Ci sono sei persone sedute nel salone. Ognuna di loro tiene il proprio telefono in mano, con le cuffiette ben ancorate alle orecchie, seguendo le notizie su ciò che sta succedendo a Gaza e a Gerusalemme. La domanda più urgente: quando cadrà la prossima bomba? Sembra che la casa stia tremando. A mezzanotte, il cielo divampa di un rosso fuoco e mia madre ci ordina nervosamente di toglierci le cuffiette. Esitiamo, lei precipita nel panico e urla, “Toglietevele, all’istante!”. Teme che l’effetto del suono –l’incessante e forte rumore delle news e le esplosioni delle bombe– danneggerà le nostre orecchie. Ora anche noi, oramai allarmati, obbediamo, guardandoci silenziosamente l’un l’altro.
La mia sorella più giovane, Nesma, avvocata, ci suggerisce di sdraiarci a terra, fuori da ogni bersaglio, notando che nella porta accanto alla casa di nostro zio sta baluginando il riflesso della luce di una bomba che esplode. Alcuni secondi dopo, la nostra casa sembra tremare di nuovo, stavolta anche porte e finestre partecipano alla danza.
Dopo 15 minuti, le cose tornano ad essere calme, nonostante si senta ancora distintamente il rumore dei droni. Nesma si offre di preparare del tè e io propongo di selezionare della bella musica che possa coprire i bombardamenti. Anche noi dobbiamo tornare ad essere calmi. Scelgo una canzone d’amore di Umm Kulthum, l’iconica cantante egiziana. Persino mio padre canta! “Oh, mie piccole ragazze, mi avete riportato alla mente i giorni belli e amorevoli, passati”, dice. Mamma sorride mentre sta leggendo un libro.
Presto, però, i bombardamenti si intensificano. Esausta, mia madre tenta di lasciarsi andare a un breve sonno, ma invano. Si preoccupa per i nostri vicini, che solo pochi giorni fa hanno perso la madre a seguito del COVID-19. Chiama le ragazze e inizia a chiacchierare con loro, così che non finiscano per spaventarsi troppo.
In realtà tutti noi siamo spaventati. Se l’occupazione israeliana, però, ci ha insegnato qualcosa, è come riuscire a celare le nostre paure. Il panico è contagioso.
È una notte lunga e difficile. Non riusciamo a dormire. Appena prima dell’alba ci alziamo per il Suhur, il pasto che i Musulmani consumano durante Ramadan prima di iniziare il digiuno giornaliero. Stavolta ci sono soltanto datteri, un po’ di formaggio e del tè. A causa dei bombardamenti, andare al mercato non sarebbe stato sicuro (compriamo il cibo giorno per giorno a causa dei continui blackout, che stanno rendendo difficile la refrigerazione delle pietanze).
Il mio corpo è così freddo. Ne ignoro il motivo. Fuori il tempo è caldo, ma io ho comunque i brividi. Forse è questo mio sopprimere paure e preoccupazioni. Ho addosso strati e strati di vestiti, ma ciò non mi da sollievo. Vado da mia madre e l’abbraccio. Finalmente provo una sensazione di pace, ma non certo di sicurezza.
Mi metto a lavorare. Prima però, risistemo la mia stanza così che il mio letto stia nel mezzo – lontano da ogni vetro che potrebbe frantumarsi e sparpagliarsi nello scoppio della finestra. Apro anche la porta e la finestra, per far diminuire la pressione dell’aria e ridurre la possibilità che i detriti mi feriscano. E dato che sono una fan delle tazze che i miei studenti mi regalano, le levo dalla mensola così da evitare che possano cadere e rompersi. Ecco, ora -forse- almeno la mia stanza potrà “sopravvivere”.
Inizio poi a scegliere film, musica e libri che possano riempire le nostre giornate se l’attacco dovesse continuare. Chiamo anche i miei amici, ci organizziamo per creare delle “rooms” nei social così da poter improvvisare degli “sleep-overs” virtuali. Chiamo anche mia sorella, sposata e madre di un meraviglioso bimbo appena nato che non aveva mai sentito prima il frastuono dei bombardamenti. Voglio essere sicura che lei e il figlio Ibrahim stiano bene. Almeno lui è ancora troppo piccolo per capire ciò che sta succedendo.
Infine, la cosa che ritengo forse più importante, ho giurato di evitare ogni foto o video che mostri i bombardamenti o i corpi morti. Non è che il mio modo di proteggere me stessa dagli incubi che mi hanno ferocemente perseguitata nelle guerre precedenti.
Sì, so di non poterli ignorare. So di far parte di questo cerchio. Pregate per noi.
Traduzione di Camilla Brazzale. Per gentile concessione del sito We are not numbers https://wearenotnumbers.org/home/Story/One_tough_night_in_Gaza
Mona al Msaddar è il tipo di persona che cerca sempre di fare del suo meglio per realizzare i propri sogni ed essere coerente con i suoi principi. si considera poeta e per questo ascolta nel profondo il suo cuore: A prescindere dalle difficoltà della vita, la soluzione è contenuta in due parole PROVA e CREDI. Mona lavora come insegnante d’inglese da oltre tre anni, ama i suoi allievi e si sente responsabile per offrire loro il meglio della propria conoscenza e personalità. Le piace provare cose nuove e specialmente “volare” attraverso la musica e le passeggiate.
Camilla Brazzale, studentessa di Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Bologna. Appassionata di cultura, lingua e letteratura araba (focus del suo indirizzo di studi universitari) e attivista per la causa palestinese. Collabora con i Giovani Palestinesi d’Italia, nello specifico nei contenuti letterari.