La mia previsione, quasi oracolare, che il grande capolavoro della nuova letteratura argentina sarebbe apparso nell’umile mangiatoia di qualche piccola casa editrice (candidamente battezzata come “indipendente”) si è avverata appieno. L’uscita de Le brigate di Ariel Luppino – prima in spagnolo, nel 2017, per Club Hem, e ora in italiano, per Edizioni Arcoiris, nella collana Gli eccentrici – ha dunque un carattere doppiamente inquietante: sia per l’abominio messo in scena nelle sue pagine (dico, senza paura di esagerare, che l’arte insidiosa della sua narrazione gauchesca riduce Meridiano di sangue di McCarthy a un innocuo capitolo di Bonanza), sia per l’inverarsi del presagio (omen) relativo alla sua comparsa (romanzo di grandezza e orrore pagani, Le brigate avrebbe potuto certamente rivelarsi tra le viscere di animali sacrificati, come quelle che gli aruspici esaminavano per divinare avvenimenti oscuri).
Esporne la trama – il racconto delle specifiche atrocità perpetrate da un personaggio chiamato “il Milite”, in un contesto di dittatura post-apocalittica – sarebbe, direi, un’empietà necessaria. Citarne le frasi e momenti perfetti è renderle giustizia:
Verso la fine della festa, il Milite diede inizio al Dono del Topo. Un rituale pagano che consisteva nel tingersi la faccia con sangue di topo. Bisognava catturarne uno, aprirgli la pancia e succhiargli i visceri, mentre ancora dimenava le zampette: lo si mangiava crudo, ma ancora caldo. Le zampette, rosse di sangue, andavano morse usando i denti frontali, gli incisivi. Io fui il primo a farlo.
[…]
«Il mio patrigno morì che ero ancora piccola. E quella stessa notte si presentò alla finestra della mia camera, come un gufo. Da allora non riesco a dormire senza farmaci» mi disse, sfregandosi un dito sulle gengive.
[…]
«E va bene, le ho stuprate. Ma passati una mano sulla coscienza: chi non è stata presa con la forza almeno una volta, eh? Mi sembra poco per piantare tanto casino».
La trama – di per sé ipertrofica, frutto di una schizofrenia miracolosamente calibrata – va dal propagarsi di una peste che decima la popolazione di Buenos Aires all’incontrastata potestà sanitaria delle brigate, fino alla disseminazione del Male nei diversi strati del potere (passando attraverso la dura ed esplicita requisitoria del narratore contro gli epigoni saeriani nella letteratura argentina): una contro-epica del potere e della sottomissione (come Fogwill definiva El Fiord di Lamborghini), ma anche la pretesa di porre la sintesi impossibile di Tadeys (Lamborghini) e Los sorias (Laiseca) alla base di un progetto destinato a durare nel tempo. Creato a partire dalla massima heideggeriana secondo cui «solo dov’è linguaggio vi è mondo», il “non-mondo” di Luppino designa la fondazione di una lingua e di un metodo.
Il protagonista è testimone dell’orrore, ma testimone non passivo, e anzi ambiguamente partecipe di quell’inferno carnale, sedotto dal carisma del “Milite” che si estende ad altre figure del potere, in una simbolica spirale di degenerazione: figure minori (“il Trompa”, “il Cucarda”) o maggiori (“il Ministro”), ma tutte da intendere come reincarnazioni preternaturali (nello stesso modo in cui Rosas, Yrigoyen, Perón e il mazorquero di La refalosa di Hilario Ascásubi rappresentano, secondo Ezequiel Martínez Estrada –il nostro grande pensatore macabro–, lo stesso essere reincarnatosi a più riprese).
Classificabile in un certo senso come “nuova fantascienza argentina”, il romanzo di Luppino può essere in realtà accostato solo al ciclo di Rafael Pinedo che si apre con Plop. E senza dubbio valgono anche per Le brigate le parole con cui Gaut vel Hartman compendia il romanzo di Pinedo: “festa antropologica della degradazione”.
Leggere l’opera d’esordio di Luppino è anche assistere all’origine di un “progetto” (come lo definisce Ricardo Strafacce), al parto di un ibrido mostruoso, tra Lamborghini e Laiseca (come assicura Cabezón Cámara). Un ibrido da considerare tuttavia, più propriamente, come l’ultima propaggine di un’atipica stirpe di incendiari.
Emerso, come unicum orgoglioso e selvaggio, in un panorama letterario mondiale che tende alla compiacenza, Le brigate non accetta altre valutazioni se non in rapporto al proprio lignaggio: la gauchesca, Lamborghini, Laiseca, ma anche “la littérature du dehors”, formula con la quale Foucault definiva la trasgressione del linguaggio professata da Bataille, Klossowski e Blanchot. Una tradizione fatta di idee strane e frasi perfette. Proponendo una certa immagine del Male, il romanzo di Luppino veicola teorie provenienti da una filosofia troppo nera per poter essere trattenuta entro i confini della finzione: Le brigate esprime, di fatto, un’incontenibile forza distruttiva. Di Luppino si potrebbe dire ciò che Borges diceva del poeta Almafuerte: in un’altra epoca sarebbe stato un caudillo, il capo di una setta, il fondatore di una nuova religione. Ma perché… in un’altra epoca?
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Luppino irrompe nel campo letterario come a suo tempo Aira: con un romanzo estratto da un sistema personale, da una geografia di opere inedite, di testi che già compongono una serie e che, raggiunta la massa critica, esigono ora la pubblicazione, il riconoscimento di una comunità di lettori. Un sistema costruito in dieci anni di scrittura segreta. Agli inizi degli anni ’90, Aira prese d’assalto il mercato (un certo mercato) saturandolo con brevi romanzi scritti e accantonati nel corso del decennio precedente. Luppino fa oggi lo stesso, anche se sotto altre insegne: quella dell’attesa morbosa – per dieci anni ha scritto e atteso, scritto e atteso, come se si preparasse a tendere un tranello (alla letteratura?) – e quella della più ferrea autocritica – in dieci anni ha anche distrutto molte opere che non lo soddisfacevano.
In un’epoca che vede pubblicare ogni risibile sforzo narrativo di scrittori con pochi anni e ancor meno talento, l’esordio di Luppino è di una superbia meravigliosa: quella di chi conosce il proprio valore, ha un’assoluta padronanza dei suoi mezzi… e tante opere già pronte nel cassetto.
Ho avuto la fortuna di leggere alcuni di questi inediti, altri tasselli del suo complesso mosaico, ritrovandovi quello strano piacere già sperimentato con Le brigate: il piacere che dà una scrittura in cui la trasgressione è un seme dal quale germogliano, inesauribilmente, dottrine demenziali.
Le brigate… Anche da solo, in nuce, separato dal “progetto” luppiniano, il romanzo distilla il medesimo veleno. Perché ha frasi perfette nella loro bizzarria, frasi su cui si potrebbe costruire tutta un’opera, frasi per le quali ogni altro scrittore sarebbe disposto ad uccidere. Non Luppino. Come Caligola, lui vuole che tutta la nave sia un tesoro.
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Agustín Conde De Boeck. Dottore di ricerca in Letteratura presso l’Universidad Nacional de Córdoba (Argentina) e ricercatore post dottorato del CONICET. Esperto di letteratura argentina e letteratura fantastica, ha pubblicato vari articoli in riviste specializzate e i libri El Monstruo del delirio. Trayectoria y proyecto creador de Alberto Laiseca (La Docta Ignorancia, 2017), Sinfonía para un Monstruo. Aproximaciones a la obra de Alberto Laiseca (Eduvim 2019) y H.P. Lovecraft. Vida y obra ilustradas (Diábolo, 2019). Attualmente sta lavorando ad una raccolta critica sulla finzione gotica nella letteratura rioplatense del secolo XIX e ad una biografia di Edgar Allan Poe.
Foto in evidenza di Alberto Guadagno
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