audiovisivo automatizzato. Il potere dell’era elettro-informazionale bit e che Paul Virilio ha definito come “La procedura silenzio” (2001).

Una procedura cui non sfugge – dice Paul Virilio – neanche lo stesso mondo dell’arte. Come dire che ci troviamo di fronte a processi di desertificazione della creazione artistica soggettivata e a patire “Una pittura non solo senza figure, ma senza immagini, una musica delle sfere senza ascolto, altrettanti sintomi di un accecamento che avrebbe il corrispondente nel silenzio degli agnelli” (La procedura silenzio, p. 59). Una pittura senza illusioni. Illusioni (fantasmi di sintesi) senza illusione. Un oscuramento finalizzato al consenso acritico, o a un vedere/audio artisticizzato, utile solo a una società del “controllo” (Michel Foucault). Una società né più sovrana e neanche disciplinare.

L’illusione dell’arte, quella propria all’arte, qui, in questi ambienti alfa-numerici e ultra determinati aprioristicamente, infatti è stata esiliata, così come una volta Platone bandì dalla città i poeti, perché “eccitavano” l’immaginazione del popolo e fino al punto di indurlo ad abbracciare le “illusioni” come verità antagoniste, dissensi etico-politici e pratiche conflittuali. Nientificare, azzerare e oscurare qualsiasi sguardo critico è diventato il gioco preferito della svolta delle scritture lumino-bit verbali e non verbali. Contrariamente al monito di Klee, “ l’arte non rende più visibile, ma acceca. Mentre la cultura di massa del secolo dell’Illuminismo audivisivo rende sordi e muti di fronte a ogni contestazione eretica del suo conformismo” (Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, pp. 66-67).

Ma se l’arte come comunicazione dissensuale e pratica sovversiva è stata sempre una con la sua stessa potenza di dare corpo e consistenza estetica alle percezioni immaginative/creative dell’artista contro-tempo, allora è obbligo ri-prendersene le vie e creare – come hanno lasciato detto Gilles Deleuze/Felix Guattari – blocchi di percetti e affetti smercificati creando “interruttori: per sfuggire al controllo”; “interstizi di non-comunicazione” che cristallizzano figure de-figurate o de-figurazioni che figurano, forze e rapporti paradossali.

Alla logica del senso e dell’aisthesis artistica non può essere portato via il suo diritto a sognare e quello di dare/creare “essere di sensazioni” come cristalli di un fiocco di neve che rimandano a processi casuali e caotici. L’aisthesis dell’arte non finisce mai di rincorrersi tra la presentazione della rappresentazione organizzata e la tensione disorganizzante che, divenire non preconfezionato, è parte vitale e resistenza che agisce per via del pittore che la intercetta.

I cristalli che Gilles Deleuze ha chiamato “blocchi di percetti e di affetti” (né percezioni né sentimenti), sono (solo per breve cenno) composti che consistono di per sé come un’autonomia di senso (tipica di ogni enunciato/espressione d’arte) e di valori conflittuali e antagonisti, alternativi; per cui l’arte diventa una “macchina da guerra” contro gli stereotipi e le logiche del dominio, cui invece mira l’accecamento dell’arte informatizzata: “Comandare significa innanzitutto parlare agli occhi” (Napoleone). In questa forma d’arte sono infatti gli artefatti già confezionati che dicono all’occhio e alla visione ciò che deve essere significato e per di più in maniera standardizzata e uniforme, in quanto la dimensione del piano/superficie è solo quella dell’inferenza psico-spaziale data dai nodi della rete binaria, informatica. Nessuna fuga e sottrazione fantastica, veramente creativa, deve dunque essere consentita in un mondo in cui ogni cosa e immagine è preconfezionata e ogni organo è messo da parte dalle protesi meccaniche, gli automi e i linguaggi cioè che li rimpiazzano e li sostituiscono nella funzione dell’aisthesis sia artistica che quotidiana. Come dire che nessuno organo di senso può entrare in sciopero: nessuna protesi o automa infatti entra in sciopero per l’usurpazione dei diritti percettivi idiosincratici propri. Anzi si pongono e propongono come l’unica carta vincente al fine di una comunicazione senza barriere e limiti, universale.

Lingua e ordine simbolico unicamente asserviti all’impero del panoticco digitalizzato dell’occhio digitalizzato e ubiquitario (nuovo Polifemo). I linguaggi particolari sarebbero solo loro variazioni continue come differenze di una durata altrettanto “una” e assoluta, continua. Linguaggi e combinatorie automatiche non disdegnati da molta arte della contemporaneità della tele-visione e della tele-azione della velocità della luce, il mondo delle vibrazioni e delle ondulazioni elettromagnetiche; la simulazione che, mentre ha messo il tempo reale (punto in cui sono contratti passato e futuro, ovvero la fine delle successioni e delle distanze temporali) al posto dello spazio reale, ha abolito la partenza e l’arrivo e l’ombra dei corpi. Lo spazio cioè della “prospettiva”, del disegno geometrico, dei rilievi, dei volumi, delle forme, dei colori e delle sfumature ottico-tattili della pittura e dei vecchi artisti del regime estetico della “rappresentazione”, che, caro all’immaginazione soggettivante (il punto di vista) quanto dirompente, non sembra aver più ragioni d’essere.

Oggi questo tipo di spazialità pittorica sembra essere stato soppianto dalla tentazione dell’elettronificazione numerica che predispone pixel art a misura e bit di luce come pigmento imburrato. Una tentazione, si ricorda, cui non si sottrae molta della stessa produzione artistica contemporanea. In queste zone vive una figuralità di semplice estrazione algoritmica e un cursore che comanda la mano del pittore; qui i pennelli e gli impasti, i tocchi, i ritocchi e i rintocchi cromo-sonori della mano del pittore non hanno più cittadinanza; qui è il pittogramma dell’artificialità senza sorprese. Il mondo artificiale che galleggia nello spazio-tempo della second life logicistica e delle relative immagini virtuali, anche immersivi e interattive. Un reticolo di visioni senza sguardo. La nuova caverna platonica, senza ombre. Qui non è né lo sguardo né l’immaginazione dell’artista che vede/tocca e dà corpo all’immagine dell’immaginazione. La “sensazione” diretta tace. Non si fa colorante e il combinato di logica del senso e logica dell’aisthesis no ha più spazi d’azione.

Nessuna vita propria, concreta e oggettiva, hanno più i “percetti” e gli “affetti” dell’artista in conflitto. Il conflitto con le forze del caos e con le immagini ammannite dell’ordine omologante del potere costituito è messo a tacere. Si innesta il potere dell’industrializzazione del “non-sguardo” e della percezione: il potere che ci libera dall’atto del vedere, dell’immaginare e del “rendere visibile”, mentre si estende il dominio dell’asservimento al visivo virtualizzato, la politica artistica dell’esilio degli altri sensi e l’esclusione dell’invisibile come reale anche se non attuale e “virtuale” non astratto.

Diversamente, qui è il caso di ricordare, avevano detto e praticato alcuni dei grandi pittori di ieri. Fra questi, e solo per citarne solo due, Cézanne e Klee (memoria da non perdere); i pittori e maestri che nel conflitto con l’invisibile hanno/avevano impegnato il loro destino di libertà e creatività artistica memorabile.

Tra i pittori che non hanno dimenticato questa eredità, e sicuramente in contro-tendenza, nonché di ribellione agli asservimenti in corso e allo stato di cose presente, ci piace fare il nome dell’artista Giacomo Cuttone (Mazara del Vallo). Uno sguardo ad alcune delle sue ultime opere – “Il Proc(h)essore, Il sorriso di Giap, Pantocratore, Le città invisibili…” – è significativo in tal senso. Adorno di una memoria ram sul petto al posto della croce (corsivo nostro) è il Pantocratore. Qui è il vedere di un distillato cristallino della de-formazione artistica che il pittore Cuttone ha messo all’opera. Alieno agli algoritmi dell’algebra informatica, ha toccato la figura del rivoluzionario Guevara e messo in forma il suo divenire immagine artistica di conflitto, lì dove la ribellione del Che (Ernesto Guevara) è nel suo rifiuto di una poiesis finalizzata a ridurre la mente ai circuiti di un microcip, Il Proc(h)essore. L’opera pittorica in atto costituisce sia immagine di copertina del “Guevara goguEr”, il testo poetico collettivo-sine-nomine e multimediale già in rete (Noi Rebeldía 2016), sia scelta di interazione plurale e creativa con lo testo stesso poetico e la musica che vi mescola (https://www.youtube.com/watch?v=NSRpwqgltvI). Nessuna mente e nessun pensiero, specie se simbolo acronico di una vita dedicata all’azione rivoluzionaria anticapitalistica, può essere ridotta a questi certificati di decessi e di volontà di oppressione e soppressione delle facoltà immaginative e desideranti. Altra straordinaria resa artistica di snebbiamento, che l’artista in questione ci offre, è quella che si può ammirare nella pittura che sventaglia Il sorriso di Giap. Anche quest’ultima opera pittorica, prossimamente, sarà immagine di copertina del testo poetico collettivo-sine-nomine e sua interazione multimediale plurale (“Er Giap”, Noi Rebeldía 2016). In atto il testo poetico Er Giap – recitato – è in rete sulla rivista MALACODA (cfr. http://www.malacoda.eu/2016/02/26/noi-rebeldia-er-giap/). Il sorriso di Giap mette in immagine l’immagine del “blocco” delle forze eterogenee che miscelano l’identità umana, e lo fa fino al punto in cui la simbiosi dell’inumano (l’animalità e l’ideologico con i segni del tempo storico che hanno caratterizzato la lotta del comandante vietnamita) con l’umano (un rimando e una rivisitazione in proprio degli studi della “Battaglia di Anghiari” di Leonardo da Vinci e, insieme, un rovescio della de-figurazione artistica praticata da Bacon) è il perfetto dell’aistheton (il sentito) del pittore. Le città invisibili, fra le altre recenti opere, obbligano l’occhio dello spettatore a scendere dall’astrazione del cielo nei bassi-fondi delle emergenze. Una danza del divenire-forma come mostra la vista del laboratorio orchestrale delle nozze delle nubi e del vento di cui ci parla l’immagine pittorica di “Effetto morgana” (Giacomo Cuttone).

Qui è il fiorire geometrizzante e cromo-polimorfo che si anima/anima come un insieme aleatorio e danzante del divenire-scene o divenire-città delle immagini pittoriche sotto la linea di un orizzonte estetico che nulla concede ai format di mercato. Il confine e la soglia che fa da bordo di conversione e di passaggio sim-biotico, in quest’opera, è un differenziale allegorico che ci dice di quanto un’idea e le immagini che gli danno corpo possano essere allergiche ai bit dei linguaggi automatizzati. È l’in-segnare altrimenti della pittura che scrive, l’arte cioè che non smette di significare artisticamente smontando e rimontando come una scenografia cinematografica e “giusta un’immagine” (Godard). Qui si innescano processi e sporgenze semiotici che solo l’arte può fare. I processi cioè del desiderio che ingravida il pensiero e che connotano diversamente la poesia dell’arte pittorica e la sua stessa bellezza come plasticità e molteplicità di senso. Quella plasticità che, dispiegandola, dà presenza fuori marketing comunicativo a quella potenza informativa (niente a che vedere con l’informazione informatizzata) “tipica” che è propria solo all’arte/poesia e che agisce come una cangiante fioritura esponenziale. Una frattura turbolenta!

Un’apertura e un passaggio per uscire dall’accecamento di questo tempo trasparente che, di fatto, invece, avvolge come una notte permanente la vitalità di ogni percezione e di ogni comportamento che rifiuta qualsiasi consenso amministrato. Il velo della notte che è l’appiattimento sul/dell’eterno presente dell’immateriale odierno, o dell’incorporeo contemporaneo che si vuole far coincidere solo con gli attualismi di moda dei merca(n)ti d’arte, quelli cioè della realtà/verità informatizzata ad uso e consumo stabilizzanti.

 

Le città invisibili (2016), acrilico su tela 40x40

Un abbandonare la notte dunque le proposte delle recenti opere dell’artista Giacomo Cuttone; un’utopia…dell’eterogeneo ed eretico artistico! Un impegno che del resto non è una novità nella produzione dello stesso (basta il riferimento alla produzione della precedente serie di opere sull’esodo dei migranti e la demistificazione delle politiche di regime beatificanti di cui quei lavori si fanno portavoce come un contro-coro)! Piuttosto una via che nel tempo si è consolidata e che l’artista (ormai mazarese d’adozione) batte semmai capovolgendo le piste d’arte che si negano all’impegno e che propongono il rifiuto etico-politico dell’esistente, l’incarcerato entro le espressioni del consenso programmato e del consumo comunicativo acritico.

Una politica dell’arte dunque, quella di Cuttone, come lotta contro la morte dell’inospitale e dell’invisibile, o creazione attiva di un qualcosa di nuovo che creda nel mondo e nell’affermazione di una nuova soggettività polimorfa, come quella che affiora nell’opera “Il sorriso di Giap” (Giacomo Cuttone) o nell’“insurgente” volto del Guevara/Proc(h)essore. Il “Che” che lucidamente, mostrandolo sulla fronte, iconizza il nemico con/contro cui bisogna fare i conti e rimanere vigili: la sussunzione/riduzione della fronte/mente – il pensiero della libertà e dell’azione – agli ordini del discorso dei microcips del controllo. Così è anche il senso de Il sorriso di Giap – l’opera che dà forma al groviglio delle “forze” eterogenee – e lì dove iconizza l’invisibile dando immagine al sotterraneo – mai trasparente immediatamente – o all’intreccio delle forme che lo figurano mentre dinamizzano la superficie della tela che li e-sistenzia. Qui è il taglio cromatico delle luci e delle ombre, quello che dà rilievo e spessore all’incrocio e all’intreccio delle “forze” umane e non umane. La scelta pittorica di linee classiche che incorporano il vitale-storico ed eterogeno; quelle che lo distendono in maniera tale da non far dimenticare mai però che comunque è il pensiero sinestetico dell’arte che ci si para di fronte, che vuole essere preso in considerazione e che, per di più, non smette di pungere perché è con lui che bisogna – ricorda – fare i conti che non tornano.

Qui anche l’indice e la possibilità, secondo noi, ancora del sogno. La voce che segna il “co-e-sistere” politico conflittuale dello stesso eterogeneo virtuale, la bollizione implicata nel nostro stesso divenire-esser-ci, mentre presta il pensiero del desiderio all’attualizzazione artistica e la mostra non solo come esemplarità tecnico-allegorica astratta di una individualità appartata. L’arte e la poesia non sono la negazione dell’agire possibile insieme. Anzi, nel caso della recente opera di Cuttone, l’atto artistico è un invito al salto del “noi” oltre la siepe e la fossa dell’immobilità.

La sua prossimità infatti è quella che si/ci accompagna con l’affermazione di una nuova soggettività metamorfica politico-artistica plurale. Il delirio del “giallo” ne è segno e la sua miscela con le altre frequenze dell’infuocata policromia artistica che, per altro verso, funge da fedele testimonianza!

Nessun tipo di apparato tecnologico standardizzato può rinchiudere la potenza delirante dell’arte e della poesia, così come è bene ricordare anche che tecnica dei nostri giorni è al tempo stesso un altro linguaggio. Il linguaggio di una polisensorialità pluralizzata (ibridazione sinestetica di sintesi fra sensorialità naturale e protesico-artificiale) che, con le sue innovazioni scopico/auditive, è sì capace di aprire possibilità percettive e comportamenti inediti ma non per questo tuttavia, vista l’origine già logico-formalizzata preconfezionata che ha alle spalle, ha il potere di confinare totalmente la molteplicità delle combinazioni che anima l’eterogeneità delle forze caotiche, e che bussano per le aperture dell’arte.

Le vie di fuga, proprie all’arte e alle reazioni attive delle soggettività degli artisti/poeti, rimangono inarrestabili e un divenire-imprevedibile sempre sfuggente alle misure programmate!

 

Recensione inedita per gentile concessione di Antonino Contiliano LogoCC

 

il pantocratore

 

Per saperne di più su Giacomo Cuttone http://www.cuttone.altervista.org/index/bio.html

 

 

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Antonino Contiliano vive a Marsala. Nell’Antigruppo siciliano è stato redattore anche della sua rivista, “Impegno 80” (Mazara del Vallo) e poi del trimestrale “Spiragli” (Marsala). Fra le sue ultime poere di poesia si ricordano: ‘El Motell Blues (2007), Tempo spaginato. Chiasmo (2007), Il tempo del poeta (2009), Ero(S)diade. La binaria de la siento (2010), We are winning wing (2012), L’ora zero (2014). Sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo, greco, macedone, romeno e croato.

Le foto dei quadri  sono tratte dal sito di Giacomo Cuttone.

La foto dell’autore a cura di Antonino Contiliano.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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