Trilce e l’intraducibile, o dell’intraduTRILCE – di Lorenzo Mari

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All’interno di Tradurre l’errore – ultima monografia, in ordine di tempo, di uno dei maggiori esperti italiani di traduzione, Franco Nasi – c’è un capitolo che reca in esergo questa traduzione, apparentemente operata dallo studioso, a partire da un noto passaggio delle avventure carrolliane di Alice: «Perché sapete, ultimamente sono successe così tante cose straordinarie che Alice ha cominciato a pensare che pochissime cose siano davvero impossibili»[1].

Naturalmente, Franco Nasi non si limita ad accostare questo passaggio sulle “pochissime cose impossibili” alla nozione più generale di “errore” della e nella traduzione cui rimanda il titolo e l’argomento principale del suo libro. Il ragionamento è, inevitabilmente, più complesso, e di certo non porta a una nozione consolatoria (“pochissime cose sono intraducibili”) o deresponsabilizzante (“nel regno della possibilità, tutte le traduzioni, anche gli errori, sono concessi”, magari rivelandosi anche “errori di pari grandezza”) della pratica traduttiva. Anzi, come la stessa Alice – figura di riferimento per chiunque si accinga a tradurre e, dunque, ad attraversare lo specchio che resta garantito dal dispositivo del testo a fronte[2] – ci si trova, innanzitutto, a percorrere territori dominati dal paradosso, che per Deleuze, nella Logica del senso, è il «rovesciamento simultaneo del buon senso e del senso comune»[3]. Un caveat importante, per quell’impresa di traduzione che non vuol essere la ricerca della trasposizione di un senso unico e univoco in un’altra lingua, ma – più semplicemente, ma, al tempo stesso, più rischiosamente – “ricerca di senso”, più in generale.

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È nell’ambito di questa ricerca, e di questo attraversamento dello specchio, che ho cercato di affrontare la traduzione di un testo che – notoriamente (nonché, si potrebbe quasi dire, “per il senso comune”) – sfiora i territori dell’intraducibile, come Trilce (1922) di César Vallejo. Una ricerca con un’impronta laica, quando non agnostica: l’intraducibilità, o la traducibilità, di un testo resta sempre tutta da dimostrare, ogni volta. E preferibilmente ex post, davanti a una o più traduzioni effettivamente realizzate: la traduzione risulta meglio analizzabile se resta calata all’interno di un territorio che qualche marca di specificità (simile, in questo, ai confini dell’Opera aperta di Umberto Eco) la mantiene. E dunque, più che con l’“intraducibile” in termini assoluti, mi sono dovuto confrontare con la possibilità di un “intraduTRILCE”.

Il neologismo vuol essere innanzitutto un omaggio alla lingua adottata da César Vallejo nella sua opera “più enigmatica” e al tempo stesso “più viscerale”, come ho scritto nell’introduzione al libro: lingua inventiva, ai limiti dell’idiosincrasia, e assai stratificata, che passo passo si rivela tanto quotidiana e popolare quanto sofisticata e oscura. Come si legge in Trilce I, e come propone, fra gli altri, Jean Franco in César Vallejo. The Dialectics of Poetry and Silence (1976), a camminare «en la línea mortal del equilibrio» («sulla linea mortale dell’equilibrio») tra poesia e silenzio, essere e non-essere, plusvalore ed escremento – nell’analisi materialista, poi divenuta preponderante, di quel “guano” che in Trilce compare, a partire dal primo testo, a più riprese – è l’intero libro[4].

Tuttavia, l’“intraduTRILCE” non trova una sua legittimità soltanto all’interno del testo, per il suo continuo funambolismo tra repertori lessicali e registri; il confronto della traduzione di Trilce con un’idea generale di intraducibilità viene anche dalla possibile collocazione dell’opera di Vallejo nell’ambito della world literature, o “letteratura mondiale”. Già qualche anno fa, in Against World Literature: On the Politics of Untranslatability (2013), Emily Apter ha ampiamente segnalato l’importanza della dialettica, se non anche dell’agonismo, tra “traducibile” e “intraducibile”, come rispecchiamento e, allo stesso tempo, moltiplicazione prismatica della dialettica tra “locale” e “globale” comunemente invocata con il termine world literature[5]. Dove una traduzione diretta del locale nel globale assomiglia molto alla transustanziazione, o meglio, al gesto immediato dei cambiavalute, facilitato dal potere dispiegato dalle monete (o dalle lingue) forti[6], la questione dell’in-traducibilità impone di riarticolare costantemente il discorso, svelandone la ricchezza, ma anche, ove possibile, i limiti e le aporie. Le difficoltà celate nel percorso traduttivo di questo, come di molti altri testi di quella letteratura che non sia stata prodotta in Occidente (pure sfruttandone, talvolta parassitariamente, talvolta ludicamente, le lingue), segnalano come l’opera di César Vallejo non sia immediatamente e pacificamente definibile secondo categorie già date; piuttosto, le rimette costantemente in discussione.

A proposito di etichette, la posta in gioco non riguarda in modo esclusivo o del tutto pacificato la letteratura cosiddetta “postcoloniale”: se gli studi postcoloniali hanno avuto il merito di interrogare a fondo l’economia politica della traduzione secondo una rinnovata consapevolezza critica, il loro intervento si è spesso limitato a rovesciare la prospettiva tra locale e globale, senza tener conto del panorama più ampio che la dialettica tra i due poli presupponeva e continua a presupporre. Nel caso di Trilce, dunque, si è posti di fronte a un’opera che è tanto classificabile secondo i criteri delle avanguardie storiche europee, con le quali è stata spesso messa in relazione[7], quanto secondo i criteri della letteratura indigenista[8], quanto ancora come un testo completamente alieno a questi schematismi: d’altronde, anche rispetto ai grandi dibattiti storico-culturali, Trilce è l’espressione di una «linea mortale dell’equilibrio», così tanto precaria e idiosincratica, da apparire in primo luogo come vallejiana y nada más.

Questioni analoghe continuano incessantemente a riprodursi nell’ambito della traduzione più o meno “postcoloniale”, riferita, cioè, a una storia letteraria, culturale e politica che nei primi decenni del Novecento, e cioè all’epoca di Vallejo, non è certo iniziata all’improvviso, ma forse ha conosciuto un importante momento di svolta. Basti pensare al recentissimo caso di Zong!, meritoria traduzione del testo eponimo di M. NourbeSe Philip, operata da Renata Morresi per la cura di Andrea Raos, per i tipi di Benway[9]. Nel commentare la vicenda legata al libro (con la richiesta di ritiro e distruzione della traduzione da parte dell’autrice), mi è già capitato di scrivere che “la traduzione”, e in particolar modo la traduzione informata di una certa storia e sensibilità postcoloniale, “non è un pranzo di gala” perché «porta altrove testi che non sono facilmente traslabili (come non sono stati traslati i corpi delle persone annegate nella traversata della nave [schiavista] Zong, i quali sarebbero stati traslati, in ogni caso, verso un presumibile destino di violenza e annichilimento), ma è un “pranzo” (leggasi “rivoluzione”, come nel motto originale, e dunque come “conflitto”, e non soltanto come “dialogo”) che deve continuare ad essere con-diviso, nella pratica e non solo nella teoria, da più persone possibili, in più lingue e culture possibili»[10].

In questo senso, l’importanza dell’assunzione di responsabilità (che, nel caso specifico, porta alla difesa della bontà e della qualità dell’operazione messa in campo da Benway) era già stata segnalata, rispetto a Vallejo, da Rebecca Seiferle, nell’introduzione alla sua traduzione in  inglese del libro precedente del cholo, Los heraldos negros (2003). Riscontrando una lunga serie di semplificazioni, quando non di vere e proprie appropriazioni culturali e politiche, nelle traduzioni già esistenti, Seiferle metteva giustamente in guardia dal rischio di “ri-colonizzare Vallejo”, facendone ora un territorio di conquista linguistica (senza mostrare rispetto, dunque, per la stratificazione della sua lingua e della sua poesia), ora un investimento in termini di capitale culturale, come vessillo di poetica.

Se la proposta alternativa di Seiferle – «trying to meet him on his own terms, to discover what those terms were within the contexts of his particular time and, finally, taking his word for it»[11] – appare forse velleitaria per altri motivi, malcelati nella polisemia di quei “termini” di un incontro con Vallejo che possa mostrare affinità (su quale livello? ancora una volta quello del canone?) ed equità (tramite l’equivalenza? nel segno, dunque, e ancora una volta, dell’Uguale?), il suo monito resta comunque valido. Per chi traduce poesia e al tempo stesso cerca di scriverne, poi, è un ammonimento ancora più rilevante per quella che è la sua seconda componente.

Di conseguenza, sfuggire al rischio di “appropriazione poetica” (che si ripete spesso in un campo, come quello della traduzione di poesia, quantitativamente così rado, e così scarsamente strutturato, da poter aprire alle possibilità idiosincratiche, e spesso narcisistiche, più disparate) è stato da subito un obiettivo chiaro, nella nostra traduzione di Trilce. In particolare, accostando al libro di Vallejo lo scritto di Giuliano Mesa, “Ad esempio. La scoperta della poesia” (2008) – nel quale uno dei maggiori poeti italiani degli ultimi anni rivelava la propria scoperta della poesia («La scoperta della poesia è scoperta di ciò che la poesia scopre»[12]) precisamente attraverso la lettura di Trilce – si è inteso sottolineare la natura di Vallejo come “poeta di poeti”, espressione poi adottata anche in un più recente articolo, apparso sulla rivista online Argo, in relazione all’omaggio a Vallejo operato al poeta statunitense, esponente della Language Poetry, Michael Palmer[13].

Ad altri autori e autrici ancora potrebbero arrivare i cerchi concentrici provocati dal gesto vallejiano di gettare Trilce nel grande stagno della letteratura mondiale: da Gerardo Diego, autore di una poesia, Valle Vallejo, scritta in occasione della seconda edizione del libro (a Madrid, nel 1930) ed emblematica della vastità dell’opera vallejiana[14], passando per Hans Magnus Enzensberger, traduttore di Vallejo in tedesco[15] (territorio da me non attraversato: se già la lingua di Vallejo poneva sfide difficili, l’intermediazione della lingua tedesca, e ancor più quella, seppur cristallina, di Enzensberger, avrebbero reso il tutto impossibile… questo sì!), fino all’omaggio di un poeta molto più giovane, recentemente tradotto in lingua italiana, Ision Hutchinson[16], sono ancora tantissimi i nomi che si possono fare, nonché la poesia che si può esplorare, a partire da quella che va sotto il titolo di di Trilce.

Se, dunque, non è solo “intraducibile” ma anche “intraduTRILCE”, l’attività traduttiva può porsi in un orizzonte che non è tanto monumentale, quanto più generativo, e questo sul piano linguistico, letterario, culturale, ma anche politico, poiché si ripropone la necessità di un’assunzione di responsabilità, nell’ancora embrionale processo di decolonizzazione degli approcci alla letteratura mondiale.

Per quanto mi riguarda, tutto cioè resta, ad esempio, nel segno forse imprevedibile e inaspettato, ma di certo ineludibile, di Alice: dalla sua nascita, con Lewis Carroll, alla sua rielaborazione, celatiana e bolognese, come Alice disambientata (1978), Alice è tornata a fare capolino nelle note di postfazione a un’altra opera a cavallo dell’Atlantico, ossia le Ciudades/Città di Alberto Masala, Raúl Zurita e Marco Colonna, di prossima pubblicazione per le autoproduzioni della Libreria Modo Infoshop di Bologna. Che si tratti dell’Alice di Carroll o di Celati, tuttavia, non si tratta di seguire pedissequamente quei passi ma di provare a scompaginarli di nuovo, all’interno della propria ricerca di senso.

Alice, d’altronde, non si configura più, dal 1977, come un simbolo, ma come una “figura di movimento”, come movimento è, costitutivamente, la traduzione… Un movimento che è innanzitutto tentativo di trasmissione, come scriveva con arguzia Milli Graffi a proposito della traduzione del nonsense, carrolliano e non solo (e forse non soltanto del nonsense): «Diventa […] importante, nel tradurre un’opera di nonsense, possedere una definizione di nonsense» – così come, parlando dell’in-traducibile è importante darne una definizione, come qui si è tentato di fare, in modo embrionale, come “intraduTRILCE” – «il nonsense, per me, […] è […] un’operazione di meta-comunicazione. Secondo punto: il nonsense è costruito con tracce, frammenti, residui della conoscenza collettiva e individuale che in quanto residui sono sì portatori di un messaggio, ma è un messaggio sedimentato, scomparso, irraggiungibile, di cui qualcosa può essere recuperato solo attraverso una ricerca a ritroso, cioè tramite un capovolgimento del senso»[17].

In ultima istanza, come in ogni operazione di recupero e trasmissione, bisogna aver sempre presente anche il senso della fine (una fine tutto fuorché tragica o esistenzialista, come quando, ad esempio, l’in-traducibile viene definitivamente “chiuso”, tradotto e pubblicato) – ce lo ricorda, magari per misquotation, ma con forza intatta, un acrostico firmato da Giulia Niccolai all’interno di Humpty Dumpty (1969)[18]:

And

Lewis

I

Carroll

End[19]

 

 

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Lorenzo Mari vive a Bologna, dove insegna lingua inglese nelle scuole secondarie di secondo grado. È autore di alcuni libri di poesia, tra i quali Querencia (Oèdipus ed., 2019) e Tarsia/Coro (Zacinto ed., 2021). Ha pubblicato i saggi Forme dell’interregno. Past Imperfect di Nuruddin Farah tra letteratura post-coloniale e world literature (Aracne ed., 2018) e Il taccuino dell’intellettuale. Disegno e narrazione nell’opera di John Berger (Mimesis ed., 2020). Nel 2019 ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa per le autoproduzioni della Libreria Modo Infoshop di Bologna. Traduce dallo spagnolo e dall’inglese: tra le traduzioni più recenti, #Misantropocene. 24 tesi (Modo Infoshop, 2020) di Joshua Clover e Juliana Spahr e Trilce (Argolibri ed., 2021) di César Vallejo. Ha curato l’antologia del poeta cileno Raúl Zurita ZURITA. Quattro poemi (Valigie Rosse ed., 2019), nella traduzione di Alberto Masala. Collabora con le riviste PULP Libri, Argo, Fata Morgana Web, Le Nature Indivisibili e Jacobin Italia.

 

[1] F. Nasi, Tradurre l’errore, Quodlibet, Macerata, 2021, p. 71.

[2] Di questa figurazione ho già cercato di rendere conto in: L. Mari, “Specchio e vertigine. Poesia del secondo Novecento italiano in traduzione inglese”, il verri, 74, 2020, pp. 117-130.

[3] G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1984 [1969], p. 95.

[4] Cfr. J. Franco, César Vallejo. The Dialectics of Poetry and Silence, Cambridge University Press, Cambridge/New York, pp. 118-120.

[5] Cfr. E. Apter, Against World Literature: On the Politics of Untranslatability, Verso, New York/Londra, 2013.

[6] Cfr. J. Arac, “Anglo-Globalism?”, New Left Review, 16, 2002, pp. 35-45.

[7] G. Mesa, “Ad esempio. Scoperta della poesia” in M. Rizzante, C. Gubert (a cura di), La scoperta della poesia, Metauro, Pesaro, 2008, ora in C. Vallejo, Trilce, tr. L. Mari, Argolibri, Ancona, 2021, pp. 189-198.

[8] La lettura indigenista dell’opera di Vallejo risale almeno fino ai noti Siete ensayos de interpretación de la realidad peruana (1920)di José Carlos Mariátegui.

[9] M. NourbeSe Philip, Zong! Come narrato all’autrice da Setaey Adamu Boateng, tr. R. Morresi, a cura di R. Morresi e A. Raos, Tielleci/Benway Series, Colorno, 2021 [2008].

[10] L. Mari, La traduzione non è un pranzo di gala, PULP Libri, 18 ottobre 2021.

[11] R. Seiferle, The Black Heralds, Cooper Canyon Press, Port Townsend, 2003.

[12] G. Mesa, “Ad esempio” in C. Vallejo, Trilce, cit., p. 197.

[13] L. Mari, Vallejo poeta di poeti. La cinquina di Michael Palmer, Argo, 4 dicembre 2021.

[14] Gerardo Diego, Valle Vallejo, a cura di Lorenzo Mari, Le Nature Indivisibili, 7 luglio 2021.

[15] Cfr. C. Vallejo, Gedichte, tr. H. M. Enzensberger, Suhrkamp, Francoforte, 1989.

[16] Ision Hutchinson è uno dei poeti antologizzati in: Nuova poesia americana, a cura di D. Abeni, Black Coffee, Firenze, 2021.

[17] M. Graffi, “La traduzione del nonsense” in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Guerini e associati, Milano, 1989, p. 345.

[18] G. Niccolai, Humpty Dumpty, Geiger, Torino, 1969.

[19] Questi appunti nascono dalla partecipazione al seminario “Trilce o l’intraducibile” svolto presso l’Università di Bologna il 7 dicembre 2021 e organizzato dal prof. Edoardo Balletta, al quale vanno i miei personali ringraziamenti.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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