Questo saggio costituisce la parte conclusiva della raccolta di poesia “Only You” di Pasquale Verdicchio pubblicata in Canada nel 2021 da Ekstasis.
[…] Il tema della traduzione è sempre affascinante e ricco di possibilità. Eppure è un argomento da cui tendo a rifuggire perché, se per me spalanca vastissimi territori per molti altri è guidato da regole di ingaggio, fedeltà e riproduzione decisamente più ristrette. È molto probabile che la traduzione sia l’attività che meglio rappresenta gran parte del lavoro che svolgiamo quotidianamente, e qui intendo nella vita in generale e non solo come accademici o scrittori. In ogni caso, rappresenta sicuramente tutte le mie cosiddette attività nella scrittura, nell’arte, nella critica e nelle negoziazioni della vita quotidiana.
Per dare un esempio di una mia prima consapevolezza della traduzione come attività in sé, dovrei molto probabilmente risalire alla mia emigrazione in Canada, paese in cui ho iniziato a tradurre me stesso verso un’altra cultura nel contempo traducendo quest’ultima verso di me. In quel frangente la mia immaginazione doveva cominciare a costruire un sé in grado di negoziare un nuovo linguaggio, nuovi spazi sociali, e una nuova grammatica culturale, proiettando un’esistenza in un luogo fino a quel momento del tutto sconosciuto. Non solo, ma nel vivere una tale realtà si prende coscienza anche di un sé residuo che rimane nel luogo lasciato. In altre parole, per mantenere la metafora della traduzione, una lingua e una cultura da cui si è trasportati e che con il tempo comincia a trasporre se stessa in altri regni paralleli. Diventa una pratica che lentamente ma inesorabilmente svanisce a livello di prassi ma continua a vivere come una sorta di ricordo.
Rilke pensava agli specchi come “intervalli nel tempo”, una descrizione appropriata per il processo di traduzione. Il traduttore compie un passo in un intervallo linguistico tra lingue in cui esistiamo in sospensione, né nell’una né nell’altra; uno specchio di espressione e interpretazione che proprio nella sua stessa capacità di rimanere tra senso, costruzione, sintassi e significato sfida la fissità.
Translatio
Translatio (lat. traduzione): trasportare qualcosa da un luogo all’altro. Se non fossi stato portato da un luogo all’altro a causa dell’emigrazione, è molto probabile che non avrei iniziato a dedicarmi alla traduzione come attività. Prima come modalità di sopravvivenza attraverso la quale si opera un accostamento, traduzione, coordinamento, compromesso tra lingue e culture che sono fatte funzionare tra loro, e poi attraverso la mia attività di traduzione di opere letterarie italiane in inglese. Questa seconda istanza di traduzione è semplicemente un’estensione della prima e rappresenta un modo in cui impegnare il linguaggio e un debole tentativo di possederlo. Nel momento in cui cambia l’ambiente linguistico la propria lingua madre comincia ad allontanarsi. Il processo di svezzamento è doloroso, assomiglia all’amnesia per il fatto che le parole diventano sempre meno disponibili o si manifestano in forme alterate in seguito all’effetto dell’interazione linguistica e dell’influenza incrociata, trasversale tra le due lingue. Il processo di familiarizzazione all’interno di una lingua adottiva è altrettanto problematico.
Nei miei ricordi e in ciò che ne rimane nella mia pratica di traduzione, il processo di acquisizione del linguaggio si manifesta come “intervalli nel tempo”. Nel momento in cui ci si specchia in un’altra lingua, cercando di scoprire in essa una parvenza della propria fisionomia culturale, c’è un “intervallo” in cui si possono compiere scelte espressive. Paradossalmente ogni tanto capita che all’interno degli “intervalli” il rispecchiamento sia ingannevolmente invisibile, e mi ritrovo a tradurre l’italiano in italiano, piuttosto che in inglese. L’insistenza a parlare la propria lingua, indipendentemente da ciò che viene detto da tutti gli altri, può essere considerata una manifestazione traumatica dell’“intervallo”?
Movimento
Pur insinuando un senso di stasi, la traduzione è, in sostanza, movimento. Si tratta però di un movimento che richiede l’intervento e la conoscenza accumulata attraverso la cultura personale ma che, comunque, per portare all’interpretazione del testo i migliori referenti possibili, richiede anche che si trascenda la propria biografia. La traduzione non riguarda la lingua, la traduzione riguarda la lingua. In quanto tale, occorre anche prendere coscienza della traduzione del testo come occasione della storia presente. Il lavoro del traduttore diventa quello di “muovere, spostare testi tra” e “spostarsi tra testi”, uno esistente e uno eventuale, un tentativo, quindi, di realizzare una coincidenza che possa unire espressioni testuali che sono parte integrante dell’esperienza.
Trasporti / Migrazione
La narrazione è il tentativo di stabilire un qualche rapporto tra la persona che racconta una cosa e chi riceve la narrazione. Entrando in quel vuoto, la traduzione offre un’altra possibilità, o almeno per me ha significato un approccio diverso per stabilire una narrazione, una narrazione senza un apparente interlocutore. Mi sono ritrovato a lavorare non dall’inglese verso l’italiano, il che avrebbe avuto più senso visto che arrivavo all’inglese come seconda lingua, ma piuttosto dall’italiano verso l’inglese.
Col senno di poi sono convinto che l’idea fosse quella di contrastare l’effetto dell’emigrazione negando la prima fase di identificazione culturale che supponiamo la lingua rappresenti. Passando dall’italiano all’inglese scrivevo/scrivo come una persona che entra in un rapporto di conoscenza con le lingue che presuppone l’inglese come lingua madre e l’italiano come lingua adottata o appresa. Si potrebbe considerare un simile capovolgimento come il tentativo di tradurmi in italiano, ricucendo così la ferita aperta dall’emigrazione. Trasportare indietro o far migrare nuovamente la mia lingua in questo modo strano e particolarmente contorto verso la mia lingua madre era un modo per spostarsi attraverso la migrazione e verso l’abitare.
Mettendo da parte i testi tradotti, i miei scritti in generale esprimono una relazione simile. Avendo per lo più eliminato la narrativa convenzionale, e spesso anche gli effetti della grammatica convenzionale e dell’uso delle parole, la scrittura è un’estensione del mio corpo di traduzione o tradotto. Evitando l’inglese in questo modo, il mio tentativo è stato quello di ricreare per me ed eventualmente per chi legge, gli effetti dell’entrata in un ambiente di lingua straniera. Il disagio, l’ambiguità e l’inadeguatezza che si prova nel partecipare a una nuova lingua sono ciò che ho cercato di far accadere sulla pagina.
È mio obiettivo mettere a disagio i lettori di lingua inglese nel leggere la loro stessa lingua madre, rispecchiando così la mia esperienza nell’apprendimento dell’inglese. È il mio tentativo di rifare la lingua come mia, in altre parole, dissolvere e ridefinire la distinzione tra straniero e nativo. Non c’è da meravigliarsi, e devo dire che in una certa misura in effetti mi fa piacere, che quasi tutte le recensioni dei miei scritti lo commentino in termini di “estraneità” e “traduzione”.
Scrivere in una lingua la cui letteratura non controlla l’immaginario crea problemi […]. Le poesie di Verdicchio funzionerebbero in qualsiasi lingua, anche in esperanto. Ma il suo inglese presenta problemi a chi tra noi lettori ha la mente che trabocca di suoni della letteratura inglese. (In effetti, sono propenso a chiedermi se Verdicchio non componga in italiano, e poi traduca i propri versi.) Proprio come i francesi ammirano la poesia di Poe perché non possono sentire o parlare con la cadenza degli accenti tipica dell’ inglese, anche Verdicchio in quanto italiano, sembra incapace di sentire gli accenti e la cadenza. (M. Travis Lane)
È sicuramente indubbio che il mio “orecchio” sia diverso! Ma, se non possiamo permettere alla lingua di emergere dalla sua ” prigione” dando spazio così a un più ampio spettro di espressione ed esperienza, impediamo lo svelamento della convenzione linguistica nella sua vera natura, e ciò costituisce un limitazione a quella stessa libertà necessaria alla poesia. Nel mondo odierno, la riluttanza a immaginare le lingue come entità culturali viventi può avere conseguenze nefaste su un genere come la poesia la cui evoluzione include e dipende dall’afflusso e dall’influenza di suoni, accenti e cadenze diverse ed “estranee”.
L’intento che guida il mio lavoro di traduttore e di scrittore non è quello di essere opaco, impenetrabile e illeggibile, tento infatti di fare esattamente il contrario. Italo Calvino, nel racconto “Le avventure di un lettore”, scava a fondo nella fragilità e nelle abitudini degli esseri umani per illustrare come, anche quando questi siano coinvolti nelle forme di intrattenimento più stimolanti, cerchino altrove qualcosa di meglio rispetto a quello che li sta coinvolgendo in quel momento. Nel racconto il lettore si trova in spiaggia, profondamente immerso nella lettura di un romanzo, quando nota una donna che prende il sole sugli scogli lì vicino. Si incuriosisce e inizia a escogitare modalità diverse per avviare una conversazione con la bagnante. Mentre riflette sul suo approccio, inizia a chiedersi se la conversazione non potrebbe rivelarsi meno interessante del romanzo che sta leggendo. Il racconto continua con la creazione di una narrazione immaginaria a causa della quale l’urgenza di comunicare con la donna e quella di finire il libro scatenano nell’uomo una immane lotta interiore.
Ciò che è importante nella storia non è quanto avviene al lettore o la sua liaison immaginaria, ma, piuttosto, i termini delle distrazioni che tessono un’altra storia. Desiderio, indecisione, ricerca della felicità e dolore, scaturiscono dall’incapacità di affrontare, riconoscere o valorizzare la storia presente. Naturalmente non oso paragonarmi a Calvino, ma quello che spero di ottenere con la mia scrittura è di creare una rete di distrazioni continue. E, mentre le distrazioni fanno il loro lavoro, lasciano che un’altra narrazione scivoli silenziosamente sotto, in tutto il caos apparente. Sono in possesso sia delle storie che della lingua, ma tali elementi non sono pensati per soddisfare le aspettative del lettore.
Luoghi
“Quando trovi il tuo posto lì dove sei, la pratica avviene.” (Dogen)
L’emigrazione è la conseguenza dell’incapacità di creare comunità. Il prodotto è lo sradicamento, l’ammissione dell’incapacità di stabilire un luogo come comunità funzionante, di realizzare la promessa della nazione. L’emigrazione sostituisce quel trauma con un altro che si chiama immigrazione. La scrittura ‘etnica’, la scrittura della differenza, l’affermazione di qualcosa di “altro” rispetto a quello che viene considerato ‘nazionale’ e avallato a livello della nazione, risponde a entrambi i punti di partenza e di arrivo. La scrittura etnica è l’espressione del trauma. Quello che dobbiamo fare, tuttavia, è stabilire, o almeno cominciare a scoprire, un’etica dell’etnicità. Una tale etica farebbe molto per proporre termini di equanimità che potrebbero tendere verso una comunità globale molto diversa dal globalismo aziendale che vediamo cannibalizzare il mondo a poco a poco. Un’etica etnica si spoglierebbe dei nazionalismi, sosterrebbe la diversità e l’eterogeneità culturale e forse comincerebbe a formare quella che Gramsci avrebbe potuto chiamare una cultura popolare internazionale.
E così, da 40 anni, l’Associazione degli Scrittori Italo Canadesi presenta la nostra esperienza in atto in un luogo. In modo stupefacente, tutti noi incarniamo diverse dimensioni del luogo compresa la dimensione temporale: la prima generazione, la seconda generazione, la terza generazione e così via. E ci siamo anche cimentati con i termini con cui definirle. Assimilazione e acculturazione sono parole che raccontano la lotta per definire i termini della nostra cultura. Per quanto riguarda un vocabolario attraverso il quale descrivere ciò che potremmo sentire come spostamento (e suggerirei che se non lo sentissimo in qualche modo, l’Associazione non esisterebbe e noi non saremmo qui oggi) tutto ciò che abbiamo è il vocabolario di partenza e arrivo: emigrazione e immigrazione, entrambe sprofondate in un termine indicativo di mancanza di luogo: italo-canadese. Si può anche mettere il trattino, lo si può tagliare, si può fare quello che si vuole, ma il termine continua a segnalare un senso di mancanza di ciò che potremmo chiamare casa. In quanto tale, si potrebbe dire che l’AICW rappresenti un primo passo verso la sostituzione, e la scrittura degli italo-canadesi, una forma di letteratura sostitutiva.
C
Come possiamo tornare a casa, e qual è la casa
che vogliamo raggiungere; una casa
di distanza, una casa di divisione, o una casa lontana
da casa dove tutto sembrerà
come a casa ma sarà molto diverso. Una casa adornata
di profumi e immagini della casa immaginata e
costruita a casa
calda tra le lenzuola, addormentata, e che sogna.
(Verdicchio)
Alla fine, dopo più di due decenni di lavoro, tutto ciò che possiamo fare è chiudere con altre domande: cosa guida la nostra continua attività? Si tratta di riscoprire un qualche legame dimenticato o mal riposto con una cultura? Raccontiamo l’identità o la produciamo? L’AICW è la conseguenza di quella che Stuart Hall avrebbe potuto definire “una coesione immaginaria”. (220-236) Mentre molti scritti continuano a parlare del passato di quella coesione, ciò che siamo diventati e chi siamo adesso continua a lottare per essere affrontato.
È solo naturale che le identità abbiano storie. Proveniamo da un qualche luogo parte ma, come tutto del resto, anche quelle storie hanno subito delle trasformazioni. Le identità non se ne stanno fisse all’interno di un passato idealizzato bensì sono alla mercé di relazioni storiche, culturali e di potere. L’identità è un riflesso di come ci posizioniamo all’interno e in relazione alle narrazioni del passato. Questo ci pone in una situazione precaria in cui mentre siamo italiani e canadesi siamo anche né italiani né canadesi. Come ci ricorda lo scrittore italiano Gianni Celati nel suo racconto “Studenti in mezzo alle acque”: “Tutto ciò che ti attraversa non sei tu, eppure tu sei solo questo”.
Opere citate
Tutte le traduzioni dei testi italiani sono mie.
Calvino, Italo. “Le avventure di un lettore.” Amori difficili (Gli). Mondadori Collana: Oscar—Opere di Italo Calvino, 1993.
Celati, Gianni. “Studenti in mezzo alle acque.” Dolce vita, n.7, 1988.
Dogen. Moon in a Dewdrop: Writings of Zen Master Dogen. Trans. Kazuaki Tanahashi. San Francisco: North Point, 1985.
Hall, Stuart. “Cultural Identity and Cinematic Representation.” Exiles: Essays on Caribbean Cinema. Ed. Mbye Chame. London: Africa World Press, 1992.
Lane, M. Travis. “Contemporary Concerns.” Review of The House is Past, by Pasquale Verdicchio. The Fiddlehead, No. 174, Winter 1993.
Verdicchio, Pasquale. The House is Past. Toronto: Guernica Editions, 2000.
Pasquale Verdicchio è un poeta, critico e traduttore canadese noto per i suoi importanti contributi al dibattito su scrittura e cultura delle minoranze etniche.
Nato a Napoli nel 1954, si trasferisce ancora adolescente con la famiglia in Canada, a Vancouver nello stato del British Columbia. Consegue la laurea in Biologia presso l’Università di Victoria, il Master’s presso l’Università di Alberta e il dottorato di ricerca dall’Università della California. Insegna da decenni in California, letteratura italiana, cinema e scrittura creativa.
Tra i tanti libri di Verdicchio le sue opere poetiche sono significative per l’originalità del linguaggio e della struttura. La sua ultima raccolta di poesia da cui sono tratti i versi riportati sopra si intitola Only You (Ekstasis Editions, 2021), tra le altre precedenti: This Nothing Place (2008), The House is Past (2000), Approaches to Absence (1994), Nomadic Trajectory (1990) Ipsissima Verba (1986), Moving Landscape (1985 ). La sua opera critica più importante è Devils in Paradise: Writing on Post-Emigrant Culture (1997), Bound by Distance: Rethinking Nationalism Through the Italian Diaspora (1997), The Southern Question (1995) traduzione inglese dai Quaderni di Gramsci. Ha anche tradotto molti altri scrittori italiani in inglese.
Immagine di copertina: Foto di Pina Piccolo.