Ho conosciuto Massimo Navone nel 2015, quando chiamai la scuola Paolo Grassi che lui dirigeva, in cerca di fondi, spazi ed attori per lo spettacolo Fame che con la CineQuartiere volevo realizzare, gli chiesi consigli. Lui mi mise davanti alla dura realtà dello stato di salute del teatro italiano, da prima mi scoraggiai, avendo capito che era meglio rimboccarsi le maniche e non aspettarsi niente, ma poi emozionato dalla sfida, gli scrissi che entro 3 mesi, se mi avesse fatto la cortesia di essere mio ospite avrebbe visto in scena l’atto unico della pièce teatrale. Lui disse di sì, e quando fummo pronti tre mesi dopo, venne alla prima ed unica rappresentazione. Dopo la fine dello spettacolo, venendo a salutarmi mi disse, garbatamente, che aveva apprezzato il dramma. Il giorno dopo lessi sulla mia mail una frase di felice congratulazione, che per me giovane artigiano dell’arte teatrale significò molto. Dico questo perché il teatro vive della tradizione, della forza innovatrice di chi azzarda la sfida, degli stimoli a proseguire di chi è più grande ed esperto e della volontà ferrea di essere e fare teatro.
Intervistarlo è un atto doveroso di confronto, a quasi 4 anni di distanza, e di restituzione di un messaggio positivo per quanti amano questo artigianato assoluto, bello e “imperfetto”.
Reginaldo (da ora R): Può presentarsi?
Massimo Navone (da ora N.): (sorride) Mi chiamo Massimo Navone, faccio il regista, sono anche insegnante di Recitazione e Regia alla scuola Paolo Grassi di Milano.
R.: Regista, Direttore della Paolo Grassi, Docente, quale dei tre mestieri l’ha più formata?
N.: Credo tutti alla pari, perché sono mestieri che si integrano reciprocamente. Sono stati dei percorsi di diversa esperienza. Quello di direttore è durato dieci anni, ed è stato ovviamente particolarmente impegnativo perché la struttura era grande ed importante, con tanti corsi al suo interno e l’ambizione di farli lavorare in sinergia e quindi ha richiesto un impegno notevole e uno sviluppo di competenze trasversali tra le diverse discipline dello spettacolo. È stato interessante soprattutto per la possibilità di creare dei legami internazionali, in Europa e nel mondo, di scuole dello stesso livello, come per esempio La finestra sulla drammaturgia tedesca, Il teatro di Dario Fo per le nuove generazione. Abbiamo avuto uno scambio importante di drammaturgia contemporanea con il teatro Lensovieta di San Pietroburgo. Abbiamo fatto- per due anni gestito da me- Olive meeting delle scuole del mediterraneo. Dando così la possibilità di dare un profilo internazionale alla scuola, e di permettere agli studenti di crearsi a loro volta delle relazioni con coetanei internazionali e questo a dato origine a formazione di progetti che sono stati il naturale sviluppo di questi incontri. Per quanto poi riguarda l’attività di regia e l’insegnamento si sono integrate e sviluppate insieme negli anni.
R.: La trasversalità di queste sue attività è forse, mi viene da pensare, il modo ottimale di dedicarsi al teatro.
N.: (ride) Ottimale non lo so. Sicuramente come tutte le cose ha dei pro e dei contro. Nel mio caso mi ha dato la possibilità di stare a contatto con le nuove generazioni e quindi mi ha impedito di ancorarmi ad una forma di teatro corrispondente ad una determinata epoca, ad una poetica che di solito un regista tende con gli anni a cristallizzare. Il fatto di aver formato dei giovani mi ha dato la possibilità di seguire il teatro nel suo evolversi nel quotidiano contemporaneo. Credo anche che questo mi abbia dato una maggiore apertura, una maggiore sensibilità. D’altra parte invece questa vicinanza ed impegno mi ha impedito di sviluppare una poetica personale specifica, rispetto alla produzione teatrale ma anche perché il teatro in questi ultimi vent’anni ha subito una contrazione talmente brusca e radicale che, devo dire che non vedevo attorno a me grandi possibilità di espressione o di spazio produttivo, per cui ho preferito spaziare su più fronti.
R.: Come è arrivato al teatro?
N.: Al teatro sono arrivato molto giovane passando da una passione molto forte per le arti visive. Dopo un’infanzia ed una preadolescenza passata in Liguria sono venuto a Milano verso i quindici anni, un’età molto importante dove uno comincia a guardarsi attorno con un occhio più adulto. Ho avuto l’occasione di abitare vicino alla Palazzina Liberty appena occupata da Dario Fo e dalla sua compagnia La Comune. Così sono stato nella stessa zona dove si stava sviluppando un progetto molto importante, voluto e creato da Paolo Grassi che era quello del decentramento e prevedeva il teatro appunto nelle zone periferiche della città, Piazzale Cuoco, con un esperimento molto importante di contaminazione del teatro perché si vedevano cose molto diverse e di alta qualità che si avvicendavano, come dicevo, su un palcoscenico periferico. Quello è stato un esperimento lungimirante. È un peccato che questo tipo di teatro abbia avuto degli sviluppi molto più all’estero che qui. Ancora oggi ci troviamo col problema delle periferie da rivitalizzare non solo da un punto di vista urbanistico, ma soprattutto da un punto di vista culturale. Quello di Paolo Grassi era un progetto avanti di trent’anni (sorride) è per questo un peccato che le cose in Italia tendano a non svilupparsi come potrebbero.
R.: Nella cultura italiana, qual è per lei il peso specifico del teatro oggi?
N.: Mah! non saprei dare una valutazione sinceramente, primo perché è un momento abbastanza complicato e valutare il teatro necessita di uno sguardo nel tempo, per cui servirebbe qualcuno che fotografi il teatro di oggi per poi vedere. Sicuramente nel tempo c’è stata una maggiore diffusione ed una maggiore conoscenza del teatro. In questi ultimi tempi c’è stato da un lato un problema di impoverimento della produzione media e grande, dall’atra parte una diffusione di un livello chiamiamolo semi professionale: quella che prima era l’amatorialità si è elevata. C’è stato anche un proliferare di iniziative, di seminari, di attività propedeutiche che hanno favorito l’accostarsi al teatro di una fascia molto più ampia di un tempo. Anche il lavoro nelle scuole è più intenso. Cioè si fa sempre meno di quello che si potrebbe però si fa molto di più di quanto non si faceva un tempo. Io vedo dei segnali positivi.
R.: Quali sono stati i suoi maestri?
N.: Ho avuto la fortuna di averne tanti, molto importanti a partire da Massimo Castri, Luca Ronconi, Franco Parenti. Poi ho fatto degli incontri più brevi ma molto significativi all’estero con Ariane Mnouchkine (regista del Theatre du Soleil), che ho seguito in lunghi seminari dedicati proprio alla formazione a Parigi. Da questi ho imparato tantissimo. Ho avuto la fortuna anche di poter seguire delle prove di Peter Brook. Ho così avuto modo per dire di ‘rubare’ cose importanti che ho cercato di elaborare un mio modo, di filtrare e poi di trasmettere a tutti i giovani con cui ho avuto la possibilità di lavorare in questi anni che, devo dire sono molti, (ride) anzi tantissimi.
R.: Chi sono le persone a cui insegna, sono solo giovani?
N.: Adesso io insegno prevalentemente, a ragazzi che hanno dai 20 ai 23 anni. Gente super selezionata alla Paolo Grassi, che viene direzionata verso un profilo e ad una competenza di alta professionalità. Poi mi è capitato nel corso degli anni di fare seminari a persone di età diverse ed è stato comunque interessante, perché da essi venivano esperienze differenti e dei vissuti importanti. Ho poi fatto dei progetti dove intorno ad un gruppo di professionisti ci fossero non professionisti. Però con un interesse vivo per il teatro e differenti fasce di età. Sono state esperienze molto ricche ed accrescitive.
R.: Quale è stata la sua relazione con Dario Fo?
N.: (prende fiato) È stata per me una relazione importantissima, perché posso dire di essermi appassionato al teatro vedendo i suoi spettacoli alla Palazzina Liberty, seguendo un po’ tutte le attività che intorno alla zona 4 in quel periodo si stavano formando. Ho avuto da lui un imprinting molto forte, rispetto al suo modo di intendere il teatro oltre che di farlo. Poi negli anni mi è capitato di fare la regia di alcuni suoi testi, che lui è sempre venuto a vedere, e mi ha incoraggiato in questo. Poi nell’ultimo periodo della mia direzione della scuola abbiamo fatto crescere un progetto, secondo me bello ed importante, che stiamo ancora cercando di portare avanti con l’archivio Fo-Rame che ha trovato sede a Verona e con la sua direttrice, che è Mariateresa Pizza, volto a far conoscere e sperimentare il teatro di Dario Fo e Franca Rame alle nuove generazioni di attori. Si tratta di un progetto che ha preso sviluppo durante gli ultimi quattro anni della mia direzione della Paolo Grassi. Ciò ci ha portato per due volte al Festival di Avignone, con Mistero Buffo ed alcune giullarate tra le più famose del suo repertorio. Infine abbiamo realizzato un grosso spettacolo con la collaborazione dell’Accademia di Brera che è andata in scena negli highlights di Expò 2015 e al Piccolo Teatro Studio di Milano con la collaborazione del Piccolo Teatro, in una doppia versione, in inglese con un gruppo di attori americani, venuti in Italia per studiare teatro ed una versione in italiano con i diplomati della Paolo Grassi, mentre la scenografia era ad opera di un gruppo numeroso di allievi diretti da Davide Petullà. È stata un’esperienza davvero particolare che Dario Fo seguiva con passione, anche perché si trattava di un pezzo mai andato in scena a cui lui teneva molto. Il fatto di riuscire a soddisfare un suo desiderio è stata un’enorme emozione personale in tutti noi.
R.: Di che testo si trattava?
N.: Storia di Q, una fiaba teatrale che Dario Fo ha scritto partendo da un racconto di Lu Xun che è un poeta e scrittore cinese, dei primi del Novecento, molto importante. Apprezzato anche da Mao Zedong, anche se Xun ha sempre tenuto le distanze dal Partito a cui non si iscrisse mai, anche perché fondatore della Lega per i Diritti Umani in Cina e promotore della lingua cinese moderna. Quindi si tratta di una persona che ha influenzato molto la cultura cinese. Dario Fo era venuto a conoscenza di questo racconto che era un po’ una sorta di Pinocchio della Cina, una storia nazionale che là tutti i ragazzi conoscono. Questo personaggio accostabile anche alla figura di un Arlecchino cinese, un balordo, un combina-guai, un emarginato che si ritrova senza volerlo ad essere identificato come il capo dei ribelli in cerca di ribaltare un governo oppressivo e cinico ha la possibilità grazie all’incontro con una ragazza che lo avvicina alla cultura, di formarsi iniziando un percorso di emancipazione. Riesce a trascinare anche un gruppo di carcerati, che nella prigione dove viene rinchiuso, in quanto appunto accusato di essere il capo dei facinorosi, sente il dovere di dare ad essi una possibilità di riscatto, offrendosi come vittima va al patibolo come rivendicazione, che esistono oltre le coercizioni degli ideali, senonché, una volta mozzatagli la testa, questa non viene trovata come vorrebbe il dittatore per offrirla da monito ai rivoltosi, ma viene invece vista volare in aria in cielo, come simbolo del fatto che le idee non possono morire né essere uccise: continueranno a volare.
R.: Sa che come archetipo mi ricorda, molto, Miracolo a Milano, con il personaggio di Totò e quell’ironia zavattiana favolosa. Persino il finale con la testa che vola somiglia al finale con le scope che volano sopra il duomo di Milano.
N.: Esatto.
R.: Qual è la sua cifra stilistica come regista e quali i suoi temi ed interessi in qualità di regista?
N.: Io sono un grande ammiratore di Kubrick come regia cinematografica, perché ha fatto ogni film completamente diverso dal precedente. Quindi non con una cifra stilistica riconoscibile, uguale a se stessa. La cosa a cui mi sento di aderire è il fatto che il teatro debba avere una necessità, un’urgenza del momento in cui lo fai ed un senso per chi lo deve venire a vedere perché è materia viva. Perché è un luogo di discussione dal vivo del mondo che ci circonda. Credo che si debbano trovare i mezzi e le cifre stilistiche adatte ad ogni cosa e per questo diverse ogni volta. Dipende dunque da quello che devi raccontare. Io credo che un teatro che abbia una radice popolare, una radice di comunicabilità immediata, che coinvolga sia il pensiero che il cuore, questo sarebbe l’ideale. Non mi piace un teatro intellettuale e intellettualista, quindi freddo, formale, un teatro delle forme, mi interessa molto meno, a questo tipo di teatro statico preferisco un teatro di contenuto, di partecipazione. Tutte le cose che sento vicine sono il teatro di Dario Fo perché ha questa necessità di condividere, col pubblico, in modo diretto un pensiero ed anche il teatro di Strehler com’era. Si caratterizzava per essere trasversale, pur essendo un teatro di poesia non aveva mai un atteggiamento intellettualistico. Poi ho fatto tanto teatro contemporaneo, tanta drammaturgia contemporanea oltre alla rivisitazione dei classici, che è bellissima ed utile. Bisogna interessarsi al teatro contemporaneo.
R.: E confermarlo.
N.: E confermarlo, dove possibile, quando possibile.
R.: Vista la drastica situazione che ha descritto in Italia, in termini di sopravvivenza e di teatro come lavoro, lei consiglierebbe ai giovani di andare all’estero?
N.: Sì, io credo di sì. Oggi come oggi -siamo in un mondo globalizzato- andare all’estero è fondamentale in tutti i settori, non credo solo nel teatro. Io penso che la circolazione delle persone e delle idee, insieme alla mescolanza, siano il carburante migliore che si può mettere in circolo per progredire. Tutto quello che è separazione che è difesa di un orticello mi sembra perdente. È fondamentale mischiarsi e per farlo bisogna andare fuori a conoscere altri paesi, altri mondi.
R.: Mettersi alla prova e in gioco?
N.: Mettersi in gioco confrontandosi con persone diverse da come siamo noi.
R.: Lei ha una nostalgia per non averlo fatto?
N.: Beh! Io quando ho potuto farlo, l’ho fatto volentieri e mi ha portato molto beneficio. Tutte le volte che sono riuscito a creare delle connessioni con l’estero – l’ho fatto molto come direttore della scuola- l’ho tentato di farlo il più possibile anche se avrei dovuto farlo di più. Se avessi potuto avere più risorse, ma anche se gli altri paesi avessero loro potuto offrire più risorse. Per un po’ di anni è stato possibile, poi come le dicevo, in termini di produzione lo è stato meno, ma la direzione è quella dell’apertura e dello spostarsi, scambiare, ma devi avere qualcosa da scambiare come per esempio coltivare le radici del proprio teatro. Una storia e tradizione culturale. Per noi studiare e conoscere la Commedia dell’Arte, Goldoni, Pirandello, Dario Fo, quelli che sono i capisaldi della nostra cultura teatrale credo che sia fondamentale, anche perché poi quando andiamo all’estero è la nostra moneta di scambio.
R.: Che cosa è ancora oggi per lei il teatro?
N.: Credo che sia mettere in comune l’immaginario, riflettere insieme. È un luogo di incontro. La cultura dove rimettersi in gioco. Non intendendo dunque la cultura come zona alta. Il teatro è poi sempre molto imperfetto. È sempre molto difficile da fare ma quando poi si riesce a farlo è di grande soddisfazione, perché fa scattare la comunicazione. Quando scatta la condivisione anche se il prodotto, lo spettacolo, non è bellissimo, è vivo e si va via cambiati, con una soddisfazione che non si aveva quando si era entrati. È accaduto qualcosa che è avvenuta in quel momento lì e non accadrà più. Per come sta andando la vita oggi cioè sempre più isolati, sempre più in comunicazione attraverso dei media, dei dispositivi elettronici, che sì ci mettono in contatto con tutto il mondo ed è fantastico, ma dall’altro lato ci isolano. Invece andare a teatro è come scendere in piazza.
R.: Grazie.
Immagine in evidenza: al lavoro La Storia di Qu, di Dario Fo e Franca Rame