Un lungo respiro – Olga Orozco con commento di María Cecilia Graña (a cura di Maria Rossi)

cortile

Un lungo respiro in terre ispanoamericane

Nelle grandi città dell’America Latina la modernità dei primi del Novecento diede spazio ad alcune donne che si rifiutarono di assecondare gli affermati stereotipi del femminile; Gabriela Mistral, Nahui Olin, Victoria Ocampo, sebbene appartenessero in molti casi alle classi abbienti (ma non sempre, come nel caso di Mistral), di rado ebbero la possibilità di separarsi del tutto dal carico ancestrale che portavano sulle spalle. Sempre in quel periodo ci furono grandi cambiamenti perché l’accesso delle donne alle università permise a molte di rendersi autonome da un punto di vista economico, il che modificò anche la loro condizione nei rapporti con l’altro sesso. Certo, per tante altre che non riuscirono ad avere un’istruzione adeguata, la condizione di moglie e di madre prevalse facendole rimanere in una sorta di status quo.

Bisogna tenere presente, quando si parla di Ispanoamerica, che l’universo femminile è estremamente variegato dal punto di vista etnico, culturale ed economico, e generalizzare sarebbe falsare la realtà. In quest’antologia vorrei soltanto mostrare come alcune donne del continente, dal Messico alla Terra del Fuoco, hanno sentito il bisogno di aprirsi a orizzonti lontani, di raccogliere vecchie tradizioni, di mostrare la crisi della modernità o di parlare degli affetti e dei rapporti, concependo le parole sia come uno strumento da esplorare, sia come un modo per aprirsi all’altrove.

È un luogo comune, quando si parla di poesia, dire che è un genere congeniale al mondo femminile perché richiede, quando è breve, tempi ridotti di redazione (le donne, si sa, hanno dovuto aspettare prima di avere una propria stanza e di liberarsi dalle fatiche domestiche) ed è un genere che permette l’espressione quasi autobiografica dei propri sentimenti. Tuttavia chi lo afferma dimentica che la poesia porta con sé il movimento di un’arcaica attività maschile: la caccia come hanno ben sottolineato Amanda Berenguer e Octavio Paz. Ogni poesia diventa una spedizione alla ricerca di ciò che giace nel profondo della realtà quotidiana, una selvaggina metaforica che il poeta vuole accerchiare e illuminare con le parole: una tensione metafisica, un sogno, una situazione anomala, un amore perso o ritrovato, o semplicemente una triste realtà sociale o una mela verde appoggiata su un piatto bianco.

Nella modernità, scrivere in America Latina ha significato scrivere in un’epoca senza ripari, in tempi di sconcerto culturale, politico ed economico che cambiava continuamente di nazione in nazione nei diciannove paesi ispanofoni del continente, che hanno culture molto diverse tra loro. In questa situazione, le parole possono costituire un rifugio e permettere di unire in un solo testo ciò che è diverso o diviso; contemporaneamente possono mostrare un mondo che nessuno era riuscito a intravedere prima e dove si mantengono in bilico tante contraddizioni.

Nei testi che sono stati selezionati in questa antologia, la brevità non è l’elemento caratterizzante. Sono infatti poemetti di diversa lunghezza, che hanno richiesto un’elaborazione più lunga, forse in tappe diverse di scrittura, e i temi e i motivi, gli oggetti o i sentimenti, lo spazio e il tempo sono maggiori di quelli che appaiono in una singola breve lirica e hanno richiesto un lungo respiro creativo: da qui il titolo di questa antologia.

Testi scritti da donne: al riguardo posso dire, come sostiene Amanda Berenguer, che il corpo della donna diventa crogiuolo magico di trasformazione e metafora. È il luogo da cui nasce l’universo.

Nella scelta dei poemetti di questa antologia l’idea guida è stata pensare che esiste una letteratura di alto livello e di valore universale scritta da donne – canoniche e non – alla quale ora tutti – uomini e donne – potremo accedere in traduzione italiana.

María Cecilia Graña

 

 

Se mi puoi guardare

Olga Orozco

 

Madre: è la tua creatura inerme che ti chiama,

che abbatte la notte con un grido e la getta ai tuoi piedi come

un sipario abbassato

perché tu non rimanga lì, dall’altra parte,

dove tu soltanto arrivi con le tue mani di cieca a decifrarmi

nel mezzo di un muro di fantasmi fatti di argilla cieca.

Madre: nemmeno io ti vedo,

perché ora ti coprono le ombre congelate del tempo più

breve e della distanza maggiore,

e io non so cercarti,

forse perché non ho saputo imparare a perderti.

Ma sono qui, sul mio piedistallo colpito da un fulmine,

diventata statua di sabbia,

mucchio di cenere perché tu inscriva su di me il segnale,

i segni con i quali potremo ritornare a capirci.

Sono qui, con i piedi impigliati nelle radici del mio sangue in

lutto,

senza poter avanzare.

Cercami tu allora, in mezzo a questo bosco allucinato

dove ogni scricchiolio è un lamento,

dove ogni battere di ali è il richiamo di un esilio che non

capisco,

dove ogni cristallo di neve è un frammento della tua eternità,

e ogni fulgore, la lampada che accendi affinché io non mi

perda nelle gallerie di questo mondo.

E tutto si confonde.

E la tua vita e la tua morte si mescolano con le mie come le

maschere di un incubo.

E non so dove sei.

Invano ti evoco nel nome dell’amore, della pietà o del

perdono,

come chi accarezza un talismano,

una pietra che racchiude la goccia di sangue coagulata capace

di rivivere nel più impossibile dei sogni.

Nulla. Solamente un artiglio di atroci tristezze che scosta il

telo di altri anni

scoprendo un tavolo dove dividi il pane di ogni giorno,

una stanza dove distendi con mani pazienti le pieghe che

incidono nella mia anima la febbre e il terrore,

una sala che di colpo si addobba per il rito di guardarti

passare

circondata da un’aura di orgogliosa tenerezza,

un letto al quale ritorni dalla morte soltanto per non

addolorarci troppo.

No. Io non voglio vedere.

Non voglio imparare un’altra volta il nome della gioia nel

momento stesso in cui enormi buchi scavano il tuo viso

né sentire che il tuo corpo arresta una volta di più la disperata

marea che lo sospinge,

ancora una volta,

per avvolgermi per sempre di consolazione e di addio.

Non voglio sentire il rumore del cristallo che si sbriciola,

né i cani che ululano alle oscure bende,

né vedere che non ci sei.

Madre, madre, chi separa il tuo sangue dal mio?

Cos’è che si rompe come una corda tesa colpendo le viscere?

Quale gran pianeta infausto lascia cadere la sua ombra su tutti

gli anni della mia vita?

Oh Dio! Tu eri tutto quel sapevo di quel paese dimenticato da

cui venni,

eri come il rifugio della lontananza,

come un battito nelle tenebre.

Dove cercare ora la chiave sepolta dei miei giorni?

Chi interrogare sull’indecifrabile mistero delle mie ossa?

Chi mi ascolterà se tu non mi ascolti?

E nessuno mi risponde. E ho paura.

Le stesse paure per trent’anni.

Perché giorno dopo giorno qualcuno che si maschera gioca in

me alle allucinazioni e alla morte.

Cammino al suo fianco e spingo con la sua mano quell’ultima

porta,

quella che la mia nascita non è riuscita a chiudere

e che conservo io stessa vestita con un abito funebre di

sentinella.

Sai? Questa volta sono arrivata molto lontano.

Ma nel coro di voci che risuonano come un mare sepolto

non c’è la voce di foglia ombrosa sempre lacerata dall’amore

o dalla collera;

nelle processioni che si accendono di colpo come candele

improvvise

non vedo illuminarsi il colore di spuma dorata dal sole;

non c’è raffica di vento che faccia ardere i miei occhi con il

tuo odore di resina;

nessun calore mi avvolge con la compassione che hai infuso

nelle mie ossa.

Dunque, dove sei? Chi ti impedisce di venire?

So che se tu potessi accarezzeresti il mio capo di orfana.

Eppure so anche che tu soltanto puoi continuare a essere

qualcuno che permane nella sua propria memoria,

che alimenta l’imbalsamata attorno alla quale girano come

corvi poveri brandelli di lutto.

E sebbene tu subisca la terribile condanna di non poter essere

qui quando ti chiamo,

senza dubbio da qualche parte organizzi di nuovo la famiglia,

o metti in ordine le mie ombre

o tagli quei rami di brina che ricamano il tuo grembo per

lasciarli al mio fianco un giorno,

o cerchi di cucire con un filo infinito la grande ferita del mio

cuore.

 

Testi pubblicati su gentile concessione della casa editrice e  tratti dal libro “Un lungo respiro, Otto poemetti ispanoamericani del Novecento: Gabriela Mistral, Dulce María Loynaz, Olga Orozco, Rosario Castellanos, Blanca Varela, Cristina Peri Rossi, Margara Russotto, Susana Romano Sued”, Collana Hispánica, Edizioni Arcoiris, Salerno, 2018.

 

Olga Orozco (1920-1999)

un lungo respiroOlga Orozco nasce in un paesino di provincia nella Pampa argentina. Il suo vero nome era Olga Noemí Giuliotta ma prese il cognome della madre. Studia Lettere a Buenos Aires. Poeta, narratrice e saggista, ha lavorato come giornalista in riviste culturali e per la radio e si è anche dedicata al teatro. Sebbene non abbia fatto parte del gruppo dei surrealisti argentini, la sua poesia presenta molti elementi che sembrano avvicinarla a quella corrente artistica. La critica la colloca generalmente nella Generazione del ‘40 che aveva abbandonato certe premesse dell’avanguardia per occuparsi preferibilmente dei sentimenti; per questo buona parte di quel gruppo è stato definito ‘neoromantico’.

La scrittrice riceve nel 1998 il prestigioso premio Juan Rulfo per la sua opera narrativa. Sebbene ci siano differenze tra la poesia e la narrativa di Orozco, si possono trovare dei punti in comune. La stessa autrice vede legami tra il suo primo libro in prosa La oscuridad es otro sol (1967) e la sua poesia.  In questo volume, infatti, la realtà oggettiva e quella soggettiva si mescolano con la memoria per seguire il tema forse più importante della scrittrice: la ricerca di una verità essenziale.

Orozco fa apparire nella sua opera molte figure femminili ispirate forse al profilo della sua nonna, ma comuni alla cultura occidentale: vagabonde, straniere, fattucchiere, vecchie sagge; tutte figure enigmatiche che a volte si confondono con la voce dell’io poetico per sviluppare i temi dell’identità e della possessione, o per costruire visioni o creare una parola misteriosa e profetica. Sempre all’interno di questo immaginario, Orozco dimostra un grande interesse per la cartomanzia, il che s’intravede nelle sue poesie, dove si attua una sorta di conciliazione con la magia e con il meraviglioso dei surrealisti. Nella sua opera si mescolano tradizioni culturali diverse e le figure di Cassandra, della Pizia, della Sibilla Cumana s’intrecciano con le vecchie fattucchiere indigene isolate in mezzo alla pampa. Tutto questo allo scopo di sconfiggere la morte attraverso dei rituali o di abbattere la barriera che divide la vita dalla morte con diversi strumenti magici o scritturali. La poesia stessa si rende analoga a quei rituali che evocano un mondo arcaico. In gioventù Orozco è stata sedotta da diverse forme di occultismo. Gradualmente abbandona questi versanti per coltivare soltanto la magia della poesia.

Una poesia, la sua, che è caratterizzata da un’intensità evidente nel lessico utilizzato e nell’andamento rituale del ritmo dei suoi versi, generalmente lunghi. Una poesia che nella ricerca di un io profondo sembra aspettare una rivelazione, che potrà essere il proprio nome segreto o il proprio destino. Orozco scrisse undici libri di poesie: Desde lejos (1946), Las muertes (1952), Los juegos peligrosos (1962), Museo salvaje (1974), Cantos a Berenice (1977), Mutaciones de la realidad (1979), La noche a la deriva (1983), En el revés del cielo (1987) e Con esta boca en este mundo (1994). L’ultima raccolta è stata curata da Ana Becciú (Adriana Hidalgo editora, 2012).

 

Immagine in evidenza: Foto di Aritra Sanyal.

 

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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