Mi vanto sempre di conoscere la poesia, scoprendola in modo selvatico e randagio fra i cinque continenti ed apprezzando in essa quelle che sono spesso -non sempre! – le voci minime. Il pensiero minore, per autonomia ed ecletticità, mi sembra si avvicini alla coralità del mondo quando, invece quello dominante (o maggiore) sembra voler essere una sua canonizzazione dogmatica, ad un tempo utile- lo è stato- e ad un tempo una cazzata[1]. C’è dell’altro, io nelle poesie cerco sempre la vita e quella potenza tellurica in grado di farmi sciogliere e schiantare a terra, farmi cambiare direzione, farmi involare. La poesia ha per me anche, come ho imparato, la funzione di essere epifanica, un vero e proprio capovolgimento del mondo, quindi capace di accorciare eliminare, reinventare concetti di tempo e spazio. La poesia infatti precede l’esistenza del mondo.
In questi tempi densi la poesia che incontro e scelgo esprime con forza il mio dolore per le ferite disperate della nostra -alienata- contemporaneità. Insieme al sentimento contemplativo dell’assoluto si mostra come un balzo tra il terrore del mondo e lo stupore di esistere. È in questa maniera che la nostra solitudine diviene piena vita cosciente. La poesia che cerco richiede molto più che struttura metrica, sentimentalismo, atarassica razionalità, edonismo sensuale e ideologia[2].
In questi giorni insieme al terrore empatico per il mondo (la seconda micidiale fase del COVID-19) sto provando la compassione per due amici e compagni di percorso, che hanno scelto il primo di schiantarsi nella disperazione de Il male superficiale con il fiato corto dell’orizzonte teso ad un simulacro di apatia, sensazioni e godimento sensuale prima di approdare con letargica ebetudine alla morte; il secondo, già con problemi giudiziari, a seguito della fuga dalla comunità e dopo un tentato suicidio si ritrova ora -isolato- nel reparto psichiatrico di un ospedale penitenziario. Ne parlo perché come rilevo noi affetti da dipendenze siamo un punto sensibile della deriva sociale: siamo i primi a risentire dell’umore del mondo. Questo suicidio annunciato e questa detenzione si uniscono ovviamente alla cronaca quotidiana dove omicidi, stupri, violenze e guerre fanno da contorno e coro a odi razziali- quelli americani ma anche di altre nazioni-, agli estremismi oscenamente confinalisti e alla paura avverata della seconda fase del COVID-19[3] come diktat contenitivo per il libero -e liberale (ovvero solo chi ha il potere economico) – flusso di merci e persone[4]. Accomuna tutti questi fattori in modo articolato e sistematico una diffusa spinta necrofila, una disperazione esistenziale che cede il passo alla disillusione e alla morte. La morte come fattore ambiguamente invischiato tra natura\cultura, quindi non direttamente spontanea o inseribile nell’ordine della natura (giacché il virus è un’alterazione ed accelerazione forsennata di un meccanismo biologico di tipo parassitario) ovvero una bio-tecno-esistenza: la tecnica, oggetto o mezzo pratico di una metodologia scientifica, si pone come selettivo punto di discrimine, di chi vive e chi muore[5]. La problematica globale del COVID-19 ha avuto ed ha un impatto che tocca diverse sfere ed ambiti della vita.
Ma se il suicidio annunciato dell’amico e il risvolto penitenziario dell’altro compagno mi fanno terrore, dall’altra parte disposto, a seguire il sentimento dell’esistere che nulla -proprio nulla- sa della caducità, attraverso la poesia mi apro allo stupore.
La poesia che ho incontrato è di Edgardo Marani. Si tratta della raccolta selezionata e curata dal figlio Francesco Marani, seguita filologicamente da Francesca Prandini, con un’introduzione di Alberto Bertoni, edita nel 1997 da Book Editor. Il titolo è “Sono solo: poesie 1940-20 aprile 1945”.
Ora io non conoscevo Marani ma mi sembra avendo letto questa sua raccolta dedicata al dolore, allo stupore per la natura, al sentimento di Dio[6], e alla dimessa cronaca della guerra che -fuori dal tempo- faccia dialogare me e i miei due compagni di percorso e insieme noi e il mondo, con una forza realistica capace di dolcezza, di ineluttabilità, di attesa, di assenza di giudizio, di durezza ed in ultima istanza d’amore. Si proprio così, di tutto l’amore che ci vorrebbe nelle nostre vite.
Ho così selezionato 17 componimenti poetici, facendo di fatto un libretto di poesie personale, sebbene dalla voce del poeta Marani. La poesia serve anche a questo.
Questo è il mio talismano, il mio antidoto di questi giorni in risposta alla necrofilia che invade il mondo e le coscienze. Possa esso essere balsamo, lenire il male superficiale e l’atrocità del dolore, per dare luce a chi non smette di cercare. Ancora.
I di II (prime 7 di 17)
*
Il ricordo
è un quadro
dagli orli d’oro.
Tale fu questa giornata.
Dentro v’è
un’immagine preziosa.
Dal suo cuore
una luce
si diparte
come dal cuore
del sole.
*
Spigolare:
cercare
pagliuzze
d’oro.
Guardare,
guardare
i fili di stame
lucenti
di sole.
Tra i cui raggi scesi,
tagliati,
staccati dal cielo,
scoprire
la vita
*
Ogni modo di vivere
non è che un modo
di sognare.
In esso il nume
forse si rende
cosciente a se stesso
e si sveglia
in parte dal suo
sonno germinativo,
creatore.
*
La penna
è innestata
sulla mia mano, e stilla
gioia.
Un ramo ell’è
sulla mia pianta
e appesa ad esso sta
la parola
quale meraviglioso
frutto.
*
Staccato
s’è il frutto
del ramo:
un tonfo
leggero
fu la sua voce d’addio.
Staccato
da te
s’è il mio cuore.
Un cricchio
sottile,
un grido
sommesso,
un molle
sospiro,
un’ansia
repressa
e il tonfo
di frutto che cade:
non altro.
Ma un bene infinito
Cessava:
la vita
che non sarà
più la vita.
*
Ossuta
ma esile,
con uno scheletro
che non può reggere
un pesante destino,
con fianchi stretti
che non possono
rinserrare
una forte vita
sottile canna
al vento
scricchiolante,
su cui
canta stridula
come una lingua maledica
la passera palustre,
io stupiva
che a te si sia potuta
appoggiare
la speranza
senza tema
di cadere,
e che la Mia Musa,
uccello del cielo, ti abbia scelto
per suo ramo.
Una debole cosa
sei
in cui tossisce
la malattia
occulta
o forse un povero terreno
sterile
che non vuole
il seme
fecondo.
Quando bussò alla tua casa
l’amore,
folle egli era
e traviato.
Cercava una ninfa
Sfuggitagli,
forse tramutata
in albero o in fiore
o in fonte
ma fu ingannato da una canna
scricchiolante
al vento,
da un crepitio
d’ossa,
da un sussurro
che non ha un richiamo
ma un grido
di pena.
Dura e fredda
meno sei
della pietra, dalla quale
possono nascere
scintille.
*
Staccossi
da te
la tua ombra.
Or vaga
soletta
ed è quella che incontro.
Tu invece
per me invisibile sei,
lontana,
se pur vicina,
ammutita
se pur parlante.
Ma l’ombra
comprendo.
Con me ella viene
a volte
qual caro fantasma
e parliamo
del tempo trascorso.
Così fino a sera
fintanto che l’ombra
tua spare
nell’ombra infinita.
Fine I parte di II parti
[1] Qui non prendo neppure in considerazioni le condizioni sociali, di classe, di appartenenza e di connivenza con il potere ufficiale che possono rendere una selezione arbitraria e oltre modo classista.
[2] Proprio la questione ideologica pone una questione controversa che riguarda Marani. Egli fu un fascista di partito, un convinto fascista seguace viscerale di Mussolini e della sua politica colonialista, invasiva e necrofila. È stato per me- fuori dalle ideologie- molto difficile poi eludere questa questione. Per mia fortuna non leggo mai nulla di biografico o di critico sugli autori che non conosco e allo stesso modo valuto criticamente il loro impatto su di me in qualità di semplice lettore. Solo successivamente mi confronto con gli esperti ed i curatori dell’autore in questione in modo critico. Questo mi permette, come in questo caso, di valutare un contenuto senza filtri ideologici e limiti personali.
Rimane il fatto che uno scrittore fascista, propriamente un politico fascista, che scrive con un sentimento universalista degli esseri umani, della guerra e del mondo ha una contraddizione interna che rasenta la schizofrenia. Se – come è stato- il Fascismo ha espresso con gli altri totalitarismi dogmatici un sentimento selettivo, classificatorio, classista e necrofilo è stato anche conseguentemente causa della guerra, dei morti, della disperazione diffusa e della distruzione. Difficile pensare che questa contraddizione non sia stata percepita da Marani. Si deve allora ritenere che l’universalismo metafisico-teologico professato dal poeta si configurasse in un immaginario bianco, propriamente di individui bianchi o più sinteticamente italo-ariani (qualsiasi cosa ascientifica ed abiologica questa assurda classificazione voglia dire). Si deve dunque ritenere come fu -in altri tempi- per il motto abusato “Libertà, fraternità ed uguaglianza” come non fossero né considerati né inclusi fra gli uomini che potevano ambire a questo universalismo falsamente liberatore e universale, né africani, né asiatici, né australiani, né sudamericani, né popoli antartici, etc. come neppure le donne, le persone affette da handicap e disabilità o disagiati sociali etc. D’altro canto si deve tener d’occhio l’utilizzo (strumentale?) agiografico e mitico con cui una contemporanea destra estremista (come teorizzava Pasolini Fascismo Fascista) si riappropria di certi contenuti ambiguamente come, è il caso di Fonte della Tradizione che annovera Marani fra i suoi intellettuali dimenticati. Su questo legame ambiguo di appropriazione di contenuti decontestualizzati si inserisce anche l’uso da parte di Fonte della Tradizione di Muhamad Alì, sotto l’articolo “Camerata Muhamad Alì” in cui l’uso delle sue parole è usato per rivendicare, suggerire e proporre un’idea di Patria, Tradizione, Dio e Confini.
Tutte queste perplessità e domande sono aperte, sono laceranti e necessarie eppure riaffermano, in ultima analisi, la comune natura del sentire umano. Facendo dunque lo sgambetto alle ideologie, ma non dimenticando la lezione e il valore della Storia. E dunque come posso io negro, apprezzare e persino ritenere necessarie al mio intimo sentire le parole scoperte di un gerarca fascista?!
[3] Nella prima stesura di questa critica introduttiva (18 set. 2020) Il COVID-19 non si era ancora ripresentato nel mondo in modo dilagante, ora invece 9 novembre 2020 ha mostrato tutta la sua potenza distruttiva con la conseguenza della chiusura dei comuni e delle regioni e la divisione in zone rosse.
[4] È difficile scartare la ragionevole e plausibile ipotesi che il virus sia di fatto un prodotto da laboratorio, volutamente o accidentalmente uscito fuori controllo. Ciò è non solo plausibile, ma testimonierebbe una volontà di ridefinizione geopolitica del mondo secondo modelli coercitivi basati su una politica del terrore e dell’estrema precarietà esistenziale. Una vita che non è più garantita da principi chimico-bio-psichici, ma da una volontà razionale e razionalizzatrice (oltre che fottutamente reazionaria!) su criteri di efficienza, salute, utilità etc., è un mondo distopico facilmente controllabile.
[5] Per tempi di diffusione, per velocità e per adattamento e mutazione il paragone con l’apologia della peste è incongruo e fuorviante.
[6] Ecco devo dire che anche il riferimento a Dio mi ha indispettito non poco. Dio mi sembra qualcosa di impronunciabile e molto poco antropomorfo, somiglia a mio avviso più ad una spinta esistenziale – tra l’altro piena di non sapere, di dubbi e di lacune- che al quadretto che gli facciamo. Poi siccome dio nell’Italia del 40’è sinonimo di Dio Cattolico, il riferimento mi sembra sempre poco necessario. Non sopporto, come diceva Pasolini, il ricatto implicito nelle religioni.
Immagine di copertina: Foto di Gin Angri.