Per Tonino Guerra non esistono generi letterari o teorie a cui legarsi, tanto meno adeguarsi. “Tutto il bello, come si sa, è nel cercare” ha scritto nella prefazione alla raccolta di poesie I Bu del 1962 . Sin da subito la sua è stata una dichiarazione di poetica associata ad una sorta di liberazione dall’estetica e dai suoi canoni. Ma poi sappiamo che la forma, il genere, lo stile attraverso il quale un autore decide di esprimersi conta. In qualche modo significa: dice vistosamente del mondo e del modo in cui vive, quanto gli stessi contenuti che esprime. Addirittura a volte di più. Viene perciò naturale chiedersi che cosa cercasse Tonino Guerra nel teatro, dopo essersi ritirato a Pennabilli, un piccolo villaggio della Romagna in Valmarecchia, alla fine degli anni ‘80? Perché isolarsi e al tempo stesso scrivere per il palcoscenico, da parte di uno dei massimi poeti dialettali del ‘900, poi narratore, sceneggiatore, pittore, collaboratore essenziale di registi cinematografici come Fellini, Tarkovskij, Antonioni, Rosi, i fratelli Taviani, Bellocchio, etc.? “Devo dire che a gennaio e a marzo dello scorso anno sono stato a Mosca, e più di una volta ho assistito a delle commedie, alla rappresentazione di testi teatrali di giovani che recitavano in scantinati orrendi ma, allo stesso tempo, poetici. Così, siccome aspettando sera stavo per molte ore nel piccolo appartamento di mia moglie Lora, a guardare la neve che cadeva, ho riflettuto molto sul teatro. Anche se, devo dire, l’interesse per il teatro un po’ era già cominciato alcuni anni prima, grazie ai ragazzi di Parma, quelli del Teatro delle Briciole, che si sono divertiti a prendere dei miei testi in prosa, o piccole sceneggiature, per farne degli spettacoli teatrali. A suo tempo li ho visti, e devo dire che avevano una grande magia. Ero contento del risultato ottenuto da Letizia Quintavalla. Quei giovani sono molto bravi. Il godimento provato da loro nel mettere in scena certe mie cose, come per lo spettacolo Cenere, è stata la prima spinta, la prima manata sulla schiena per mettermi in contatto vivo con il palcoscenico. Allora, tornandomene a casa, soltanto di sfuggita fra me e me dicevo: però, non sarebbe male tentare di fare qualcosa. Ma poi lasciavo stare. Finché alla fine ho scritto A Pechino fa la neve ( Maggioli Editore, 1992), che ho chiamato ‘una cosa teatrale’. L’ho fatto con tanto amore, tanta attenzione, con tutto quello che si deve, ma anche con l’idea che fosse quasi una cosa unica. Come, non so, se una donna fosse presa da una voglia incontenibile di fare un figlio e poi dicesse ‘Mai più!’.”
Poco per volta, nella mente del romanziere, poeta e sceneggiatore, si è fatta strada l’idea che nel teatro ci sia qualcosa che il cinema non ha, o che potrebbe non avere. Soprattutto per la sua capacità di recuperare, tramite le parole, una visione del mondo, nel momento in cui l’arte della narrazione volge al tramonto, meglio dire entra in crisi, perché il lato epico della verità, la saggezza, viene meno, come scrisse Walter Benjamin. Così anche per Tonino Guerra:
“ Il teatro e il cinema sono due cose diverse e, in un certo senso, lontane. Non dico opposte. Perché il cinema è soprattutto un tentativo volto verso l’immagine. Ed è anche un allontanare il più possible da questa immagine le parole. Ma è anche vero che c’è teatro e teatro. Il teatro del dopo Guerra, dal Living in poi, ha portato dentro tante immagini. Forse troppe. Comprimendo il compito della parola ed enfatizzando l’attenzione per i movimenti del corpo. A Mosca le cose si sono un pochino chiarite. Io e il teatro ci siamo avvicinati di più. Mi è sembrato di potere indirizzare tutte le mie capacità verso un teatro che, piano piano, ho chiamato un ‘teatro di lettura’.” Che cosa significa ‘Teatro di lettura’?
“Dovrebbe avere queste qualità: poter essere recitato anche nei piccoli paesi. Nei paesi dove un tempo c’erano le filodrammatiche, e quindi c’era una vera passione per il teatro. Perché le qualità dell’attore a cui penso devono essere quelle semplici; di qualcuno che, perlomeno, sappia leggere. Non è difficile trovare qualcuno che lo possa fare. I due testi che ho appena scritto e quelli che scriverò, se ne farò altri, sono basati sul fatto che l’attore o gli attori stanno leggendo. E fin qui la cosa non è neanche nuova. Perché qualsiasi regista prevede le prove di lettura. La novità è che vicino a questa persona posta direttamente in scena, che prevedo legga un racconto, ci siano degli interventi teatrali veri e propri: che aiutino l’andamento di questa lettura. Intendiamoci, non cose costose, ma delle immagini elementari, forse povere, che possono fare da supporto alle parole. Quindi la serata si resolve in un qualcosa che un po’ si legge e un po’ si vede. Non escludendo l’uso di immagini cinematografiche”.
In questo modo Tonino Guerra definisce anche il luogo e il tipo di spettatore a cui si rivolge. Traccia una sorta di terza via fra il teatro d’immagine e il teatro di parola tradizionale, portando in scena la pagina scritta, riconducendola all’oralità. Per reinventare un momento collettivo che si realizzi contemporaneamente attorno alla parola scritta e detta, preservandone la funzione espressiva e la priorità emotiva , prima che diventi un genere che preveda la memorizzazione dell’attore professionista e venga esteticamente riconfezionata o stilisticamente distorta.
“Ad esempio, una delle cose che ho appena scritto ha per titolo La casa dei giardini interni . In questo pezzo, già dalla prima scena, scopriamo un giovane attore che sta leggendo un diario. È la storia di un professore andato in pensione, il quale, avendo acquistato un vecchio mulino posto nel calanco di una valle, ha deciso di risistemare sei o sette stanze interne ricostruendole come se fossero dei piccoli magici musei. In occasione di questo suo lavoro ha tenuto un diario: c’è la ‘stanza del vento’, la ‘stanza dei desideri’, la ‘stanza della luna’, etc. La rappresentazione si svolge intercalando la lettura del diario con l’apparire sulla scena , o lo scomparire, di queste stanze, ognuna delle quail è il luogo deputato di una delle storie dove, di volta in volta il lettore-attore si recherà interpretando in tempo reale il ruolo dell’autore del diario. Meglio dire le ragioni, i fatti, i sentimenti autentici che hanno dato origine alla scrittura. Non so se sono stato chiaro.
Già nel Grande racconto messo in scena con successo dal Teatro delle Briciole, tratto da una narrazione orale di Tonino Guerra, era prevista la figura di un attore-narratore che si poneva anche il delicato quesito del senso, della capacità di persistenza nel tempo e nello spazio dell’azione teatrale. Una battuta recitava testualmente: “Cia, ciao, ciao, ciao… Finchè non li vedevo più, ma ho continuato a salutare lo stesso, perché non si sa mai .”
“È vero, non sapremo mai. Anche il teatro non può chiarire niente. Né stabilire con precisione la sua durata o la sua destinazione. Qualsiasi opera d’arte racchiude sempre un mistero. Le generazoni che verranno cercheranno di scoprirlo. Ma niente è chiaro. Niente è chiaro fino in fondo, è meglio dire così. Tuttavia io penso che nel cinema, nella letteratura , nel teatro occorre sempre l’idea del pubblico, cioè il lettore. L’ascoltatore, che completi quello che l’autore semplicemente annuncia. Noi abbiamo un gran bisogno dell’apporto di chi guarda. Ma noi non sappiamo veramente chi è, o chi sarà quello che domani guarderà.”
Proprio come nelle battute folgoranti e lapidarie del protagonista di A Pechino fa la neve: “L’unica verità è quella che fai crescere nella mente degli altri”.
di Walter Valeri, ripubblicato da Sipario, per gentile concessione
Immagine in evidenza, foto di Tracy Allen.