Tumore -Prima parte (Mamun Ahmed Mustafa)

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Tumore (prima parte)

di Mamun Ahmed Mustafa

 

Sono le otto del mattino, nell’estremo nord dell’Europa, mi svegliai e andai in sala per prendere il mio tè mattutino e fumare tre sigarette. Andai in bagno, mi immersi sotto l’acqua calda, il vapore saliva per fuoriuscire da un piccolo buco. Quando uscii, l’odore del caffè che mia moglie aveva già preparato, invase la mia mente. Il mio grande amore per il caffè lo sapevano solo le persone vicine. Fumai altre tre sigarette, mi vestii e uscii.

Alle dieci del mattino avevo una visita dal mio medico, parcheggiai la macchina fino a un posto lontano dallo studio del medico, con lo scopo di concedermi una passeggiata e prendere qualche boccata d’aria. Camminavo distratto, non feci caso a nulla, poiché erano le solite strade che frequentavo e non vi era nulla di nuovo che attirasse la mia attenzione.

Aspettai nella sala d’attesa, gli agenti della polizia stradale erano dietro lo studio del medico, a caccia di multe. Probabilmente il salario, che era alle porte, era la loro sola preoccupazione, dovevano allora battere cassa. Tra i loro lineamenti e quelli dei conducenti c’era una grande differenza.

Smisi di osservarli quando il medico mi chiamò. Mi chiese come stessi, gli dissi che la emicrania era quella di sempre, anzi, divenuta ancora più forte da farmi perdere la concentrazione e il controllo in alcuni momenti. Mi accorsi, per la prima volta, del grande interesse che il medico aveva per il mio caso. Mi chiedeva  tante cose con molta attenzione, e ascoltava le mie risposte come se seguisse una narrazione che non poteva ignorare. Soffersi il peso delle domande, mi accorsi di una frase che doveva uscire fuori da tutte quelle domande, sentii una forte amarezza nella bocca, ma continuai con pazienza rispondendo al suo interrogatorio. Si girò con la sedia verso il computer, lo guardò un po’, poi si rigirò verso di me e disse:

– Devo dirti la verità, non ho il diritto di nascondertela.

Per la prima volta, da anni, i miei occhi osservavano il posto e i piccoli dettagli, seguivo le piccole cose che si nascondevano sotto terra e tra le crepe, osservavo i muri con attenzione, cercavo di abbreviare la distanza tra l’esilio e la patria.

Mi si presentarono davanti agli occhi le immagini dei miei figli, le loro risate, i sorrisi, la loro tristezza e  rabbia.

In quel muro c’era una crepa, in quella strada c’era un piccolo buco che dava fastidio ai conducenti e ai passanti. Lì, sul soffitto, davanti a quel muro, ci stava una giovane donna, indossava dei jeans, fumava con calma, osservava le strade e i marciapiedi, ma non si girò verso di me. La brezza picchiava il mio corpo, si raccoglieva in cerchio come per formare un uragano. Lo sguardo del medico mi perseguitava, c’era in esso la compassione, e qualcosa di strano. Era arabo come me, i suoi lineamenti somigliavano a quelli del mediterraneo e dell’Eufrate, c’era in lui l’odore delle palme e i lineamenti di Baghdad.

Tanti anni fa ero lì, nelle strade di Baghdad, giravo tra i negozi, il pesce alla griglia e i dolci “Man e Salwa” vivono ancora nella mia memoria. Qui si fermò Harun ar-Rashid, e da qui uscì l’esercito do al- Mu’tasim per rispondere al grido di una donna. Qui era nata la civiltà, qui il mondo imparò l’alfabeto.

Si resuscitò mia madre, la vidi nella strada di fronte, camminava frettolosa, cercai di raggiungerla ma sparì in un attimo di distrazione.

Il medico mi disse: devo dirti la verità. Non sapevo se i poliziotti fossero ancora lì a caccia di multe, una donna inciampò sul marciapiede, si rialzò, i suoi vestiti erano bagnati. Mi guardò, mi girai dall’altro lato, sospirò dopo essersi accertata che non avevo visto ciò che era accaduto. C’erano molti gabbiani in cielo, strillavano in modo nefasto. Mia figlia, la più piccola, era a scuola, il mio primogenito dormiva profondamente, mia moglie faceva i lavori di casa, mia madre giaceva in una tomba accanto a quella di mio padre, nel cimitero di Dhinnaba.

Nessuno al mondo sapeva della mia sciagura, soltanto io e il medico e facce che non conoscevo e ormai non ricordavo. Mi parlavano con una freddezza mortale, “Ci vuole mezz’ora per fare la radiografia, devi essere forte e paziente, se senti di non farcela più premi quel pulsante, cerca però di resistere il più possibile”.

Premetti il pulsante due volte, alla fine ce la feci.

Camminai verso il mare, c’era un golfo indefinito, lì vicino si innalzava la biblioteca comunale. Mi ricordai di quando salivo le scale, qualche giorno prima, con energia e agilità, andavo alla ricerca di un libro che mi aiutasse a imparare quella lingua gelida. Perché ora non dovevo imparare qualcosa in questa vita? Mi riposai su una panchina, accesi una sigaretta, mi misi a osservare le onde che venivano dall’estremità del mare, per gettare un po’ d’acqua sulla mia testa. Ahimè, se le onde sapessero il mistero del mio riposo in quel posto. Seguii una piccola barca che virava improvvisamente in un’altra direzione, stava quasi per rovesciarsi se non fosse stato per la bravura del conducente.

Salve!

Mi girai verso la fonte della voce e trovai una giovane bianchissima e bionda, sui suoi lineamenti una malinconia carica di vuoto che si rispecchiava nel suo sguardo. Mi chiese una sigaretta, quando gliela accesi mi disse che non aveva da pagarmi la sigaretta, sorrisi. Mi disse: “Sei pallido”. Mi si ripresentò l’immagine del medico, un’onda si alzò più alta delle altre, “E’ vero che sono pallido, oppure è la paura che risale e mi domina l’anima?”.

Dissi al medico: “Dimmi tutta la verità; è la morte? Quanti giorni mi sono rimasti? Quanta tristezza e quanti battiti? Non temere, non cadrò sul pavimento dello studio, ma devo sapere quanto mi è rimasto di tempo, per dividerlo con i miei figli nella giusta misura. Lo sai? Un mese fa è nata una mia nipotina, era il punto luminoso in questo esilio, quando è uscita dal ventre di mia figlia Lina, ho visto la luce riempire l’universo, e ho scoperto, per un attimo, che io mi estendo sull’esistenza in maniera diversa. Quando l’ho abbracciata, mentre era ancora macchiata con il liquido del parto, e ho sentito il suo profumo, ho percepito l’odore di mia madre e di mio padre. Ho sussurrato nel suo orecchio, “Io e te ci incontreremo nel giorno delle tue nozze, scriverò molto di te, nasconderò tutto nel tempo, e quando tu e tuo marito vi sedete sulle poltrone delle nozze, porterò fuori il tempo e te lo regalerò”.

È ancora nei suoi primi mesi, e tu ora mi dici la verità! La potrò vedere mano nella mano con il marito, nel giorno più importante della sua vita?

Non temere, dimmi soltanto quanto tempo mi è rimasto, vorrei portare i miei figli in patria, per parlargli di mio padre, lì, e di mia madre, per far vedere loro il posto dove sedevano, e il loro letto. Ora, oltre all’esilio, li toccherà anche la miseria! Come posso andarmene ora e abbandonarli?

Non importa, dimmi, sono rimasti pochi giorni? Pochi mesi? Forse un po’ di più, dimmi, io potrò muovermi nel limite del mio tempo con misura. Un’ora per Mu’tasim, un’altra per Lina, una per Ahmed, una per Ru’a, e l’ultima per Mustafa.

Per la mia nipotina due ore, per il viaggio diverse ore. C’è mio fratello e un mio amico in Giordania, quante ore dedicherò a loro? Va la macchina, arriva al ponte di Damia, qui è l’autogrill di Gerico, l’odore della patria forata. Continuo con un’altra macchina, qui il campo di Tulkarem, non ho bagagli, scendo nella strada principale, guardo il muro della moschea al Firdaus, mi avvicino, lo tocco con la mano, sorgono i ricordi, il luogo dell’abluzione. Quante volte ho fa fatto l’abluzione qui! Il ventilatore, il pulpito della moschea, il tappeto rosso bruno luccicante che profuma di buon odore, i gradini che sono ancora cinque come li ho lasciati anni fa. La distanza tra la moschea e il campo profughi è un centinaio di metri. La scuola dei rifugiati si innalza davanti ai miei occhi, provo a entrare ma il calcolo del tempo non mi permette, mia sorella Iman ha più diritto dei ricordi per cui ho nostalgia. La pompa d’acqua “Abu Hamdullah” è ancora al suo posto, e anche l’albero di guaiava, usavo le sue foglie per curare il mio stomaco, mi ha riconosciuto, ora il suo richiamo mi raggiunge. Ritorno da lei, e per la prima volta, da quando uscii dallo studio del medico piango.

La ragazza mi chiese un’altra sigaretta, cercò di farmi sorridere, rifiutai, dovevo continuare a camminare, dall’albero di guaiava fino alla casa di mio padre. Tutte le strade mi riconoscono, come il luogo riconosce il tempo e il tempo il luogo. Ci sono tante cose che devo finire prima dell’esaurirsi del tempo, la fruttivendola di “Abu Jamus” è stata demolita, è cambiata, ora non somiglia più quella di prima, mi sento di voler fuggire. La casa di “Abu Majdi” è stata demolita pure, ora è più grande. il giardino “al Zagal” è sparito, ora al posto suo ci sono mura sorde. “Salih al Jarmi” fa ancora i falafel, la casa di “Abu Tahum” è trasformata in un masso di cemento. Se entrassi nella stradina a sinistra troverei il quartiere “al Nadi”, e se avessi svoltato a destra sarei entrato nel quartiere “Al Ruba’ia”, ma il tempo scorre veloce, forse più veloce di quanto immagino, o più lento.

Pace alla tua anima “Abu Aiub”, la tua fruttivendola, povera e misera com’era ma splendeva per tua presenza, circondato dalle vecchie del campo profughi, ora è diventata una macelleria in cui scorre il sangue e se ne vanno le vite. La carne appesa ai ganci, come una storia morta e abbandonata. La fruttivendola di “Abu Hashem” è diventata un parrucchiere, ha perso il suo sapore, i profumi e i suoi ricordi. “Al Atrash” è ancora nella sua fruttivendola di fronte a quella di “Abu Hashem”, accanto al quale si innalza una moschea in cui avevo fatto la preghiera varie volte. Non mi piaceva molto quella moschea, per cui avevo sempre frequentato quella nel campo profughi, in cui mi sentivo più compunto, per la forte fede e la luce divina che mi inondava. Con queste braccia ho scavato le fondamenta della sua biblioteca, e con il mio sudore ho aiutato a fare il suo tetto. Il primo libro che entrò nella biblioteca era un mio dono, per le anime di mio padre e mia madre: la spiegazione del Corano, di Al Qurtubi.

La fruttivendola di “Al Muasi’i” ha perso la sua dolcezza e il suo splendore. Il povero Musi’i, da cui rubavamo i meloni mentre lui stava di guardia, ora ha perso la voce, se ne sono andate le sue corde vocali, ora parla con i gesti. A destra del suo negozio c’è una fruttivendola che si chiama “Moderna fruttivendola dell’ansia”, non so perché si chiama così, ma certamente esprime il cambiamento che ha subito il quartiere.

Squillò il telefono, mia moglie chiedeva del motivo del mio ritardo, disse, “Parla con la tua nipotina Sara”.

La ragazza continuava a osservarmi, non capiva nulla di quello che dicevo, le diedi un’altra sigaretta, fece un largo sorriso. Osservai il suo viso, mi soffermai sulla punta della testa, mi ritornò in mente la frase del medico, i miei sguardi erano penetranti e la ragazza si sentì confusa e imbarazzata. Io non sentii nulla di ciò, ma l’imbarazzo sulla sua faccia mi costrinse a smettere di osservarla.

Sono arrivato alla fruttivendola di al Hafi, amici e vicini mi circondano, baci e abbracci, il mio amico Jihad Attar attraversa la folla e mi scuote forte, mi abbraccia e mi sussurra: il tuo odore non è cambiato, il tuo sudore è ancora abbondante. Mi afferra per la mano, entriamo nella stradina che porta alla casa dei miei, la casa della mia infanzia. L’odore del cibo appena cotto nel campo profughi mi penetra nel fondo dell’anima, le passanti mi salutano con affetto e simpatia, e con una gioia che non si trova fuori a quel posto.

La porta è chiusa, la casa è abbandonata, dominata dalla desolazione, abitata da una morte soffocante. Le chiavi ce le ha mio fratello Adulrahim, guardo il mio amico e prima che proferisse anche una parola ho già sfondato la porta.

La morte si aggira in casa: qua è morto mio padre, là è morta mia madre, e forse qua o là è morto mio fratello, chissà? Qui è morto mio fratello Muhammed, e qui mio fratello Qassem, e Basem è morto su quel pezzo di terra, qui è morta mia sorella Khalidia e Maisun è morto a poca distanza, e anche Safa.

Sfioro le mura con una mano che sa come toccare i ricordi, escono fuori sussurri e sospiri, sorrisi e lacrime, mi viene il singhiozzo, mi assale la rabbia e la nostalgia. Mi dirigo verso il rubinetto, disseto la mia memoria con un’acqua che avevo sempre condiviso con i cari e gli amici.

Dice il mio amico: tu hai fame, andiamo a pranzare. Lo osservo a lungo, è cambiato, la mano del tempo ha disegnato delle rughe nel collo, i capelli sono diventati di un bianco che tende al blu. Nei suoi lineamenti appare un’infanzia che io conosco e amo. Scappo dai suoi sguardi, un attimo che ti spinge a piangere e a ridere allo stesso tempo. Lui ha rispettato il mio silenzio. Come ha imparato a rispettare un silenzio carico d’afflizione e del calcolo del tempo? Sarà quel senso che viene una volta sola, e cambia le persone, anche se per breve tempo.

Voglio vedere la mia anima gemella, la mia sorella Iman, è un pezzo del mio cuore. Voglio baciarla sulla testa, sulle mani e sui piedi. Vorrei bagnarmi del suo sudore, dalle sue lacrime che scenderanno per la felicità. Vorrei abbandonare la vita con il sapore della sua felicità. Vorrei toccare i suoi capelli neri, metterle un bacio sulla fronte e sulle guance, per cancellare il calcolo del tempo rimanente nella mia memoria. Soltanto Iman può concedermi una lunga vita, una vita che continua in una dimensione al di fuori delle ore e dei giorni.

Siamo andati in macchina, ho chiesto al mio amico di rallentare, per poter osservare i muri, le strade e i marciapiedi.  Le palme, gli ulivi e gli oleandri sono ancora ai loro posti, ma sembra triste. Soltanto l’albero di sicomoro che sta nel campo profughi è diventato più alto e ramificato. La nuova moschea e quella vecchia sono ancora lì, la scuola Al Asma’i sta per crollare, è diventata una rovina, l’hanno abbandonata le ragazze che la frequentavano. Ora si vedono soltanto muri che emanano calore e umidità.

Scendo dalla macchina, l’albero di Henna, che è stato piantato in mia presenza, sembra sorridere, manda dei sospiri, lo percepisco. I gradini sono ancora dello stesso numero, ciò che è cambiato che non sono più di cemento, ma di marmo. Il mio amico osserva la scena, anche lui ha i suoi ricordi, ha vissuto tra noi come uno della famiglia, non si sentiva mai estraneo o timido. Arrivo alla porta, a destra l’albero di melo a sinistra quello di pesca.

Busso alla porta con una mano tremante, temo che uno dei suoi figli mi risponda, sento dei passi, li riconosco, arriva, il cuore mi batte forte, la voce angelica: chi è? mi pietrifico, ripete la domanda, mi assalgono tanti pensieri, ma la mia lingua non risponde più ai comandi.

Apre la porta, s’incontrano gli occhi, tremano i cuori, cade per terra incredula, la sostengo, “fratello”, si, sono io.

Suonò il cellulare di nuovo: “Dove sei? Il pranzo è pronto, Sara ti aspetta. Ok, arrivo.

La frase del medico mi risuonava ancora in testa: “Hai un tumore lungo quattro centimetri e qualche millimetro, noi non sappiamo nulla per ora, non posso affermare nulla, dobbiamo aspettare altri sei mesi”.

L’odore di Iman si confonde con quello di mia madre e mio padre, ha tutto l’odore di coloro che se ne sono andati. In lei c’è la tenerezza della madre, appoggio la testa sul suo grembo gremito di ricordi, lei piange di felicità e di sorpresa, io piango di nostalgia. Dice: sei pallido, sarà il lungo viaggio, hai fame e sete, e forse hai nostalgia del caffè che faccio con le mie mani, o del tè alla menta. È confusa, non sa cosa fare, le chiedo di sedersi, si siede, appoggio la testa nel suo grembo.

Passa la mano sulla mia testa calva, mi sento molto bene, un benessere che passa dalle sue dita alla mia testa, al mio cervello. Lei non sa nulla di quello che soffro, non lo sanno nemmeno mia moglie e i miei figli, forse dopo sapranno tutto senz’altro. Io non dirò nulla. Sento qualcosa di caldo cade sulla mia guancia, ho capito che sono le sue lacrime. La guardo con la coda dell’occhio per non sollevare la testa dal suo grembo, sorride, ho capito subito che è un sorriso finto. Vuole nascondere ciò che ha dentro, sollevo la testa con l’odore della tenerezza che mi riempie.

È con me il mio amico, devo andarmene ma tornerò. Ora vado da mio fratello Abdullrahim. Mi tiene la mano, mi legge nella mente, mi stringe forte al petto: tu non tornerai!

Arrivo alla casa di mio fratello, mi assedia la nostalgia, non era a casa, dico a suo figlio: vado al cimitero di Dubaba, dove ci sono le tombe di mia madre e mio padre. Tutte le strade prendono i lineamenti di Iman, la sua voce quando mi dice: “Tu non tornerai”. Arriviamo al cimitero, non mi suscita paura come una volta, arrivo alle tombe e mi fermo lì.

Mia madre è morta con un qualcosa al cervello, mio padre è morto a causa di un ictus cerebrale, è morto senza tante sofferenze, solo pochi giorni di dolore. Mia madre non è morta se non dopo tre anni di sofferenza e dolore, di tanto in tanto andava in coma. Ha perso la pelle, ci guardava con dolore e afflizione, sperava di andarsene da quella vita a lei cara. Mio fratello mi aveva chiamato per comunicarmi che mio zio Subhi era morto a Damasco, non l’avevo detto alla mamma, ma lei l’aveva scoperto con quel senso che solo i vicini alla morte hanno. Quando si svegliava mi diceva che suo fratello Subhi l’aveva visitata, lo stupore mi faceva a pezzi, perché parla di Subhi che ormai era sotto terra, e non di Fu’ad che era ancora in vita? C’è un nesso tra i primi momenti della morte e la vita stessa, un nesso strano ma esistente.

Suonò il cellulare:

Ma dove sei? Sara mi occupa tutto il tempo, devi venire subito.

Ok, arrivo.

Perché hai la voce roca?

È vero che la mia voce è roca? Chiesi alla giovane che si sedeva accanto a me. Lei mi osservò stranita, non capiva l’arabo, mi resi conto, come se fosse la prima volta che mi rendevo conto di quello. Le diedi una sigaretta mentre stavo per andarmene. Dopo alcuni passi ritornai indietro, le diedi tutto il pacchetto e anche l’accendino, rimase contenta, le sorrisi e me ne andai.

Le facce passavano davanti ai miei occhi, con un movimento veloce, avevano lineamenti diversi dai miei, andavano nella direzione opposta alla mia. Anche l’aria che condividevamo sembrava diversa; qui non c’erano cari ne amici, i muri non somigliavano ai muri, i marciapiedi privi di vita. La neve si stendeva all’infinito, vagava nel profondo della mia anima, mi dominava, si diffondeva nelle cellule. La distanza tra me e la macchina era di alcuni minuti, e tra me e mia sorella Sabiha, cioè dal cimitero a casa sua, era di un muro che aveva costruito il colonizzatore. Un muro che dilatava il cammino da ore a giorni, e forse mesi. Avevo abbastanza tempo per raggiungere Sabiha, a Haifa?

Il mio amico è immerso in un silenzio insolito, la piccola palma ombreggiava ancora sulle due tombe. La pietra liscia è lì, dove è stata sempre, dove l’ho messa io per sedermi accanto alle tombe di mia madre e mio padre. I nomi sulle lapidi stanno per cancellarsi, sui lati delle lapidi ci sono le crepe, e hanno bisogno d’essere restaurate. A sinistra c’è uno spazio per un’altra tomba.

Guardo il mio amico, nei suoi sguardi c’è una domanda, e in cuor suo ha una voglia di domandarmi. La venerazione per il luogo e per il mio silenzio lo incitano a tacere.

Si avvicina a me, dice: non hai pianto come facevi sempre, c’è qualcosa che non va! Sono preoccupato per qualcosa che hai dentro di te, nel cuore e nella mente.

Io indico le crepe e i nomi che stanno per essere cancellati: devi restaurarli, e qui, in questo spazio, devi seppellirmi, senza nome e senza data.

 

 

Traduzione di Gassid Mohammed, Licenza Creative Commons  Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.

 

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Mamun Ahmed Mustafa, scrittore palestinese nato a Tolkarem, 1961. Membro della lega dei combattenti palestinesi. Ha svolto il ruolo segretario del sindacato degli artisti espressionisti palestinesi nella zona nord. Direttore della rivista palestinese Arab, 1995. Ha svolto il lavoro di giornalista e presentatore di programmi culturali  in una radio a Ramallah. È stato arrestato più volte dalle forze dell’occupazione israeliana. Ha pubblicato decine di opere, tra cui:  Perdizione – raccolta di racconti, 1984,
La morte a Londra – 2010, Confusione- romanzo, 2011,  Pagine di un’anima – romanzo, 2011, Crollo – romanzo, 2012

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Foto dell’autore a cura di Mamun Ahmed Mustafa.

 

Riguardo il macchinista

Gassid Mohammed

Gassid Mohammed è uno dei macchinisti fondatori de lamacchinasognante.com. Ha contribuito fino al numero 4 e si è ritirato a dicembre del 2016. Un grande bambino che insegue le farfalle da una vita. È nato a Babilonia, a qualche passo dell’Eufrate. Casa sua è eretta sulle basi della Torre di Babele, nessuno ci crede ma è così. È cresciuto in un piccolo paesino in campagna, con le pecore, le mucche, le galline, le farfalle, le api e tutti gli animali e gli insetti. Tutto il suo corpo è costituito dall’Eufrate, non solo perché ci faceva il bagno ogni giorno per tante ore, ma anche perché le piante e le verdure che piantava e faceva crescere erano irrigate dall’Eufrate. Gli piace molto la natura perché ha passato la sua infanzia e l’adolescenza negli orti e nei campi. Il suo orto aveva una collina coperta di erbe e fiori, a lui sembrava fosse il resto dei giardini pensili. Ovviamente nessuno ci crede, ma c’è poco da fare. Da bambino aveva sempre inseguito le farfalle, e le insegue tuttora, e lo farà per sempre.

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