UN AFFRESCO DI PALERMO: VITE ORDINARIE, FRANCA ALAIMO

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“In questa autobiografia romanzata, l’autrice disegna un vero e proprio affresco della società palermitana dal 1950 al 1980. La protagonista, Giovanna, figlia di un contadino siciliano e di una giovane donna tedesca, rimasta orfana di madre, viene lasciata in un brefotrofio e successivamente adottata. La sua formazione morale e ideologica matura attraverso vicende personali ed eventi storici di rilievo, quali la strage del ’60 a Palermo, durante il governo Tambroni, e la contestazione del ’68. Molte figure accompagnano la crescita sentimentale di Giovanna: da Nina a Costanza, dai genitori adottivi ai tanti amici di giochi e avventure, dal nonno barbiere allo zio calzolaio, un instancabile autodidatta di fede comunista, innamorato del messaggio pasoliniano. Un intreccio memorabile di storie in cui la freschezza di certe evocazioni si mescola alla profondità dei ritratti psicologici e all’irrinunciabilità della vocazione alla scrittura poetica come strumento di decantazione del male e del dolore.” dalla sinossi di Franca Alaimo, Vite ordinarie, Giuliano Ladolfi editore, 2019. Qui di seguito vi proponiamo uno stralcio dal capitolo 15.

 

E questa immagine gliene fece venire subito in mente un’altra, e v’indugiò fino a quando essa le aprì una piccola porta che le aveva regalato un nuovo mondo in cui rifugiarsi con i suoi libri. Adesso non riusciva a stabilire esattamente quando fosse stata la prima volta che vi aveva fatto ingresso; ma ricordò il perché.

Le avevano regalato un bel libro di fiabe illustrato, ma siccome in casa c’era un gran trambusto di operai che stavano sostituendo le vecchie tubature sotto il pavimento della cucina, e non riusciva a concentrarsi, sgattaiolò attraverso la porta che dava sull’androne del palazzo da cui si snodava una stretta e altissima scala a chiocciola che portava, dopo avere superato il pianerottolo su cui si apriva l’appartamento della signora Brancato fin sul tetto, là dove erano state collocate le cisterne per la raccolta dell’acqua. Lei non era mai salita fin lassù, ma ecco che ormai si decise a farlo. Notò che quei gradini, a differenza degli altri, qua e là smozzicati lungo gli orli, più grigi e più avvallati specie dal lato del corrimano, luccicavano lisci e candidi con le loro belle venature grigie, che si intrecciavano in disegni bizzarri.

Quando, però, arrivò in cima, si accorse di una vecchia porta sopra tre gradini così alti che bisognava quasi arrampicarvisi. La porta, della cui esistenza mai nessuno aveva parlato a casa, era tutta scrostata con chiazze sparse di vernice azzurra. Incuriosita, la spinse con tutte e due le mani sperando che non fosse chiusa a chiave, e, quando quella finalmente si aprì, si trovò dentro una stanza coperta da un tetto bassissimo che quasi le sfiorava la testa e illuminata da una sola finestrella dai vetri ormai opachi a causa dello spesso strato di polvere che vi si era depositato. La luce, smorzata, si posava uniforme su tutte le cose che vi giacevano ammassate: due vecchie poltrone, una cassapanca, una sciabola appesa al muro, una serie di damigiane e di fiaschi dal vetro verde di varie dimensioni, una colonna di scatole di cartone che quasi arrivava al tetto, una pila in legno, un’antiquata macchina da cucire tutta arrugginita, una gavetta di metallo ammaccata e senza coperchio, uno scatolo pieno di bambole di pezza ed altri giocattoli tutti monchi di qualche loro parte, e un mucchio di altri oggetti mescolati disordinatamente.

La prima cosa a cui pensò fu che aveva trovato finalmente un luogo segreto che avrebbe potuto abitare lei sola e dove non avrebbe permesso mai a nessun altro di entrare. La seconda che avrebbe finalmente potuto leggere le sue storie a voce alta, senza dare fastidio a nessuno. Infine rifletté che tutti quegli oggetti che venivano da un passato lontano, sarebbero appartenuti a lei sola e che grazie ad essi il tempo si sarebbe fermato perché lei l’avrebbe addomesticato.

Perfino gli odori frammisti di polvere, muffa e altri afrori indefinibili, nonostante le provocassero prurito al naso, le piacevano. Anche quando riuscì ad aprire a fatica e dopo vari tentativi la finestrella che sembrava essersi incollata alla cornice di legno, e poté respirare una boccata d’aria fresca, capì che essi non se ne sarebbero mai andati via e che ormai avrebbero costituito l’anima segreta di quella soffitta dimenticata.

Ci tornò più volte lassù, specie quando venivano a far visita alla mamma le sue amiche del cuore che la distraevano fino al punto di farle dimenticare un qualsiasi tipo di controllo sui movimenti della figlioletta.

Ogni tanto si affacciava dalla finestrella per guardare il giardino meravigliandosi di come appaia tanto diverso un luogo se lo si guarda da un altro punto di vista. Da lassù, infatti, ella poteva cogliere uno spazio più ampio e scorgere, per esempio, le stalle costruite poco oltre una cisterna d’acqua alla sua destra. Capì finalmente da dove provenisse ogni tanto fin sul balcone del piano terra, da dove era solita affacciarsi, l’odore penetrante dello stallatico.

Il giardino che si appiattiva sul fondo, piuttosto lontano, mentre aveva acquisito in ampiezza, aveva perduto in dettagli; non si potevano più distinguere i fiori ad uno ad uno, ma essi formavano qua e là delle chiazze di colore uniformi; vista da lassù la larga striscia dove erano stati piantati gli alberi di pero stracolmi di fiori sembrava un fazzoletto candidissimo, essendosi annullati gli spazi in realtà esistenti tra un albero e l’altro che dal basso sembravano tanto ampi; e, in fondo, vicino allo steccato brillava un quadrato arancione che non aveva capito a cosa attribuire, quando l’aveva visto la prima volta, finché non ebbe ricordato che qualche tempo prima il giardiniere aveva assicurato al padre di Giovanna di avere già messo a dimora un centinaio di piantine di calendule. La conca della fontana si era trasformata in una sorta di anello in cui fosse stata incastonata una luminosa acqua marina tutta riverberante di luce e i viottoli sembravano dei piccoli nastri lasciati cadere da una donna che li tiene in grembo e si alza d’improvviso senza più pensarci, abbandonandoli al loro intreccio casuale.

Ma, cosa ancora più straordinaria, da lassù si invertiva la relazione tra la terra e il cielo: infatti, adesso la quantità di cielo sembrava aumentata estendendosi sopra, sotto e intorno, abbassandosi fino alla linea del suolo, mentre dal balcone sembrava che fossero gli alberi a sfidarlo e a volergli sottrarre spazio con le loro chiome sempre più alte ed abbondanti. Concluse, allora, che bastava mettersi all’altezza del cielo per comprendere la piccolezza ed inferiorità della terra e questa cosa la colpì così tanto, che non era riuscita a pensare ad altro per qualche giorno senza però venire a capo di niente.

E venne anche il momento che in quella soffitta non le riuscì più di leggere; sentì che le cose la chiamavano, che volevano che lei le vedesse veramente e da allora aveva cominciato una perlustrazione attenta ed aveva finito con il considerarle dei giocattoli particolari dotati di voci che le raccontavano le loro storie bizzarre. Fu allora che cominciò a dare vita a dei piccoli spettacoli. In particolare la sciabola con l’impugnatura d’argento e la lama lunga e sottile un poco arrugginita, che pendeva dal muro e che qualche volta la luce faceva scintillare come un fulmine, divenne la protagonista di molte storie incredibili.

Erano per lei motivo d’incantamento anche le centinaia di corpuscoli, che danzavano su e giù dentro i raggi del sole penetrati attraverso la finestrella della soffitta; ogni volta si meravigliava che la luce del sole fosse scesa giù da molto lontano per illuminare anche la polvere; niente le sembrava così straordinario e non sapeva spiegarsene il motivo; e forse era proprio questa sua incapacità a tenerla inchiodata per molti minuti ad osservarle.

Una volta che aveva indugiato più del solito, avvinta dalla storia che le stava narrando un carillon che non suonava più ma mostrava ancora la sua piccola ballerina in gesto di danza, sentì le voci della madre e di Nina che la chiamavano accoratamente.

Capì dalla prossimità delle loro voci che si trovavano nell’androne, e trasalì, ma pensò che, non vedendola sulla scala, l’avrebbero cercata altrove, dandole il tempo di scendere in giardino in modo da farsi trovare là.

Ed invece, sgomenta, udì dire alla madre: «Vuoi vedere che è finita in soffitta?» Ascoltò impaurita i loro passi avvicinarsi sempre di più alla porta. Le sembrò che gli oggetti cominciassero a fremere di paura, come temessero di essere violentati dalla vista di persone sconosciute. E, quando la porta fu spalancata, disse tutto d’un fiato: «Non sto facendo niente di male, mamma; qui è più bello leggere, c’è tutto il silenzio che voglio.»

«E perché non hai risposto ai nostri richiami? Perché mi lasci sempre sgolare?», chiese, stizzita, la madre, ansando, perché salire quella scaletta non era stato agevole per lei.

«Volevo sapere se mi volete bene aveva risposto al punto da non smettere mai di cercarmi» e, mentre pronunciava queste parole, capì che era la spiegazione giusta per quanto riguardava Nina, ma non per la madre, a cui voleva solo fare un dispetto.

Nina, che aveva intuito la rabbia della zia, per evitare a Giovanna una qualche spiacevole reazione, le circondò le spalle con un braccio, e le disse soltanto: «Adesso, prima di metterti a mangiare, devi lavarti per bene. Sei tutta piena di polvere, hai le manine nere, vedi?», e l’aveva condotta in bagno.

Da quel giorno Giovanna non ebbe più una stanza segreta, perché i suoi genitori decisero di svuotarla, e di trasformarla in una dispensa dove ogni tanto andavano a prendere qualche barattolo di sugo o qualche pacco di pasta, messi insieme a tutto il resto in bell’ordine lungo delle scaffalature di metallo che la madre puliva con attenzione maniacale.

Ora che ripensava alla vecchia soffitta, Giovanna scopriva una cosa che da bambina non poteva comprendere, e cioè che essa le piaceva tanto non solo perché conteneva oggetti diversi da quelli che vedeva per casa, ma soprattutto perché le dava la possibilità di sparire per un po’ di tempo e fingere che tutto il resto fosse morto e che da lei soltanto dipendesse l’inizio della vita. Scendere in basso, insomma, era stare nel mondo dei grandi, starsene sull’albero e leggere era come stare in una sorta di tappeto volante, fra realtà e magia; e salire nella parte più alta e segreta della casa era sottrarsi allo spazio e al tempo.

«Adesso anche tu l’hai fatto! Anche tu, mia cara cugina, tra qualche ora sparirai per sempre. In fondo la morte è l’ultimo nostro gioco!», pensò Giovanna riemergendo dai suoi ricordi e fermandosi ancora una volta a guardare il volto della morta coperto dal velo dell’ombra serale.

Se ne stette, quindi, per qualche minuto a ciondolare per il salone osservando questo o quell’oggetto, ricordando con quanta meticolosità Nina se ne prendesse cura, e come fosse felice di mostrarle ogni nuovo acquisto; e soprattutto cercò con gli occhi, finché le riuscì di trovarla, una preziosa statuina di biscuit che ritraeva un angelo che suonava un flauto: egli era seduto sulla balaustra di una scala attorno alle cui colonnine si attorcigliavano dei racemi pieni di grappoli d’uva ombreggiati da bei pampini verdeazzurri.

Quella statuina era stata oggetto di lunghe contemplazioni per lei, quando era ancora una bambina e la zia Giacoma la teneva gelosamente sul comodino, perché era appartenuta alla madre, e temeva che qualcuno potesse romperla; e solo dopo la sua morte, era stata spostata nel salone ed esposta continuando ad attirare la meraviglia dei più piccoli.

Quanti oggetti c’erano in quella stanza! E com’erano silenziosi! E soprattutto come erano remoti! Mai più le mani di Nina li avrebbero sfiorati con compiacimento, mai più avrebbero sentito il suo respiro chinarsi su di essi e vivificarli; e dal grande quadro appeso alla parete sopra il pianoforte, la ragazza con i gomiti poggiati sul tavolo, la camicia sbottonata sui seni, il sorriso tranquillo avrebbe continuato ad offrirsi alla vista di ogni ospite futuro. I suoi occhi sarebbero rimasti sgranati per sempre su quei pochi centimetri di nero che il pittore aveva adoperato collocandovi in mezzo un leggero tocco di bianco che ne simulasse la luce dello sguardo e non avrebbe assorbito altre visioni che il nulla della finzione e l’illusione della profondità prospettica.

Del resto chi si fosse avvicinato alla tela avrebbe scoperto dei piccoli errori nella composizione e perfino qualche grossolanità nella stesura dei colori senza però riceverne quella delusione che si prova quando un volto che sembra bello se visto da lontano, da vicino si rivela pieno d’imperfezioni, perché si sa che certe approssimazioni nell’arte pittorica sono utili alla gradevolezza dell’insieme. Ma, d’altra parte, a cosa sarebbero serviti ormai tutti quegli oggetti alla morta?; rifletteva. Essi avevano avuto il loro piccolo ruolo nella vita di Nina, ma senza parteciparvi mai, (sebbene a lei, come a tutti noi, sembri talvolta il contrario), perché gli oggetti sono fatti per farci capire l’inconsistenza delle gioie e dei piaceri, specie se sono legati alle forme della materia.

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IMGP0057Franca Alaimo è nata nel 1947. Vive a Palermo. Esordisce come poeta nel 1989 con Impossibile Luna a cui sono seguite altre diciassette sillogi, quattro e-book, e una pubblicazione con PulcinoElefante. Ha scritto cinque saggi sugli autori contemporanei: Cara, T. Romano, Luisi, Loi, Rescigno. È presente in numerose Storie della Letteratura italiana, in antologie di prestigio (Newton Compton, Aragno, LietoColle, etc…) e in riviste quali Poesia e Anterem. Ha tradotto dall’inglese due brevi sillogi del poeta irlandese Peter Russell. Ha scritto centinaia di recensioni sulle opere dei poeti contemporanei. E’ presente sul sito Italian Poetry e in quello argentino dedicato ai poeti di tutto il mondo. Alcuni suoi testi sono stati tradotti in spagnolo e tedesco.

Immagine di copertina: Foto di Teri Allen Piccolo.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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