Una scimmietta dispettosa* (Loretta Emiri)

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Nonostante la scacciasse, l’idea di scrivere un romanzo continuava a saltarle addosso come fa una scimmietta dispettosa. Per decenni ha preso tempo, definendo altre priorità e forgiando scusanti. Prima che la scrittrice avvii un’opera, di solito, il titolo si è già messo insieme da solo. Questa volta è diverso. L’ho vista grattarsi con furia la testa come quando, in piena foresta amazzonica, si prese i pidocchi. Come faceva dopo le punture dei piuns, con violenza si è tormentata le gambe quasi volesse far uscire l’ispirazione direttamente dal sangue. Ha tracciato a lungo scarabocchi su un foglio di carta riciclata; simili a larve, quei segni non si sono trasformati in parole leggiadre. Pensavo che, ancora una volta, avrebbe rimandato l’avvio del romanzo; invece l’ho vista mettersi al computer, scrivere un titolo provvisorio, sfidare il primo paragrafo.

Perché ha esitato così a lungo? Da cosa è scaturito, oggi, il coraggio di partire all’attacco? “Narrazione piuttosto estesa, di solito in prosa (se si esclude l’età medievale), delle vicende, realistiche o fantastiche, di uno o più personaggi; implica generalmente una situazione conflittuale, di cui segue gli sviluppi fino alla conclusione, di segno positivo o negativo.[1] (1) Questa semplice definizione di romanzo, di per sé, svela che redigerne uno è tecnicamente complicato ma, conoscendo la scrittrice più di quanto lei conosca sé stessa, posso affermare che altra è stata la ragione del suo tergiversare. Intuendo che ciò che vedrà potrebbe non piacerle, la terrorizzava la prospettiva di incrociare lo sguardo con quello riflesso dallo schermo del computer. Aveva paura d’imbattersi in residui di tradimento, strascichi di vergogna, schegge di dolore, sensazioni d’abbandono, ma ha capito che tutto ciò deve essere affrontato esattamente in questo momento. Deve tirarsi fuori da un presente divenuto circolare; non deve lasciarsi contagiare dalla demenza altrui; deve affrancarsi da un quotidiano fatto di frasi e gesti senili, da un’esistenza rinchiusa fra quattro pareti. Osservare e analizzare la linea del tempo significa partire da un punto determinato, attraversare molteplici situazioni, giungere in qualche altro luogo, fosse anche solo un luogo interiore: le è sembrata essere questa la giusta dimensione verso cui tendere.

Resti fra noi, ma vi confido quale è stata la goccia che, oggi, ha fatto traboccare il vaso. Era uscita di casa calzando una scarpa diversa dall’altra. Quando se n’e accorta, si è sentita strozzare dal panico. L’incidente ha provocato un’intrigata riflessione, conclusasi con la messa a fuoco della situazione personale. Ha sessantasei anni e otto mesi: ha dovuto prendere atto che l’avanzare dell’età ha portato con sé vuoti di memoria e rallentamento dei riflessi. Si sta prendendo cura della mamma, ultranovantenne. La sua è una scelta, ma ciò non toglie che dura e ripetitiva sia la quotidianità. Si chiede spesso quanto tempo potrà ancora resistere prima di dare fuori di testa. Angusti sono i percorsi mentali della vecchietta; poche le frasi di repertorio, sciorinate a seconda della situazione; ad esempio, quando viene accompagnata a fare due passi, nell’illusoria speranza che si distragga, non farà che ripetere, fino allo sfinimento della badamadre, le stesse, granitiche frasi: “Su o giù? Do annamo? Va piano. Me se spezzano i reni. A pancera la porto? No jela faccio più. Che campo affà?”. Nel rione della scrittrice vivono tutti gli scemi del paese. L’ultimo di loro che ha suonato alla porta, nonostante lo spostamento si sia verificato in concomitanza di lavori fatti eseguire dall’uomo nel proprio appartamento, rivendica la di lei partecipazione alle spese di riposizionamento di una tubatura esterna in cui confluisce la merda di entrambi. Il rione è situato nel centro storico, che gli amministratori locali hanno abbandonato a sé stesso: invaso dai piccioni, sta scomparendo sotto la loro merda.

La lucida lettura della situazione ha fatto prendere alla scrittrice l’unica decisione possibile: rimettersi al lavoro prima che la memoria le volti definitivamente le spalle, prima che la pazzia venga al suo incontro, prima che merda umana e aviaria la seppelliscano. Voglio confidarvi anche per quale ragione abbia difficoltà a determinare il titolo del suo primo, quasi certamente ultimo, romanzo. Se il personaggio principale fosse una nobildonna veneziana, scriverebbe Notti amazzoniche; se all’eroina facesse conseguire una laurea in antropologia, di lei direbbe E venne chiamata due spiriti; se le facesse sposare un indio yanomami, utilizzerebbe la definizione La yanomami bianca; se le facesse scoprire che nelle vene le scorre anche sangue indigeno, allora il titolo perfetto sarebbe La mia Amazzonia. Invece vuole che la protagonista sia un’oscura proletaria autodidatta: quale titolo potrebbe mai efficacemente illuminare una così grigia identità?

Comunque, il momento veramente logorante coinciderà con la ricerca dell’editore. Lei stessa, la scrittrice, è un’oscura proletaria autodidatta. Suo padre era elettricista comunale, sua madre sarta per uomo. Attraverso la famiglia non ha trovato la strada spianata a livello economico, non è stata automaticamente inserita in ambiti privilegiati o decisionali. Non appartenendo al mondo accademico, anche se tratta argomenti antropologicamente e socialmente stimolanti, nessun barone è disposto a farle spazio nella casa editrice, o collana, da lui controllata. Se, almeno, ai suoi scritti desse un tocco sensazionalistico, folclorico, modaiolo, l’editore lo troverebbe in un colpo di spazzola. Alla sua cerchia sociale non appartengono protettori, padrini, vip, influenti amici degli amici. Non ha mai posseduto tessera del Partito Comunista, non fa parte di Comunione e Liberazione: preclusi, quindi, anche tutti i canali riconducibili alle due superpotenze ideologiche. Oltretutto non scrive male: a scuola la materia preferita era Italiano; i suoi temi prendevano voti nove e dieci; gare scolastiche di Italiano e Latino la vedevano tra i finalisti, anche se a vincere era sempre la cocca della maestra o il cocco della professoressa. In compenso, quando frequentava il corso per Segretaria d’Azienda venne incoronata reginetta della classe dall’insegnante di Francese che, guarda caso, era una straniera. Tenendo conto di quanto fin qui esposto, io mi chiedo come può solo pensare di trovare casa editrice che le apra la porta.

Proprio ieri sera ha ricevuto la telefonata di un’affezionata lettrice, che si è detta indignata per l’indifferenza del mondo editorial-letterario nei confronti della sua produzione. La scrittrice le ha ricordato che Giù la piazza non c’è nessuno è stato pubblicato quando Dolores Prato aveva ottantotto anni. Inoltre, Natalia Ginzburg sforbiciò l’enorme arazzo della Prato per mettere in commercio un prodotto etichettabile come “romanzo”. Quando Dolores ne prese visione, ridotto a un terzo del manoscritto, con drastiche correzioni di ordine stilistico e lessicale, quasi morì di crepacuore. Tre anni dopo, sola e in difficoltà, morì davvero. Il giusto valore all’opera è stato dato quando la Prato era sepolta da tempo: a diciassette anni di distanza dalla prima, succinta versione, venne pubblicato l’originale da lei autorizzato. Quando lo lessi, ebbi la sensazione che fosse stato scritto dalla bambina che Dolores era stata e non dalla vecchia che era divenuta. È questo che indigna la scrittrice: se qualcuno attribuirà valore letterario alla sua scrittura, ciò avverrà, naturalmente, dopo che sarà morta, perché la vita sembra proprio non volerle concedere detta gioia. Così sta muovendosi affinché eventuali proventi economici che, post mortem, derivino dalla commercializzazione della sua produzione intellettuale, vadano direttamente alle associazioni yanomami presenti nello Stato di Roraima, in Brasile. Quanto al romanzo appena iniziato, avendo ormai scoperto le origini del sangue che le scorre nelle vene, ha deciso di fare un tentativo più pragmatico rispetto ai precedenti: invece di fare inutilmente il giro del mondo, stavolta andrà a cercarselo su Marte, l’editore.

A questo punto starete chiedendovi chi io sia, non essendo l’autrice, né un personaggio del romanzo. Io sono Rixi, l’alter ego, l’essere simbolico che vive una vita parallela a quella della scrittrice.

 

 

[1] Enciclopedia della Letteratura Garzanti, Garzanti Editore, Milano, 1997:905.

 

Piuns: plurale di pium, piccolo insetto assai molesto, dal tupi “che mangia la pelle”.

Rixi: termine con cui gli yanomami designano l’essere simbolico che vive una vita parallela a quella dell’uomo; ogni essere umano ha il proprio rixi.

 

* Brano inedito, facente parte dell’inedito Romanzo indigenistaLogoCC

 

 

[1] [1] Enciclopedia della Letteratura Garzanti, Garzanti Editore, Milano, 1997:905.

 

Foto in evidenza di melina Piccolo.

 

Riguardo il macchinista

Loretta Emiri

La scrittrice Loretta Emiri è una delle macchiniste fondatrici e ha collaborato particolarmente al numero zero della rivista. Si è ritirata dal gruppo operativo a ottobre del 2016. È nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il "Dicionário Yãnomamè-Português", il libro etno-fotografico "Yanomami para brasileiro ver", la raccolta poetica "Mulher entre três culturas". In italiano ha pubblicato i libri di racconti "Amazzonia portatile" (Manni, 2003), "Amazzone in tempo reale" (Livi, 2013) – che ha ricevuto il premio speciale della giuria del Premio Franz Kafka Italia 2013, “A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta” (Arcoiris, 2016), il romanzo breve "Quando le amazzoni diventano nonne" (CPI/RR, 2011). È anche autrice dell’inedito "Romanzo indigenista", mentre del libro "Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più", anch’esso inedito, è la curatrice.

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