UN SCIAMANA SUPERBAMENTE ADIRATA E GIUSTAMENTE INCAZZATA:
APPUNTI DI CRITICA ED IMPRESSIONI SU I CANTI DELL’INTERREGNO DELLA POETESSA PINA PICCOLO
PREMESSA
Io non sono amante del familismo cameratista[1] con cui accrocchi di élite culturali se la cantano e se la raccontano nel panorama blasonato di chi per meriti, onori, doveri ed oneri è entrato nel mondo del Pensiero Dominante o meglio di chi sagacemente (perché si tratta anche di una dote) ha fatto dell’essere colto ed un uomo/donna di cultura una lucrativa professione[2]. Nel Bel Paese a questa amara tradizione si unisce un certo servilismo programmatico fra intellettuali del sistema e logiche autopromozionali oscenamente autocensorie e pubblicitarie.
La poesia civile, non è affatto il mio genere e ricordo solo E. Barret Browning[3] Majakovskij che non mi deluse ma certo non mi diede voglia di proseguire nel genere: forse mio limite. Le poesie civili che in questi cinque anni, in LMS, mi è capitato di scrivere, non dipendono davvero dalla mia volontà ma sono emorragie spirituali di corrispondenze umane: non né ho merito né colpa[4]. Ma ho il gusto del Pensiero Minore, degli scritti marginali o che così sembrano a chi ha gli occhi, l’animo, il palato ed il tatto irretito dalla droga pop smerciata del Pensiero Dominante. Intendiamoci a me piace il pop, e non mi esimo dall’essere in una certa misura un consumatore, ma non fino al punto di nascondere dietro alla faciloneria autocompiaciuta del Pop-Pensiero[5] una sistematica necrofilia post-moderna dove, come sempre, le periferie sono zone liminali, punti di scarto delle zone centrali.
Detto questo considero un oltraggio che una raccolta poetica come I Canti dell’Interregno, viva pressoché sconosciuta ai doganieri della cultura che conta o che dovrebbe. Non che la poesia goda di interesse culturale essendo un genere che confina con la schizofrenia dei moderni alienati e l’imponderabilità, eventuale, di un Dio.
Chi non mi conosce, chi mi odia (esiste già chi mi odia?), potrà sempre attaccarsi al fatto che in buona sostanza il mio sia un atto adulatorio verso la madre macchinista di LMS, quando non una vera e propria marchetta, in ragione del fatto che proprio in questo editoriale, appare una sua introduzione alle mie poesie ispirate al Covid. In realtà questa critica avrei dovuto farla, su mia naturale intuizione, due anni fa, ma poi come molte cose non la feci. È arrivato il momento di dedicarle il giusto sguardo.
Se ho fatto bene oppure male lasciamolo decidere, come sempre, ai posteri.
CRITICA
È molto difficile parlare di un testo poetico. La difficoltà nasce dall’incontro impossibile tra il sentimento che fa nascere la poesia, le parole che il poeta sceglie per esprimersi, la percezione del lettore e al sentimento che suscitano quelle parole poetiche in chi legge. La poesia civile è poi un genere marginale che mette in primo piano la denuncia e la testimonianza contro l’enfasi poetica e la necessità dell’espressione. Anche la poesia di Pina Piccolo è poesia civile, anche la poesia di Piccolo è testimonianza e più propriamente denuncia. Il limite della poesia civile è che nell’ideologia ad essa sottesa si possa sorvolare sull’estetica o meglio sulla sensibilità di ritmi e toni in favore del significato. Ora io trovo che questo sia un ricatto secolarizzato che ha i suoi prodromi nella solita melensa apologia greco-romana della misura, del bello, del giusto, dell’equilibrio … potrei dire che si tratta del solito eurocentrismo ma preferisco dire che si tratta di una vecchia tiritera, trita e ritrita venduta come un lemma di verità e dunque basta! Tutto ciò per dire che anche nella scelta della poesia che si vuole scrivere esiste fin da subito un carattere una spinta determinante. Ecco a Pina Piccolo va dato il merito di aver scelto un genere in disuso ed una categoria a parte, andando di fatto anche contro il cliché della poesia erotico-intimista da quattro mura, in cui sovente l’estetica della poetica femminile è confinata.
I Canti dell’Interregno di Pina Piccolo Lebeg Edizioni 2018 è strutturato in 3 sezioni a partire dalle ultime poesie e più recenti fino, a quelle più datate, sono Interregno (2011-2017), Cosmogonie (2006-2011) e Suonare il Piffero della Rivoluzione (1974-1981); coprono un arco di tempo, come la stessa poeta dice in Nota dell’Autrice, di oltre 40 anni.
La volontà sistematica del passo di gambero, all’indietro, da alla struttura un impianto vorticoso, quasi fosse un tornado dai cui cerchi più grandi fuoriescono oggetti, corpi, voci, per terminare nel ritmo continuo e mulinante della base, a cono, con un tumulto asciutto di densa espressione e tragicità.
La struttura sì fatta permette anche una prossimità con i fatti di cronaca, più vicini, ovvero una famigliarità precisa e quotidiana con l’auto-generata violenza della nostra umanità. C’è un focus diretto sul determinismo socio-culturale di questa deboscia epocale genuinamente post-moderna. E allora più che un tornado, dal momento che l’ottusa violenza è una sistematica volontà, si tratta propriamente di una turbina. La prossimità con i fatti più recenti permette ad un potenziale lettore la comprensione del ritmo, del gioco di controtempi e liricità della cronaca come vedremo più avanti. Non va dimenticato infatti la difficoltà di un lettore a conoscere, maneggiare, essere informato e dettagliato come l’autrice – che lo fa per vocazione, la vocazione di una sciamana giustamente incazzata! – sui fatti evidenziati nelle poesie. Allora così con la struttura all’indietro e la divisione propriamente in 3 atti o fasi di gestazione, il lettore viene così informato (se non proprio smaccatamente edulcorato!) sulla sfacciata e dilagante violenza strutturale che il mondo perpetra ai suoi individui. In questo senso la gradualità roboante in cui il lettore viene messo è un vero e proprio vilipendio della sua ignoranza, in prima sostanza, della sua ignavia come seconda istanza e della sua colpevole labilità in quanto soggetto privo di memoria storica, ancorché di senso critico. È già nella struttura, prima ancora che nel contenuto e nel registro stilistico contenuto, l’adiramento della poetessa, e scopriamo come I Canti dell’Interregno sia di fatto un corposo gesto di sfida, se non proprio un pugno ed uno schiaffo in grado di rendere coscienti, attraverso la forza e il ritmo serrato della sua orazione. Piccolo vuole un lettore sveglio, reattivo, capace di critica e di agito.
Per quanto riguarda il tema e la tematica, si sarebbe tentati di accontentarsi di inserirlo storicamente nelle tre accezioni di Poesia Civile[6], Poesia di Denuncia e Poesia di Testimonianza. In realtà queste tre categorie si fondono, pur non perdendo il tratto caratteristico della loro unità significante. Infatti se la Poesia Civile si prende il compito di rendersi funzionale a focalizzare un problema della realtà, e se la Poesia di Denuncia alza l’asticella individuando le aporie e le mancanze specifiche in cui i soggetti di un malessere vivono rivendicando dei diritti che li permettano di superare la disparità e la problematica, la poesia di Testimonianza unisce a questi previ aspetti la centralità della memoria ovvero, il tessuto di continuità che supera la temporalità dei fatti – la cosificazione storica– per descrivere sostanzialmente la condizione umana in un -ahi noi!- storicizzato rapporto di potere e coercizione. Questo tratto universalista, non confinato nella testimonianza di qualcosa di nazionalistico, di bio-etnico-culturale, apre le poesie della poetessa ad una larghezza per l’appunto totalizzante assoluta. Già in questo si vede la traccia della sua originalità. Ecco è a questo punto, massimo grado di distillazione, che arriva la poesia di Piccolo, introducendo come tema contenutistico e di superamento una metafisica ancestrale ovvero, un senso più alto ed altro, in cui civiltà, denuncia e testimonianza hanno e trovano respiro. Si tratto del potenziale esorcistico della poesia, e perché ciò avvenga -senza dimenticare il basso, il medio, l’alto più le sfumature della nostra epoca- ci vuole una tensione creatrice che superi i limiti della fattualità umana. Si tratta – la poesia è sempre questo- di un rito, che necessita di un\una ufficiante e nella fattispecie una sciamana. Chi più di una poetessa pagana può ieraticamente indicarci i nostri limiti e sbagli umani, per portarci in un piano sensibilmente più elevato dell’essere?! Questo è esattamente ciò che fa Pina Piccolo con l’impeto vitale, adirato della sua poesia. La domanda che la sua poetica sottopone alla nostra condizione è importante. C’è forse qualcuno cosciente della miseria umana, morale e metafisica in cui riversiamo da secoli, che possa nell’intimità di se stesso non essere tremendamente incazzato con la menzogna esistenziale che viviamo?!
Il rito avviene mediante il culto della morte, in senso lato e dei morti in senso contingente. La morte stessa come sotto tema e la misura con cui la sua poesia fa dialogare il mondo materiale con il mondo ancestrale di cui pure facciamo parte… e verrebbe da dire per nostra sorte. Si noti come la raccolta a partire dalle stesse dediche[7], oltre che con la denuncia della violenza, sia una costellazione di corpi morti, di arti inermi nel fondo di un oceano, nella superficie delle onde, nella polvere o nel cemento di strade periferiche o centrali, di vite spezzate nel fiore degli anni. Un’ecatombe spaventosa e mediaticamente esorcizzata con il tarlo della colpa, perché il corpo migrante o il corpo di chi muore in guerra o in una piazza, agli occhi di chi li sfiora appena attraverso una news, prima o dopo pasto, sono intrinsecamente colpevoli. La presenza della morte è tanto fondante e sovrabbondante- in questa nostra realtà di implicita silenziata necrofilia- che nella poesia Ventisei rose di mare vengono propriamente evocati i 26 morti. È un triste rosario, è un rosario di vite possibili mancate all’appello del vivere (pag. 40):
Binitubo
Esther
Chinelo
Blessing
Ayomide
Ozuoma
Nzube
Grace
Nwando
Kebe
Favour
Redeem
Loveth
Marian
Ugochi
Precious
Osato
Ljeoma
Joyce
Balogun
Queen
Olabisi
Promise
Kemi
Vivian
Amineet
Questa morte o queste morti, attraverso cui Piccolo esprime il superamento traumatico della violenza, permettono il salto da un mondo materiale, molto cogitante e ben poco spirituale[8], a quello appena suggerito di una metafisica ancestrale. Di che tipo di metafisica ed ancestrali si tratta?
Per la verità la poeta non si cura di dichiararlo, cioè di esprimere un culto trascendente a cui chinarsi. La poetessa rifiuta il ricatto di una fede, di un’ossequiosità al sentimento del trascendente, qualsiasi esso sia, e sembra testimoniare il trascendente nel corpo stesso della poesia. Ne possiamo vedere un esempio nella poesia Zenzile Miriam Makeba and the Castel Volturno boys (pag. 77):
In grembo tra le mani,
visibile solo agli occhi dei giusti,
il prisma
dono della Grande Madre
che scompone la delicata frontiera
tra ciò che ci è dato vedere
e ciò che ci è celato.
La poesia è congiuntamente, simultaneamente- e fuori dal tempo- mezzo, medium, sensibilità, atto creativo e significato. Crea dunque un gioco, in forma di canto, cantilena e ballata una connessione, una relazione, un dialogo ricordando chi furono i vivi e cosa avrebbero potuto vivere e fare, spingendo il piano metafisico oltre l’estetica e la retorica della credenza, sia essa ampollosamente rituale, sistematica o dogmatica. Ecco che questa metafisica ancestrale ha la sua forza nella memoria e si pone come cornice di un altro, di un oltre che è appena suggerito ed accennato nella poesia; non si perita – non è questo il suo scopo- di essere consolatrice o di sistemare nel piano dei significati trascendentali il valore della vita e della morte. La memoria, la viva memoria della parola è il campo della sua scabra metafisica. Si tratta di una rivoluzione interna al corpo della parola testimone, una parola che è urto e vita, che è scintilla esistenziale ben oltre e prima del vivere o del morire:
Gridate i nomi
perché la parola
crea mondi
e racchiude
l’essenza!
Come dice ancora in Zenzile Miriam Makeba and the Castel Volturno boys (pag. 78)
Lo sguardo della poetessa è uno sguardo di confine e di corpi migranti che tentano una vita diversa, migliore, davanti all’impassibilità delle coste di frontiera, come nella poesia Mediterraneo 2011: Terzo capo di accusa (pag. 57):
(In onore dei sedicimila ‘esemplari’ di homo migrans
annegati nel Mediterraneo dall’inizio del secondo
millennio dell’epoca comune)
Per noi non si mossero elicotteri dalle eliche schiamazzanti
a lanciarci una fune d’argento,
né invisibili aerei senza pilota
a calarci la scala di Giacobbe.
Per noi non si scomodò il Burāq
dalle grandi ali bianche e la morbida sella di velluto.
Per noi non arrivarono balene dal ventre capiente
salvatrici di burattini infingardi o di profeti
poco propensi a proclamar sventure.
Per noi non decollò il tappeto di Sindbad
elegante e aerodinamico a rapirci ai cavalloni.
I cigni non si unirono in stormo
formando un’aerea rete in cui impigliarci.
L’ippogrifo certo non interruppe il suo viaggio verso la luna
a recuperare cervelli smarriti di cavalieri.
Né gli yacht di politici abbronzati
si affannarono a raggiungere
così poco ambita preda di campagne elettorali
O vite che invece non sono ne segnate o nate come quelle denunciate nella poesia Ballata dei messaggeri angelici, ovvero dei bimbi fantasma nati in Italia dall’8 agosto 2009 (pag.81)
Vieni avanti spirito bambino
nato da madre clandestina
e padre pirata,
con sorelle ribelli
e fratelli dall’andatura spavalda,
zie sul ciglio della strada,
zii sulle impalcature,
cugini che spingono sedie a rotelle,
nonne lontane,
nonni che mancano da tempo.
Più spesso parla dell’homo migrans ma non dimentica le menzioni a fatti nostrani, intesi come europei ed italici, come testimoniano le poesie Messaggio degli alberi recisi nell’ex-manicomio dell’osservanza, Lamento del prato all’inglese (dedicata a Prince), Il canto degli zoccoli (dedicata a Erri De Luca), Muore il vecchio (dedicata a Josè Saramago).
La poesia di Piccolo, più spesso, parla con un lucido sguardo ed un accusa senza sconti -perché il potere è agito in modo forse ancora più ambivalente nei luoghi da cui i migranti fuggono, com’è il caso in Africa per gli stati dittatoriali che hanno abituato la gente a convivere con la guerriglia e come è in Italia per le varie forme di mafia che tengono in pugno il paese in modo ormai stratificato- su come i significati vengano contraddetti, contraffatti, ripetuti, riperpetuati fino a perdersi. Allora ci accorgiamo che questa continua evocazione e memoria ancestrale per il sempre di ciò che è già esistito, ovvero il culto dei morti è in realtà una sciamanica scaramanzia capace di preservare i vivi, la poetessa non si preoccupa solo di farli vivere come menziona la dedica alla figlia ventenne:
e alla sua generazione a cavallo del II millennio,
sperando che avranno più capacità e fortuna
della mia generazione a fronteggiare e sconfiggere
i mostri dell’Interregno.
Si da il compito di farli vivere in un comune esistenziale significato.
Si tratta di un culto che denuncia una realtà incentrata sulla negazione di umanità, una corruzione di ideali, valori, aspettative di vita, senso metafisico ed una sostanziale necrofilia autoproclamata nei vessilli del potere (propriamente leggi, coercizioni e consumo) e dell’intrattenimento fatuo. È la realtà malata dell’interregno, che la sciamana cura attraverso il lucido canto della realtà e della trascendenza del presente. Non è un messaggio per i morti o una colomba di speranza scesa dal cielo per consolare mentre si attende un mondo altro, perché Piccolo è consapevole che trascendenza o non trascendenza la metafisica compenetra la realtà, la dimensione organico-materialista, bio-psicologica e per ciò la necessità dell’esistere si esprime nel qui della vita. Non deve per nessuna istanza essere negata, per questo le morti sono gravi e la sciamana si adira, la sciamana giustamente deve incazzarsi e con lei il corpo malato di chi finalmente si riconosce – tra terrore e stupore- malato e si vuole sano e vivo, vivo ed esistente al mondo. In questo modo, solo in questo modo, la dove il logorio del dispotismo, del nepotismo, del classismo, delle mafie, delle caste e del razzismo confondono e sfibrano i significati, la sua ricerca danzante, nei toni di un canto, esprime a pieno una sacralità dei significati.
Si tratta di una dura lezione. Piccolo è dispotica e intransigente, nella misura in cui per chi è dalla parte comoda del mondo, la vita degli altri non è significante, è svalutata, minimizzata e peggio ancora dimenticata. Piccolo attacca per tanto la nostra sfacciata ignoranza dei fatti, nomi, riferimenti, situazioni e persone nonostante il nostro rito quotidiano del TG, la nostra assenza di critica, la nostra ignavia, il nostro egoismo e il nostro giudizio etnocentrico e comunque elitario, in quanto parte dell’occidente, dell’Europa e del G8 che sia. Dura è verso chi non si informa, dura e verso chi non conosce, dura è verso chi labilmente dimentica persino la propria storia come dichiara magistralmente la ballata in Il canto degli zoccoli (pagg. 30-31):
Ricorre quest’anno il cinquantesimo
(2 dicembre 1964)
del discorso di Mario Savio
il saggio
dimenticato profeta di basso lignaggio
della stirpe di pescatori siciliani.
Uditelo dal tetto
della macchina della polizia:
«There is a time / Arriva il momento
when the operation of the machine
che il funzionamento della macchina
becomes so odious, / diviene così odioso,
makes you so sick at heart / che ti disgusta l’anima
that you can’t take part! / e non puoi più prenderne parte!
You can’t even passively take part! / Neppure passiva mente puoi prenderne parte!
And you’ve got to put your bodies / E devi stendere il tuo corpo
upon the gears / sugli ingranaggi
and upon the wheels, / sulle ruote dentate,
upon the levers, / sulle leve,
upon all the apparatus / su tutto l’apparato
ùand you’ve got to make it stop. / per far fermare la macchina.
And you’ve got to indicate / E devi far capire
to the people who run it, / alle persone che la gestiscono,
to the people who own it, / alle persone a cui essa appartiene,
that unless you’re free / che se non sei libero
the machine will be prevented / alla macchina verrà impedito
from working at all! / per sempre di funzionare!».
Così nel ’64 parlò il Savio Mario
profeta dimenticato
progenie misconosciuta
dell’italico popolo.
Si tratta di un culto per pochi, ma non i pochi socialisti-sinistroidi come verrebbe -un tempo anche bella ma oggi francamente triste ed inesistente- la tradizione storica, perché sono pochi quelli che si fanno toccare nelle viscere dal dolore del mondo e degli altri. Sono pochi coloro che riescono infatti a mettersi in sintonia con un albero, con un animale non necessariamente in via di estinzione, che riescono a sentire compassione per un popolo esule o che perde per logiche assurde la propria terra, che riescono a sentire un intimo sentimento di compassione che ci faccia alzare, prendere la porta di casa e uscire fuori e gridare, fare gruppi e rivolta.
Pina Piccolo è ormai, a sua volta una testimone, ma non perde tempo a cantare il proprio dolore di calabrese migrante cresciuta in America, di madre indipendente ed autonoma per scelta, di donna diversa nei gusti, nel modo di essere femmina ed essere umano, non rivestendo il ruolo che secoli di storia in diversi contesti le imporrebbero. Lei è la voce delle ribellioni e dei movimenti degli anni 70 interiorizzati e mai rinnegati- forse compresi meglio ora di un tempo ora che la voglia di gridare e di rivoltarsi non sembra attutita-, ora che con una riflessione quarantennale (sfido chiunque a attendere tanto per sentirsi interamente leggere e commentare da ciò che è altro da sé[9]) le hanno permesso di raccogliere questo dono importante e questo lascito gravoso. Eppure la rivoluzione sciamanico-poetica a cui rimanda si deve confrontare col gioco feroce dei compromessi, dei partitismi o falangi culturali che ha sempre conosciuto, con cui ha anche dialogato ma che ha scelto di tenere lontani da sé perché carichi di non felici conversioni, trasformismi (una qualità tutta italiota) e verginità ricreate col bisturi dell’intellighenzia.
La poetessa sciamana o la sciamana poetessa del resto combatte con un corpo-mondo necrofilizzato e con un’umanità sostanzialmente incapace di riconoscersi malata e collegata ad una metafisica ancestrale dove esistere e vivere conta più che vivacchiare. La colpa della realtà è non riconoscere la propria crisi, focalizzarla ed assumerla come problema; la colpa della realtà non è la fede, l’ideologia o un vago senso trascendentale è invece il non sapersi voce di memoria (ed è in questo superamento dell’impasse di poesia di denuncia e civile che si forgia il canto di Piccolo) e sacralità dei significati: perché in fondo sono questi a sostanziare i nostri giorni. La dove sacro, intendiamo, il valore, l’importanza. È una metafisica spurgata di ismi, di salamelecchi, proschinesi e morali facilone.
La tecnica attraverso cui è in grado di offrire la sua prassi poetica e riflessione varia; Pur venendo da una classicità come formazione, riafferma nei contenuti di un metodo lucidissimo uno sguardo, come abbiamo detto vivo, che alla tronfia retorica del classicismo risponde con un rifiuto deciso come in Ventisei rose di mare (pag. 39):
Non erano Ifigenia,
figlia di re e regine
tra strazianti urla materne
sacrificata
perché concedessero gli dei
favorevoli venti
alle navi guerriere degli Achei.
O lo stesso con la poesia Zenzile Miriam Makeba and the castel Volturno boys ( pag. 80):
Cantaci oh Diva
non l’ira funesta del Pelide Achille
che infiniti addusse lutti agli Achei,
ma la bellezza del suono
polifonico e inceppato,
le sillabe che si librano
volteggiano e cadono
come corvi con le ali spezzate
da uragani prossimi venturi.
Il rifiuto qui è di una classicità non sempre in grado di essere punto di significazione delle atrocità del mondo post-moderno, e dunque il suo rifiuto è anche uno sprone a riutilizzare una lingua che comunichi con voci, nomi, fatti e persone quel che accade nella nostra strappata e sgualcita contemporaneità. Operazione linguistica che scaraventa ogni ossequiosità formale a rima, assonanza, prosa poetica, padri, nonni, zie e zii, fratellastri e sorellame del mondo poetico per seguire il filo sottile ed istintivo del ritmo e nuovamente del significato. Si tratta di una musicalità altra che si allinea ai significati, è una tecnica ardua per chiunque voglia fare poesia. Perché ciò riesca, il ritmo della sua poesia si caratterizza per controtempi, con una costruzione sintattica felice quanto divertita e a tratti giocosa e compiaciuta della propria padronanza degli argomenti e dell’indiscussa sagacia. La tecnica si avvale di stralci di cronaca, resi narrazione con sovrapposizione di miti originari -non solo quelli classici del mondo greco-romano ma precisamente autoctoni delle realtà che va narrando- con prassi logoranti di potere e violenza. È un esempio magistrale di questa tecnica la divertita ed acuta poesia Treinta y tres mineros, di cui riporto le prime tre strofe (pagg. 62,63):
Treinta y tres mineros,
se ne stavano nel grembo di Madre Terra
inghiottiti
por El Diablo del capitale.
No, non erano in un reality
e non era prevista l’espulsione
per acclamazione popolare
del meno simpatico.
Forse neppure un libro
si pianificava a Santiago
en las avenidas delle case editrici:
«Si son mineros
por cierto no serán intelectuales».
Treinta y tres mineros,
¡Treinta y tres! Justo como los años
di quel povero cristo.
Nudi adesso e sottoterra
sperando in una risurrezione
tecnologica
come profeti a mangiar locuste nel deserto.
Non più di sessanta chili,
snelli e tonici tienen que quedarse
per entrare nella capsula salvifica
del Plano B.
E i sociologi che come voyeur s
piano se si siano creati
una società verticistica
o se sottoterra siano stati contagiati
dal virus dell’horizontalismo
de sus hermanos argentinos
e non sanno che sono venuti a tener veglia con loro
lì nella loro oltretomba provvista di sonde
gli spiriti de los dos mil mineros y sus mujeres y sus hijos
massacrati por la policía nel 1907 a Santa Maria de Iquique.
Vi è spesso nel ritmo un respiro ironico e giudicante- è sotto accusa la mancanza di partecipazione emotiva e fattuale ad un atto umano di rivolta contro la prassi necrofila da parte di un possibile lettore- che passa da una ballata enunciativa a veri e proprie filastrocche o movimenti ritmici corti, intervallati da accavallamenti strutturali, degni della tradizione vernacolare appunto, delle storie tramandate a voce[10] (si tenga presente che come la stessa poetessa ha detto nella più recente intervista a Doue rivista indiana, dove è il personaggio di cultura del mese, poesie e racconto narrato fanno parte della sua formazione della cultura familiare), delle improvvisazione Jazz e Rap delle origini, mi riferisco a Armstrong per esempio o ai The Last Poets. Questa tecnica del collage per mezzo dei fatti di cronaca, delle mitologie e delle credenze, delle ideologie e fatti storici creano una coralità dirompente, dove la poesia stessa e non ciò che in essa viene raccontato è un correlativo oggettivo della crisi del mondo. La sua poesia in questo modo è feticcio, simbolo e dimensione di quanto ricordato, testimoniato, vissuto e denunciato, e in qualche modo per la sensibilità dei lettori si offre come catarsi. Una catarsi che chiede al lettore di non godere comodamente del piacere dell’informazione o della conoscenza ma di alzarsi, usare i numerosi mezzi di comunicazione che la contemporaneità ci offre, uscire fuori, incontrare l’altro da sé -sia esso uomo, animale, vegetale, manufatto o minerale etc.- con vivo interesse e partecipare di questa rivoluzione che pone la vita e l’esistere al centro del cosmo.
I riferimenti della poetessa Piccolo, che forse interessano più i critici in vena di trovare sorellanze e paternità, sono svariati e non sempre attinenti al mondo della poesia. C’è il richiamo filosofico-civile a Gramsci che da il nome all’intera raccolto, è messo nella prefazione e introduce il corpus intero della miscellanea, nella musicalità poetico-civile una Patti Smith non è da escludere, certamente Rimbaud che viene direttamente citato in due o tre occasioni, indirettamente Amelia Rosselli (per la forza schietta del verso), Ben Okri citato più di una volta, la tradizione popolare, la cultura araba, l’estetica spagnola e portoghese, Saramgo, la cultura negra, ovviamente la cultura femminile, la cultura dei popoli in via di estinzione e la spezzettata cultura migrante, che ovviamente è internazionale. C’è di più, c’è il sentimento ispirato della natura come dirompente forza risanatrice, uno sguardo ecologico privo di ‘ismi’ ed affettazione.
Nel lasciare queste righe di appunti di critica e impressioni, mi rendo davvero conto dei limiti formali di un’analisi fatta senza un vero studio analitico di ogni poesia e del percorso artistico della poetessa. Questa mancanza chiama la necessità di un lavoro impegnato e più dettagliato di quanto io ho voluto e potuto fare e di come meglio ha fatto certamente Rosanna Morace, con un certo piglio accademico, nella Prefazione[11]. Sono sicuro che Piccolo sarà ricordata negli anni a venire e che questo suo lavoro pioneristico ricoprirà il suo giusto spazio nella cultura internazionale. Il merito di averlo nella nostra lingua italiana chiederebbe almeno il pegno di dargli la sua degna importanza, che è ben più alta del silenzio o dei complimenti di maniera che gli sono girati intorno. La storia fa il suo corso e la poesia vive.
Dimenticavo di dire una piccola cosa, di questa miscellanea, perché va sottolineata, con gioia, l’avvento di questo testo. I canti dell’interregno è un testo di una bellezza sbalorditiva! Prende infatti occhi, mente, emozioni e corpo come un epifania necessaria e superbamente testimone.
A seguire, per dare un saggio della poesia di Piccolo, il componimento Zenzile Miriam Makeba and the Castel Volturno boys (pagg. 76/80):
ZENZILE MIRIAM MAKEBA AND
THE CASTEL VOLTURNO BOYS
Per chi ti brillano gli occhi,
Miriam Makeba,
sul palcoscenico
la notte del tuo trapasso?
Grande Dea clemente
per accompagnarla
verso il grande portale
non hai mandato
le Parche a recidere i fili:
non di marionetta
morte
hai decretato,
ma di donna integra
che di libertà cantava
in ogni angolo di mondo.
Notte gelata, lassù esposta ai venti,
piazza semivuota
in una meridionale periferia.
Su una carrozzina
l’artrite che ti rugge nelle ossa,
lo sconforto che ti assedia il cuore.
Dopo sessant’anni di battaglia
non ne puoi più, continuano a
chiederti quella scemenza di Pata Pata,
ma ti brillano gli occhi
come a una bimba
Zenzile Miriam Makeba.
In grembo tra le mani,
visibile solo agli occhi dei giusti,
il prisma
dono della Grande Madre
che scompone la delicata frontiera
tra ciò che ci è dato vedere
e ciò che ci è celato.
Niente tutù da canto finale
del cigno nero
per questa sarabanda finale.
Abito da imperatrice,
perline e ori cuciti dalla
Ob.Ob Exotic Fashions,
sartoria di Castel Volturno.
Costellata, Zenzile
Miriam Makeba,
dai sei ragazzi
per giorni
senza nome
marchiati
d’infamia dai giornali.
Aaalla miiia deeestra,
fulgido con il tamburello in mano,
Alex Geemes!
Gridateli i nomi,
perché la parola
crea mondi
e racchiude
l’essenza.
I proiettili dei Casalesi
questo tuo nucleo
l’hanno mancato.
Aaalla miiia siiinistra,
risplendente
al suo tamburo corsaro,
Alaj Abeba!
Si scatena
per coprire il crepitio
dei kalashnikov.
Aaalle taaastiere, miiio nipote
l’eccelso
Nelson Lumumba Lee!
Non servono presentazioni,
due nomi, un programma.
Daaavanti a voooi,
frenetici nel ballo
gli agilissimi, armoniosi
(uno tra loro, in verità, un po’ sgraziato
africano senza ritmo)
Kwame Julius Francis, Samuel Kwaku e Christopher Adams,
ambasciatori segreti
di Ghana, Togo e Liberia.
Per voi i figli d’Africa
hanno organizzato
la prima sommossa
nera su suolo italico,
per voi
adesso suona la banda.
E iiinfine: Eric Affum Yeboah!
Col suo sassofono glorioso
ha smesso di aspettare in macchina
angustiato
che gli portassero i pantaloni
rattoppati. Ora esibisce davanti al mondo
il suo talento.
La nuova, ultimissima band
di Lady Miriam
‘Sings the Blues’
Makeba,
Mama Afrika,
Imperatrice della Canzone Afrikana
avvolta
come dea
nelle stoffe preziose
della Ob.Ob Exotic Fashions,
famosi stilisti di Castel Volturno
rinomati in tutto il mondo,
è venuta a riprendersi
i suoi figli dispersi nella
Diaspora che onda dietro onda
dura da sessantamila anni.
Cantaci oh Diva
non l’ira funesta del Pelide Achille
che infiniti addusse lutti agli Achei,
ma la bellezza del suono
polifonico e inceppato,
le sillabe che si librano
volteggiano e cadono
come corvi con le ali spezzate
da uragani prossimi venturi.
Articolo di Reginaldo Cerolini 19-20 Nov. 2020 Belgioioso Saman-Anteo
[1] Esiste anche quello sorellale ma la matrice è tutta compiaciuta farina del sacco maschile.
[2] L’enunciato sagace ed ampliato, l’ho rubata a Aldo Nove, nella sua biografia di Franco Battiato, quando cioè riferendosi a Manlio Sgalambro, novello amico di Battiato, ammette che è sempre stato per lui difficile fare dell’essere colto una professione (pag. 184): questa frase forse per la sua verità mi diverte tremendamente.
[3] Di lei ricordo Il lamento dei bambini, come protesta sui bambini lavoratori nelle fabbriche e nelle miniere .
[4] Trovo sia facile o scontato e briccone in quanto ex-terzomondista, nato in Brasile, negro, omosessuale, tossicodipendente tifare per le minoranze di potere e condizione, perché è un po’ come celebrare me stesso e quindi quando ho potuto ho evitato, ma ora non più.
[5] Il Pop-Pensiero è una categoria che ho individuato, caratterizzata dalla faciloneria del linguaggio, ridotto a slogan, dall’ansia presenzialista di tutto ciò che glamour, pop, fashion, likeabile, linkabile, condivisibile e twitterabile, ed in qualche maniera consumabile. Se in sé il fenomeno pop inteso come popolare e riferito a certa musica avendo come scopo l’intrattenimento non mi disturba, quando allarga le sue maglie ed entra a far discorso in un quotidiano condiviso e preso come unica verità, quando si allarga ai media, alle comunicazioni, ai linguaggi politici e all’estetica (cinema, letteratura, teatro, eventi etc.) di una certa vasta cultura appiattendo i significati e sostituendosi al contenuto in favore di una face accattivante e da consumo facile, io non ci sto per via della malizia, del desiderio sistematico di coercizione, e svendita dei valori in favore del superficiale e dell’inutile. Questa categoria ha anche un altro difetto quello di non soddisfare, non dico la fame di conoscenza e il desiderio esistenzialista di un senso del vivere che non sia il coincidere con il materialismo a cui siamo abituati, ma quantomeno una necessità umana di senso, significato. Non riuscendo ad eludere né a rispondere alla domanda di valore e senso, il Pop-Pensiero si riduce spesso ad una prassi pulsionale, dove nella rete del godimento spasmodico e privo di finalità reitera una necrofilia-estetica inappagata e mortale.
[6] In Italia non esiste una vera e propria storia della Poesia Civile, ma esistono numerosi rappresentanti di questa intima tradizione, dei quali Pasolini sembra essere rimasto l’ultimo esponente, con diramazioni istrioniche anche nel campo documentaristico come è il caso di La forma della città ed in un certo senso anche con Comizi d’amore. La Poesia Civile ha un corrispettivo oggettivo nella Poesia Sociale spagnola, ovvero un movimento socio politico degli anni ’50, detto di Post-Guerra-Civile Spagnola in opposizione al Franchismo. Si tratta di una denuncia, con lo scopo altissimo di cambiare il mondo, mostrando le numerose ingiustizie sociali che si perpetrano sulle fasce umane più deboli o minoritarie. Ha poi grazie a José Eduardo Limòn, esteso il suo significato sino ad indicare la poesia Messico-Americo-Chicano del Texas, dello stesso periodo spagnolo, e in senso più ampio venne usata per descrivere la Lingua-Inglese di poeti come W.H. Auden, George Bernard Shaw. Nell’università di Boston si offrono corsi sulla Poesia Sociale del Centro America. In ogni casa, inserita o meno negli studi di Letteratura, è certamente poesia civile, di denuncia e di testimonianza tutta la poesia dei poeti donne e uomini Africani, Afro-Americani, Sudamericani, Indo-Americani, Asiatici, Indiani, Australiani ed Antartici che hanno descritto la propria condizione di popoli sterminati, dominati e confinati. In Pina Piccolo stupisce lo sguardo globale, il fatto che faccia parlare e testimoniare popoli che non hanno a che vedere con la sua provenienza. Si tratta di un sentimento onestamente e genuinamente olistico, in grado di critica, di denuncia e strenua speranza.
[7] Compaiono anche morti naturali, per lo più di intellettuali internazionali.
[8] E anche quando spirituale spiritualizzato in modo fideistico-clericale di asservimento ad un implicito e labile amore universale. In somma un ricatto spirituale quando non anche morale per l’animo e dell’animo quando, invece esso ha infinita capacità di creazione e colma esistenza.
[9] Le poesie di Piccolo, nel corso degli anni sono state lette e rilette in vari circoli in giro per il mondo e in special modo in Italia e USA, ma l’idea di una collettane ragionata ed offerta è tutt’altra cosa, è un atto di attesa, riflessione, limatura ed istintività soggiacente che va tenuta viva negli anni. Ci vuole molta tenacia per crederci e riuscire in un simile ambiziosissimo e nel suo caso eccezionalmente riuscito progetto.
[10] “I miei genitori avevano finito solo la terza elementare, non hanno mai imparato l’italiano ufficiale o l’inglese, si trovavano più a loro agio nel loro dialetto Calabrese che nell’arco di pochi anni lontano dalla comunità di soggetti che lo parlavano era divenuto arcaico. In ogni modo, mia madre ha scritto poesie, sentendo la necessità di trascendere la sua esperienza quotidiana e la lingua, e mio padre è stato davvero un talentuoso racconta storie”. Mia traduzione, dall’inglese, per gentile concessione di Doue e Pina Piccolo.
[11] Come mia abitudine non leggo mai, prefazioni, introduzioni, note o postfazioni che non siano dell’autore prima di leggere un lavoro nuovo e prima di avere scritto la mia autonoma critica. Ho letto con gusto la prefazione della docente Morace ed ho trovato gusto, in qualità di outsider di molte cose, fra cui la letteratura, nel vedere i nostri due punti di vista non troppo dissimili.
Immagine di copertina: Illustrazione di Giovanni Berton.