UN RACCONTO COLOMBIANO: SPIARE I FELICI (di Javier Zamudio)

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SPIARE I FELICI

Javier Zamudio

 

Traduzione di Elisa Gatti

 

Chiamai il negozio anche se era tardi. La cosa continuava a ronzarmi nella testa e non mi faceva dormire. Composi il numero senza speranza, eppure il tizio mi rispose. Probabilmente dormiva lì perché sbadigliò prima di chiedermi che cosa volevo.È per la scala – gli spiegai. – Non funziona.
 Sembrò pensarci su, rimase in silenzio, poi tossì un paio di volte e mi chiese qual era il problema.Uno non smette mai di salire.
 Non trovai un modo migliore per spiegarlo. Mi disse di portargliela e riattaccò.
 La mattina dopo la provai prima di uscire, ma non funzionò. I gradini sembravano infiniti e mi arresi prima di poter raggiungere il soffitto con le mani; era evidente che la scala aveva qualche difetto. A guardarla non sembrava ci fosse niente di strano, bastava un’ispezione sommaria per constatare che ogni cosa era al suo posto. Era una scala di alluminio pieghevole, di quelle a forma di forbice, aveva i pioli ben fissati ai montanti e il materiale era resistente come l’acciaio. Ci si poteva addirittura saltare sopra, perché la scala manteneva l’equilibrio in modo prodigioso.
 Me la caricai in spalla e uscii, il negozio era a quattro strade da casa mia. Quando arrivai, il commesso uscì ad accogliermi come se non ricordasse che avevamo parlato:Qualche problema con la scala?
 La sua domanda mi lasciò perplesso, la appoggiai al muro e mi accucciai per prendere fiato.L’ho chiamata ieri sera. Non si ricorda?
 L’uomo tirò fuori una sigaretta e cominciò a frugarsi nelle tasche in cerca di un accendino. Non mi ero accorto che fosse così giovane, sembrava quasi un bambino. Accese la sigaretta e mi buttò il fumo in faccia. Poi mi chiese se era vero che gli avevo telefonato, deluso mi alzai e presi la scala.Sì, verso le dieci.
 Mi chiese di nuovo qual era il problema.Non si riesce a salire... Non riesco ad arrivare in cima. Ieri, ad esempio, ho cercato di cambiare una lampadina, ma non ci sono riuscito, e il soffitto non sarà più alto di questo – indicai il tetto del negozio. Ho passato delle ore a salire i gradini, ma non sono mai arrivato in cima. Alla fine mi sono stancato e ho deciso di scendere.
 Afferrò la scala da un lato e la portò nel negozio. La appoggiò alla parete. Si fermò sul primo gradino, poi sul secondo e sul terzo.Sembra tutto a posto.Provi a salire un po’ di più – replicai.
 Scese, salì di nuovo, questa volta fino al quinto gradino, saltò sulla scala senza comprometterne l’equilibrio. Disse che era in buono stato e che il problema erano i miei piedi. Non lo contraddissi. Gli chiesi se potevo lasciargliela perché la ispezionasse meglio e disse di sì. Tornai a casa camminando lentamente e guardandomi i piedi mentre avanzavo. Lungo la strada scoprii che il piede destro era leggermente storto verso l’interno e spesso imponeva la propria andatura al resto del corpo. Arrivato a casa provai a vedere se quel difetto potesse essere la causa della mia disgrazia. Impilai delle sedie una sull’altra e salii. Tutto funzionò senza intoppi. Fui sul punto di cadere più di una volta, ma riuscii a cambiare le lampadine. Mi tranquillizzò constatare che non era dovuto, il mio problema con la scala, a quel piccolo difetto di nascita. Mi versai un bicchiere e mi sedetti a leggere il giornale. La sera chiamai mia madre e le raccontai la vicenda. Disse che avevo ereditato quel problema da mio padre, e il suo caso era così grave che molto spesso aveva dovuto camminare nella direzione in cui il piede destro lo obbligava ad andare. Era morto prima che potessi conoscerlo, quindi non avevo mai visto i suoi piedi, solo una foto del suo viso, l’unica che mia madre aveva conservato. Poi chiamai il negozio.ProntoSono io.Io chi?Le ho portato una scala oggi perché le desse un’occhiata.Cosa vuole?Com'è andata con la scala?
 Mi assicurò che aveva fatto sesso con la sua fidanzata sulla scala e non era successo nulla.Passi domani alle otto a riprenderla – mi disse.
 A quell’ora mi feci trovare davanti alla porta del negozio. Lui si pulì le mani, accese una sigaretta e venne fuori. Mi salutò con un sorriso.Sono qui per la scala – dissi.
 Lo sapeva, mise la scala sul marciapiede, me la caricai in spalla e cominciai a camminare. Una volta arrivato la lasciai in un angolo e mi sedetti a guardare quella casa così triste. A una delle pareti era appesa la foto di Claudia. Sul tavolo c’era un biglietto d’auguri di sua madre. Sulla specchiera si potevano ancora vedere il suo rossetto e un tanga rosa che aveva dimenticato. Tutto era rimasto uguale a com’era prima che se ne andasse. Chiusi gli occhi. Quando mi svegliai si era fatto buio. Mi alzai in piedi e cercai la scala, la appoggiai alla parete del cortile e provai a salire. Volevo raggiungere il bordo del muro che separava la mia casa da quella dei vicini e spiare da lì che vita conducevano. Da quando Claudia mi aveva lasciato e avevo perso il lavoro, l’unica cosa che desideravo era spiare i felici. Non riuscii a raggiungere il bordo. Mi sedetti sul divano e li sentii ridere. Invano accostai l’orecchio alla parete per sapere di cosa stessero parlando e rimasi così finché non fui vinto dal sonno.
 La mattina dopo chiamai il tizio del negozio e gli chiesi se potevo cambiare la scala, acconsentì senza problemi. La afferrai e percorsi le quattro vie che separavano casa mia dal negozio. Quando arrivai lui mi stava aspettando fuori.
 − Grazie mille − dissi.
 Non rispose. Mi caricai in spalla la scala nuova e iniziai a camminare. Quando arrivai a casa la appoggiai per terra in modo da aprire la porta più velocemente. Era arrivato mio fratello con tutta la famiglia: non li vedevo da mesi. Lui mi salutò con un abbraccio. Lo trovai più magro del solito. Álida, sua moglie, fece lo stesso. Era da molto che non avevo un contatto fisico con una donna. La cosa mi fece venire da piangere. Nascosi il viso e accampai la scusa di un’infezione oculare che mi stava facendo impazzire.
 Li invitai a sedersi e gli offrii qualcosa da bere. Insieme a loro c’erano i figli, Miguel e Javier. Mio fratello disse che non voleva niente e Álida mi chiese un bicchiere d’acqua. I ragazzi restarono in silenzio. Dopo averle portato il bicchiere d’acqua mi sedetti accanto alla finestra. Mio fratello chiese come andavano le cose: la mamma gli aveva raccontato che avevo perso il lavoro e la faccenda di Claudia era stata una notiziona, quindi non c’era nulla che potessi aggiungere a ciò che già sapeva.Come sempre − risposi.
 Mi raccontò il suo progetto di avviare un calzaturificio. Lo ascoltai annoiato mentre guardavo i due ragazzi e provavo a immaginare cosa sarebbe stato di loro in futuro. Non studiavano e sembrava che non avessero aspirazioni.
 Álida si alzò e i suoi figli fecero lo stesso. Mio fratello mi abbracciò e mi chiese all’orecchio se avevo un po’ di soldi da prestargli. Gli diedi gli ultimi spiccioli della liquidazione. Quando chiusi la porta mi versai un bicchiere di vino e mi sedetti accanto alla parete cercando di sentire i miei vicini. Sembrava che stessero guardando la televisione perché si percepiva solo il mormorio dell’apparecchio. In preda alla curiosità afferrai la scala nuova e uscii in cortile, la appoggiai al muro e salii. Questa volta raggiunsi il bordo facilmente. Li cercai per tutta la casa. Nel cortile, vicino alla parete – quasi impossibile da vedere – lui stava piangendo. Lei era seduta sul divano e si copriva il volto con le mani. In quel momento capii che i miei vicini non erano più felici. Era successo qualcosa. In mezzo al cortile c’era una lettera stracciata. Cominciai a scendere lentamente per non farmi scoprire e continuai per un po’ finché mi resi conto che anche questa scala aveva un difetto: non si finiva mai di scendere.

 

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ZamudioJavier Zamudio, scrittore colombiano. Autore di Hemingway en Santa Marta (Ed. Lugar Común, 2015), del libro di racconti Espiar a los felices (Ed. Eafit, 2016) e di El hotel de los difíciles (Lugar Común, 2018 – Wu Wei, 2018). Suoi lavori sono apparsi su El Malpensante, Número, Luvina dell’ Universidad de Guadalajara, Latin American Voices, Revista Corónica, Rio Grande Review, Huffington Post, El Espectador e altri.

Foto a cura dell’autore.

Immagine in evidenza: Dipinto di Hu Huiming. Per maggiori informazioni, consultare il sito web dell’artista https://www.huhuiming.org

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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