“Un poeta messo al bando nel cuore dell’Europa”. Una nuova raccolta di versi di Gëzim Hajdari – di Fulvio Pezzarossa

Cresce-dentro-di-me-

Articolo in parte ripreso da quello pubblicato il 20 aprile 2020 su Insula europea    http://www.insulaeuropea.eu/2020/04/20/morire-in-altra-lingua-nuovi-versi-dallesilio-di-gezim-hajdari-di-fulvio-pezzarossa/

 

Considerato da anni il maggiore esponente della produzione di testi poetici tra le figure uscite dalla migrazione, Gëzim Hajdari offre alle nostre lettere un nuovo e rilevante contributo, nel caparbio progetto di misurarsi col paradigma del presente che tutto appiattisce, frammenta, disconosce e distrugge, a determinare la condizione stessa dell’autore, intrisa della precarietà che sopporta ed esibisce di esule, migrante, rifugiato, altro e diverso.

Una identità fluida che impronta i suoi testi, elemento sostanziale del suo vissuto e del suo immaginario, segnati dal distacco col quale l’Italia ha circondato intellettuali “stranieri”, in difesa anche di purezza e primato letterari.

Questi componimenti giungono da un altro non-luogo distante dall’originaria Albania, come dalla perplessa Italia, marcato dalla vocazione insulare esasperata dalla follia della Brexit:

2 agosto ho abbandonato l’Italia, dopo ventisei anni, per un altro esilio

nella terra dei barbari.[1]

L’ostilità dei territori concorrono ad accentuare una più tesa dialettica tra angoscia del dispatrio e necessari capisaldi affettivi, conservati nelle lingue finora utilizzate, albanese ed italiano (accostate in quest’ordine anche nell’impaginato bilingue), cha paiono arginare un terzo idioma. Nel nuovo territorio è all’avvio un’esplorazione cauta e sospetta, riflessa nei componimenti della seconda sezione dalle lunghe campate, che inducono tempi lenti nel ricomporre un mondo sconosciuto. Da esso promana la decisa lontananza dalle radici mediterranee, suggerita da tratti del paesaggio: “le colline di granito del Devon”,[2] e dagli elementi climatici: “vento tagliente dell’oceano”,[3] “Piogge infinite”,[4] “Nevica sui Dartmoor/Sindone bianca sull’esilio”,[5] che delineano un’ambientazione sofferta, dissuasa da

Il pane amaro dei barbari.

Il vento e il freddo una violenza,

ti frustano il cervello,

picchiano l’anima. […][6]

Pure nel nuovo contesto sono riconoscibili le strutture profonde di una scrittura poetica tutta personale, nutrita dalle letterature nazionali che incrocia e alimenta. Non casualmente nel panorama italico è il primo migrant writer ad avere raccolto la larga produzione in un’antologia dinamica,[7] affiancata da un volume di critica accademica.[8] Strumenti che hanno favorito, a fianco di traduzioni in più paesi, la fissazione riconoscibile di immagini e stilemi di ineccepibile originalità a esprimere un’inquietudine curiosa e amara che affronta angosciosi passaggi in situazioni mai individuali, eco dell’inasprirsi involuto della società dell’incertezza aggressiva.

Hajdari risponde con una poesia intessuta di correlativi oggettivi, vocaboli mito che materializzano violente lacerazioni ed esplosive emozioni: “Dentro di me fuochi, spari, argilla e sangue”.[9] Disperato tentativo di ancoraggio a sassi, piante, suoli, animali, personaggi, che possano frenare lo slittamento nella marginalità che anche preclude la banalità del vivere quotidiano. La perenne condizione di esule cerca stabilità nella materialità umile e tangibile, col ricorso a una tavolozza lessicale che alterna alle tappe di un calvario rinnovato le pause contingenti in cui pare sedimentare la precarietà esistenziale: maree, stigmate, spine nere, merli, pietra, erba selvatica;[10] muro;[11] erbamara [12] e controvento.[13]

Scabri panorami raffigurano i tratti mnemonici di un’oramai inattingibile patria che accoglie “l’antica stirpe shquiptar”,[14] con l’emblematica sua corrotta capitale Tirana meretrice.[15] Ma al contempo interviene l’ulteriore strappo dal nuovo “materno” paesaggio delle “colline a strapiombo/della Ciociaria”,[16] dove è balenato un possibile radicamento tra “Via del Cipresso dove abito”,[17] il “negozio del pane”, il “bar vicino casa”.[18] Scenari banali nei quali affiora un colloquio umano che allenta l’aspra solitudine nella chiacchiera quotidiana: “Signor Hajdari lavori?”, “Caro come va il lavoro?”.[19]

Di contro presenze umane non compaiono nei testi dedicati alle brughiere britanniche, a ribadire il disagio delle recenti ambientazioni, le quali nei loro tratti avversi, ostili e freddi ribadiscono per un uomo disancorato e sperduto la costrizione a vivere dalla parte sbagliata. Colpa originale che marca l’assetto esistenziale interno come la dimensione corporea,[20] e sancisce l’impossibile riscatto di tutti i sud del mondo immersi in un caos doloroso dal quale l’umanità e il poeta non riescono a sfuggire, nonostante tentino continue evasioni:

Fuggono verso nord, ovest

File bibliche di uomini donne bestie bambini e vecchi

camminando senza sosta […]

addosso tonnellate di pioggia km di venti echi di guerre i lamenti

dei morti la maledizione del nuovo secolo […].[21]

Valore archetipico assume la mitizzazione del giovanile mondo albanese attraverso larghi quadri epici,[22] con superbi ritratti dell’arroccata comunità balcanica e della “stirpe di rapsodi” come caratteristica familiare.[23] Pur attraversate da un ossessivo destino di morte, sono però attivo deposito dove attingere una coerenza di sentimenti mai cedevoli alla corruzione degli ambienti politici e intellettuali, all’origine di una vita fuggiasca che rinsalda i riferimenti filiali e familiari,[24] entro i quali ripercorre itinerari educativi e letterari nutriti da valori di generosa solidarietà tra i viventi.

Si rifugge perciò da una prospettiva vittimaria attraverso una sfida non beffarda, ma nutrita di lucida pienezza umana che consente allo scrittore di accettare la condizione di esule senza redenzione. La convinzione di un impossibile riscatto in definitivi approdi spinge alla convinzione di “morire in altra lingua”,[25] senza tuttavia rinnegare la propria storia tormentata, dalla quale si alimenta la voce poetica dell’intellettuale emarginato che osserva un mondo nello sfacelo della sorda crudeltà, solitario testimone contro la piatta brutalità della indifferenza.

Da ciò si alimenta la coraggiosa continuità di una poesia civile, dove il testo mira a farsi strumento sferzante, giudizio fermo sulla corruzione della patria,[26] e pertanto informativo ed educativo. La scelta di moduli di arcaica tradizione consente un richiamo ai valori antichi da immettere nel presente, con l’ulteriore sfida di iscriverli nell’orizzonte espressivo della poesia italiana ormai lontana dalla cronaca politica. Infatti Hajdari apre la raccolta richiamando alla responsabilità che impone di non sottrarsi alla sfida diseguale contro la miopia di un’intera politica continentale:

Io sono un poeta messo al bando nel cuore dell’Europa

Europa cannibale e allegra.[27]

Presentandosi quale testimone vaticinante, l’autore connette la propria vicenda  alla storia di figure poetiche consumate dalla indifferenza e dalla sordità dei mondi, si tratti della sistematica soppressione delle voci scomode della tradizione poetica del paese adriatico,[28] o invece la chiusura del nostro sistema culturale a una vera accoglienza per gli scrittori della migrazione, solo blanditi quali portatori di salvifiche svolte creative entro illusori futuri destini creoli.

Finalmente prende evidenza una realtà palese ma non avvertita, che misura la vicenda della scrittura migrante in Italia (di cui è mancato il ricordo a evocarne il trentennale) fuori da astratte formule, percorrendo le parabole esistenziali dei personaggi che l’hanno da clandestini realizzata. Il lato umano e il vissuto di una prima generazione, ormai più che matura e senza adeguati scambi con quella successiva, dispiega una tragica storia di sconfitte, di ostilità e avversione per figure respinte dalla scena pubblica attraverso un’ostilità editoriale che ha inciso sulle loro stesse esistenze. Gëzim pietosamente ci invita a recuperarne quegli appassionati poeti inascoltati nelle tracce ignorate dei loro testi, e ricompone sofferti ricordi nell’ampia Elegia per i miei amici esuli, inusuale prospettiva di una critica letteraria in versi. Essa raffigura un contesto sociale e di cultura dove i tratti della alterità pesano come stigmi incancellabili, preludio a una morte “in povertà,/ solitudine/ e disperazione”[29], così che per tutta la numerosa schiera

nessuna donna pianse accanto al corpo senza vita del poeta,

nessun giornale annunciò la sua morte.

Nessuno.[30]

Sorprende la capacità di disseminare in un poema di centinaia di versi, con ritmi alti e desolati, i ritratti scabri e vivaci che restituiscono le fisionomie e le psicologie di Luigi Pacioni, Heleno Oliveira, Thea Laitef, Egidio Molinas Leiva, Hassan Atiya Al Nassar, Hakim Mohammed Akalay, Ali Mumin Ahad. Tutti costretti a percorsi minati dal “veleno dell’esilio”,[31] che li isola in una povertà umiliante prima di tutto relazionale e umana, essi subiscono una cancellazione fisica parallela alla damnatio della memoria; pertanto l’autore si fa custode e celebrante di un desolato mondo popolato di fantasmi illacrimati, sfidando il disinteresse della nuova patria che contraddice ogni aspettativa, tanto da poter affermare che “è annegato dentro di me un paese conosciuto”.[32] Contro il dominio torpido della sensibilità mercantile e corriva, non rimane che la ferma ricerca di un territorio ideale dove libertà e creazione coincidono: “La mia poesia un paese sovrano”.[33]

C’è in quel martirologio un presentimento autobiografico, ma anche il monito a non dissipare il contributo positivo che confini aperti possono favorire sul versante culturale, e letterario in particolare, in un paese che ha visto negli ultimi anni allontanarsi scrittori come Miguel Angel Garcìa, Amara Lakhous, Rula Jabreal, Fatima Ahmed, Randa Ghazy, Cristina Ali Farah, Elvira Dones, Ron Kubati, Tamara Jadreićić, Jadelin Gangbo, Shirin Fazel, Silvia Campaña, nuovamente esuli in altri luoghi d’Europa o Oltreoceano. Un rifiuto simile a quello che l’Italia ha espresso verso Hajdari, con un disinteresse contrastivo all’infittirsi dei suoi lavori: “Da anni non mi invita nessuna città in Italia a leggere i miei testi”.[34]

La speranza è che la qualità ovunque riconosciuta di eccellenza impedisca una cesura definitiva con la nostra realtà, grazie al fruttuoso impegno a coordinare proposte critiche e traduttive, giocate sulla dialettica alterità/letteratura, con l’editore romano Ensemble.

L’intersezione degli orizzonti culturali di riferimento, che lo status esiliaco accresce ed impone: “Condannato all’esilio da un altro esilio”,[35] accentua l’uso disinvolto di una tastiera diversificata ed altalenante tra le celebri fulminee notazioni versificate[36] e il gusto, che il poeta pare quasi compiaciuto di evocare nella foga della polemica o nelle situazioni dolorose, per forme larghe, di taglio narrativo e cronachistico, fino a proporre un panorama dell’intera storia albanese.[37] La dimestichezza con un repertorio poetico sconfinato, consentita anche dall’infaticabile lavoro di traduzioni e la frequentazione di plurime lingue, lo mettono al riparo dalle scontate soluzioni di esotismo manierato, limitato a tessere accattivanti, per suggerire piuttosto squarci profondi che sanano la rinuncia alla pratica quotidiana della madrelingua. Nervature e innesti riferiti ad esperienze larghissime, patite e introiettate a sostenere approcci curiosi a una vera letteratura-mondo, conferiscono varietà e plastica evidenza a un groviglio di immagini e formule che esplicitano, nel bruciante rilievo della loro carica espressiva, la necessità di allargare lo sguardo sul reale, trasferendo nella spontaneità della percezione la pluralità di prospettive e una gamma di immaginari che scavalcano di continuo artificiose barriere, gli “Incubi di confine”.[38] Un eccezionale intreccio di conoscenze, competenze, fantasie e spiriti analitici sorreggono una ferma intenzione poetica, ribadita in capo alla silloge e alla quale rimane coerentemente fedele al suo lavoro:

Ho pronunciato la verità nel tempo dell’inganno.[39]

Fulvio Pezzarossa.

 

[1] 21 marzo volano i pipistrelli sulle colline della Ciociaria, p. 143 vv. 12-13.

[2] Abitare nell’aspra terra del nemico appesa sull’orlo del precipizio, p. 151, v. 6.

[3] Dove ci conducono le voci in ascolto, le campane di mare?, pp. 153-155, v.7.

[4] Piogge infinite sono cadute negli anni, p. 165, v. 1.

[5] Nevica sui Dartmoor, p. 157, vv. 12-13.

[6] Il pane amaro dei barbari, pp. 161-163, vv. 1-4.

[7] G. Hajdari, Poesie scelte. 1990-2015, Nardò-Lecce, Besa, 2015)

[8] Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di A. Gazzoni, Isernia, C. Iannone, 2010.

[9] Perché mi hai fatto nascere albanese, cieco e senza memoria?, pp. 21-23, v. 6.

[10] Il ventisettesimo anno in esilio. Chiodo che sanguina. Quando finirà?, pp. 25-27.

[11] Chiodi dell’esilio, pp. 43-51.

[12] Tu non conosci le ferite del sud, pp. 55-57.

[13] Correre controvento verso la montagna, p. 61.

[14] Alzati Gesù, prendi la frusta, pp. 63-81.

[15] Tirana meretrice, p. 83.

[16] Perché mi hai fatto nascere albanese, cit., vv. 16-17.

[17] Il ventisettesimo anno in esilio cit., v. 20.

[18] La gente mi vede camminare a piedi per le strade della città ciociara, pp. 31-33, vv. 5, 14.

[19] Ivi, vv. 3, 8.

[20] Tu non conosci le ferite del sud, cit.

[21] Fuggono verso nord, ovest, pp. 131, vv. 1-3, 6-7.

[22] Già avevano ispirato il suo  Poema dell’esilio, Santarcangelo di Romagna, Fara, 2005; e poi 2007.

[23] Chiodi dell’esilio, cit., v. 1.

[24] Tu, mia vecchierella ti sei rinchiusa nella casetta petrosa e La sua voce minacciosa ogni mattina di buon’ora, pp. 35-37 e 39-41.

[25] Elegia per i miei amici esuli, pp. 89-121, v. 1.

[26] Alzati Gesù, prendi la frusta, e Tirana meretrice, cit.

[27] Io sono un poeta messo al bando nel cuore dell’Europa, p. 19, vv.1-2.

[28] All’Epicedio albanese il poeta ha dedicato una sofferta ricostruzione Gjëmë.Genocidi i poezisë shqipe, Tirana, Mësonjëtorja, 2010.

[29] Elegia per i miei amici esuli, cit., vv. 6,7 e 8.

[30] Ivi, vv. 246-248.

[31] Ivi, v. 411.

[32] Intorno a me strade nude mai percorse al sorgere del giorno, p. 123, v. 7.

[33] La mia poesia un paese sovrano, p. 129, v. 1.

[34] Raccolgo la frutta dimenticata sugli alberi per le strade dei quartieri, p. 53, v. 4.

[35] Perché mi hai fatto nascere albanese cit., v. 27.

[36] Attendo i giorni di maggio; Correre controvento verso la montagna; Catania, alle pp. 59, 61, 87.

[37] Alzati Gesù, prendi la frusta, cit.

[38] Il pane amaro dei barbari, cit., v. 20.

[39] Io sono un poeta messo al bando nel cuore dell’Europa, cit., v. 4.

—-TESTI—-

Foto di Gëzim Hajdari Gëzim Hajadari

[Si ringraziano l’autore e l’Editore per avere concesso la riproduzione di alcuni testi dalla raccolta cit., a pp. 19, 21-23, 25-27, 31-33, 143, 157]

Gëzim Hajdari

Uno dei maggiori poeti contemporanei, è nato in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Ha studiato all’Università di Elbasan e alla Sapienza di Roma. In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio in un’azienda per la bonifica dei terreni, due anni come militare, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës.  Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi e le speculazioni della vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha e dei recenti regimi mascherati post-comunisti; dal 1992 e fino all’estate 2020 è stato esule in Italia, ora vive in Inghileterra. Bilingue, scrive in albanese e in italiano. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi, inoltre ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. È vincitore di numerosi premi letterari. È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale. Con Ensemble dirige la collana Erranze e ha pubblicato Nûr: eresia e besa, Delta del tuo fiume e il recentissimo Cresce dentro di me un uomo straniero.

***

Io sono un poeta messo al bando nel cuore dell’Europa,

Europa cannibale e allegra. Di sangue bianco.

L’unica colpa celeste di uomo duro?

Ho pronunciato la verità nel tempo dell’inganno,

in un paese prigioniero senza veri nomi sui volti,

parole di fuoco sulla lingua. Sulle regioni dei mondi incurvati,

dietro la sete dei roghi, le strade tortuose e blasfeme,

c’è un po’ della mia vita profetica, un po’ delle utopie remote,

crescono di nascosto gemiti gonfi di rabbia sotto la pelle.

Freme il destino frantumato sui sassi, ventisette anni al confino

non commuovono nessuno. Nessun segno dall’altra costa selvatica

di varcare l’infanzia incendiata, i tetti dei miei libri in attesa.

 

***

 

Perché mi hai fatto nascere albanese, cieco e senza memoria?

Sono uscito dalla ferita del tuo grembo in una notte balcanica,

in cima alla collina buia, per vedere tormenti e dolori

e finire i miei giorni nella vergogna. Al confine, lungo i destini assetati.

 

Condannato all’esilio da un altro esilio,

lontano dalla terra del crimine. Dentro di me fuochi, spari, argilla e sangue.

Scrivo con la punta del coltello sulla pelle tremante

canti d’amore e di pena. Tutto diventa suono, gesto, oro.

 

Fuggo come un assassino verso le regioni del nord

con l’orrore nelle mani. Quale dio straniero ha inciso il nostro tempo assassino?

Umiliati prima che venissero al mondo i vivi, i morti.

 

Maledetti siano i figli indegni hanno bevuto il latte del tuo seno

di donna. Tu non hai partorito uomini, ma vermi che ti succhiano il midollo,

ti violentano le spoglie con pietre. Perché attendere la fine per tornare

nel sud a seppellire il mio nome? In quale paese?

 

Piango solo il tuo corpo martoriato sulle colline a strapiombo

della Ciociaria. Ahimè! Laggiù volti impazziti giacciono nel fango

sotto il vuoto del cielo. Voci di finti oracoli richiamano dalle vene scure

di un territorio sterile. All’orizzonte visioni di bianchi templi, infanzie

remote, veleno di vipera.

 

Terra pugnalata alle spalle,

accoltellata sulla fronte davanti all’occhio profano del giorno.

 

Scavo le radici eterne del tempo per non morire.

 

Sono uscito dalla ferita del tuo grembo in una notte di febbraio,

in cima alla collina buia,

per vedere dolori e tormenti,

e finire i giorni nella vergogna. In fuga da fuoco a fuoco.

Condannato all’esilio da un altro esilio,

lontano dalle città accecate con pietre.

 

***

 

Il ventisettesimo anno in esilio. Chiodo che sanguina. Quando finirà?

Il tempo scivola tra le dita come le voci che amiamo si perdono nell’abisso

dell’io, gli anni si conficcano nella mia carne come coltelli. Fuochi ignoti,

le solite frontiere assassine, ansie mortali. Non ho il coraggio di dire addio.

 

Fiumi di lettere, maree di versi crescono sulle stigmate del corpo tremante

senza sosta come spine nere. Ho visto tanti uomini morire sulla soglia

del giorno senza l’ultimo saluto; sulle labbra, echi di guerre, parole non dette,

inni di colline, ceneri fertili. Al capo del mondo una porta invasa dal muschio.

 

I merli mangiano le ultime bacche del sambuco sulla siepe di fronte la finestra

a strapiombo. Sui becchi le ferite del bosco. Si corteggiano a coppie,

mi guardano dritto negli occhi saltando sui rami denudati del siliquastro.

Di corvi e lastre fredde di pietra la stagione. Nulla promette.

 

Oltre i Monti Lepini, nel fondo del Tirreno, invecchiano i fulmini.

Le strade del ritorno per i Balcani prendono fuoco.

Città bombardate giacciono

sui libri incendiati, muri innalzati, fughe e spade assetate. Delirio e follia.

 

Chiudo gli occhi e ascolto me stesso.

In quale lingua mi chiamerà la morte nella stanza sgombra? Quale morte?

 

Spari di cacciatori di tortore attraversano la provincia macchiata di rosso.

Via del Cipresso dove abito, come un serpente velenoso, sale con fatica

sulla collina ciociara con alberi stretti l’uno all’altro.

 

Ho nostalgia di passeggiare con le mani in tasca nella città di Lushnje.

Quando frequentavo le medie e il Liceo vendevo il latte

delle mie capre

nei suoi quartieri, prima di andare a scuola.

 

Tornavo nel villaggio facendo due ore a piedi, nei pomeriggi

andavo nei campi a lavorare per comprare il pane quotidiano,

libri per studiare. Il cielo chiuso sulle spalle.
Erano gli anni del terrore di Stato. Condanne, fucilazioni, lavori forzati

in nome della lotta di classe. Marce, slogan, filo spinato.

 

Il mare del Tirreno porta tramite le gole dei monti il canto mortale

della maga Circe,

le voci arrochite dei pescatori stremati,

la nostalgia di quelli che partono.

 

***

 

La gente mi vede camminare a piedi per le strade della città ciociara

e mi domanda:

“Signor Hajdari lavori?”

“Sì” – rispondo io – “faccio il poeta (parola proibita), lavoro con le parole”.

 

Sabato scorso, al negozio del pane, ho incontrato alcuni amici

che non vedevo da un po’ di tempo,

mi salutano cordialmente. Mi chiedono:

“Caro come va con il lavoro?”

«Non male, cerco di andare avanti», dico con gentilezza.

 

Una volta un giornalista di un quotidiano italiano

che venne da Milano a trovarmi a casa, in via del Cipresso,

scrisse sulla pagina nazionale cultura:

A volte i poeti abitano anche a Frosinone!

 

Ieri, al bar vicino casa, ho incontrato per caso

un collega conosciuto a Parigi

durante la presentazione di un mio libro.

Quando mi ha visto si è stupito. Dice:

“Gëzim che ci fai qui?”

 

Stamattina, davanti all’Accademia di Belle Arti,

mi ha fermato un profugo di colore chiedendomi

in un italiano zoppicante:

“Amigo dame soldi!”

 

Gli rispondo: “Signore vivo alla giornata, venticinque anni in Italia

non so cos’è uno stipendio a fine mese”.

 

“Ce l’hai soldi, figlio puttana!”, mi insulta lui arrabbiato,

inseguendomi con un volto minaccioso.

 

Amici frusinati di vecchia data

Stranamente non mi salutano più.

 

Cresce dentro di me un uomo straniero.

 

***

 

21 marzo volano i pipistrelli sulle colline della Ciociaria,

11 aprile chiama l’assiolo notturno sui rami del leccio, nel cortile,

13 aprile giungono le rondini dal Libano,

14 aprile sono stato costretto ad abbandonare l’Albania,

dal porto di Durazzo, sconfitto, di notte, sotto la pioggia,

12 maggio sento il verso degli stornelli come se fossero impazziti,

16 maggio canta il cuculo sulle colline di Ferentino,

7 giugno illuminano le lucciole nel giardino, accanto allo zabel

3 luglio friniscono le prime cicale sul tronco del pino

marittimo di fronte alla finestra a strapiombo,

15 luglio raccolgo ogni anno corniole al lago di Canterno,

2 agosto ho abbandonato l’Italia, dopo ventisei anni, per un altro esilio

nella terra dei barbari.

 

***

 

Nevica sui Dartmoor.

Le Pietre di Stonehenge,

a forza del segreto,

svuotate del mistero.

 

Sull’albero del melo,

radici intrecciate,

conficcati coltelli di pioggia.

 

Acqua e sangue

l’albero di Geremia.

Stupore o passione

la nuova dimora?

 

Nevica sui Dartmoor

Sindone bianca sull’esilio.

 

Fulvio Pezzarossa

Docente di Sociologia della Letteratura presso l’Università di Bologna, Fulvio Pezzarossa è da tempo impegnato a studiare e accompagnare lo sviluppo dei testi di migrazione nel panorama letterario italiano. Oltre al convegno internazionale sui Vent’anni della scrittura di migrazione (CLUEB, 2011, con I. Rossini), si ricorda l’impegno come fondatore e direttore della rivista “Scritture Migranti”, e l’ideazione del primo Laboratorio di scrittura interculturale, che da oltre un decennio si realizza all’interno del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica bolognese.

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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