THINKING BLIND – Tre recensioni: Ilaria Cecchinato, Daniele Rizzo, Enrico Piergiacomi

Thinking Blind Compagnia (S)Blocco5

TRE RECENSIONI

 

 

NEGLI ABISSI DEL BLU

di Ilaria Cecchinato

 

 

Di fronte a una centrale nucleare nella ventosa e arida Dungeness in Inghilterra, sorge un piccolo paradiso terrestre: è il giardino attorno a Prospect Cottage, un’antica abitazione di pescatori che il regista inglese Derek Jarman acquistò nel 1986 e di cui per otto anni (fino alla morte nel ‘94) si prese cura, disegnando un insolito giardino di piante selvatiche. La sfida era di superare ogni ostacolo ambientale e contrastare la bruttezza industriale mediante un atto creativo generatore di bellezza e di vita. È a partire da questa suggestione e dal film-testamento di Derek Jarman, Blue, che il collettivo Sblocco5 ha ideato la performance Thinking Blind, andata in scena a Bologna il 10-11 luglio all’Arena Orfeonica e il 17 luglio nell’ambito della rassegna a cura di ERT “San Francesco di Sera – questa piazza è uno spettacolo”. Poi, il 20 ottobre ad Abano Terme nella manifestazione L’Orecchio dI Dioniso promossa e ideata dal Museo Internazionale della Maschera ‘Amleto e Donato Sartori’ (ndr). Si tratta di uno spettacolo dalla struttura complessa, composto da differenti piani comunicativo-linguistici (visivo, sonoro, performativo, testuale) sapientemente intrecciati fra loro, capaci di donare un’alta poeticità alla narrazione, ulteriormente accentuata dall’intimità data dall’ascolto che avviene tramite cuffie wireless. Tale intento immersivo nasce dal confronto con la struttura di Blue, un film la cui particolarità si basa sull’assenza di visione e la predominanza dell’ascolto: per più di un’ora lo spettatore osserva un quadro monocromo della tonalità Blue Klein e viene immerso in suggestioni sonore che accompagnano la voce di Jarman mentre racconta la sua condizione di semi-cecità causata dall’AIDS (il colore predominante delle sue visioni era il blu, per l’appunto). Tuttavia, la regista di Thinking Blind Ivonne Capece (anche in scena insieme a Giulio Santolini) e la costumista e scenografa Micol Vighi, non rinunciano alla componente visiva, che nella performance si sviluppa per immagini iconiche e simbologie ispirate alle arti visive, in continuità con l’intento di confrontarsi con Jarman e omaggiare la sua creatività non solo registica ma anche pittorica. Un simile apparato visivo di figure archetipiche risulta inoltre funzionale a universalizzare la narrazione, la quale si sviluppa secondo una dialettica ben calibrata fra universale e particolare: un macro tema fa da filo conduttore drammaturgico (la perdita del paradiso terrestre da parte dell’essere umano e i tentativi di ritrovarlo dentro di sé), mentre al suo interno emergono di tanto in tanto elementi specifici tratti dalla biografia di Jarman e dalle sue opere (l’omosessualità, la condizione di marginalità sociale, le conseguenti lotte per i diritti civili, la malattia, gli atti creativi come forma di resistenza all’orrore). La scena si apre con una figura femminile di spalle (Ivonne Capece), immobile a fondo palco nell’angolo sinistro. Ha la schiena scoperta, mentre una lunga e corposa gonna blu le copre interamente gambe e piedi. Attorno lo spazio è scarno, vuoto, freddamente illuminato da dei cilindrici led a luce fissa e bianca, che vediamo posizionati lungo i lati del palco quasi fossero faretti puntati su un quadro in un museo. Su tale plasticità, la figura inizia a parlare: la voce è amplificata, il tono profondo, il ritmo rallentato. Pare provenire da molto lontano, da un substrato ancestrale o forse da un altrove che però, in qualche modo, ci riguarda. La dilatazione ritmica e il mistero attorno a questa figura sono ulteriormente accentuati dal contenuto metaforico del monologo, una sorta di conto alla rovescia da dieci a uno, basato sulla reiterazione di una domanda («e se una bottiglia verde dovesse accidentalmente cadere?»). Lo spettatore viene così immerso in una dimensione poetica che invita ad abbandonare la comprensione sul piano razionale per lasciare agire quella intuitivo-sensoriale: sebbene il senso infatti non risulti immediatamente decodificabile, il monologo riesce a restituire la sensazione di qualcosa che si sta infrangendo, una sorta di rottura che comporterà presto un accadere ignoto. Tale intuizione si conferma nel quadro successivo, in cui la figura misteriosa abbandona la propria immobilità e inizia a muoversi sinuosamente, quasi ondeggiando: si sposta lentamente nello spazio, un altrove ricreato mediante sonorità dai toni bassi e con una forte carica immersiva data anche dall’ascolto in cuffia. Dall’ampia gonna cominciano ad apparire alcuni elementi, per lo più simbolico-metaforici di non facile interpretazione, il cui senso si svela – sebbene mai in maniera esplicita – nel corso dell’azione performativa. Fra questi oggetti simbolici, spunta una piramide d’arance che resterà in scena sul lato sinistro del palco per tutta la durata della performance. La scelta – rivelano Ivonne e Micol – non è soltanto legata all’estetica cromatica dell’abbinamento del blu del costume con l’arancione dei frutti, ma anche soprattutto ad alcune ricerche bibliografiche e iconografiche (condotte con la mediazione e i preziosi suggerimenti di Walter Valeri) secondo le quali l’arancia nella tradizione è simbolo della purezza e della bellezza della natura. Quei frutti in scena, dunque, rimandano alla natura selvaggia e incontaminata, al paradiso terrestre. Una volta scoperta la piramide di arance, si comincia a intravvedere anche un essere (Giulio Santolini) muoversi sotto la gonna: si vedono i piedi, le gambe, l’abbozzo di una mano. È una fisicità incompleta, ancora tutt’uno col corpo da cui si sta formando. Si aggira per lo spazio insieme alla figura di spalle, muovendosi quasi fosse sott’acqua. L’immagine complessiva si trasforma, apparendo come un grande e sconosciuto animale marino, forse un mostro, forse una divinità. A un certo punto la strana creatura si ferma, mentre l’essere incorporeo ricomincia a muoversi indipendentemente, allungando le proprie membra, giocando con un’arancia. A poco a poco sempre più parti del suo corpo si manifestano, fino a che l’intera fisicità fuoriesce dalla figura di spalle che ormai si svela essere Natura, la Madre Terra. La nuova creatura prende lentamente forma, si rannicchia per infine alzarsi in piedi: è semplicemente un essere umano. Come di consueto, l’atto generatore della crisi del rapporto uomo-natura avviene con il furto di uno dei frutti dell’Eden, in questo caso un ananas. Esso è un evidente richiamo alla mela della tradizione cristiana, la cui sostituzione con il frutto esotico non si limita a contribuire alla dimensione poetica ed estetica della performance, ma rimanda alla scoperta di Sblocco5 di una memoria ancora più arcaica in cui il vero frutto proibito sarebbe stato proprio un ananas. Da questo momento – e dopo aver deturpato simbolicamente il paradiso attraverso l’atto di sventrare e sbranare una delle arance – la parabola prende avvio attraverso la gestualità, il movimento performato e ulteriori simbologie. La narrazione principale va a intrecciarsi con i monologhi della Madre che procedono paratattici per quadri giustapposti “di vari colori”: verde, bianco, giallo e blu, sono tinte che non vediamo ma sentiamo, si manifestano attraverso la parola poetica e vanno a scandire le varie fasi del percorso di vita dell’essere umano, dall’armonia con la natura, alla perdita della purezza, fino alla contaminazione, la malattia e la morte.

A risuonare familiare nello spettatore non è solo la narrazione di una parabola culturalmente condivisa, ma anche alcuni temi particolari che – sebbene presi specificamente dalla biografia di Jarman – parlano al e del nostro tempo, quasi fossero urgenti inviti alla riflessione sul presente. L’essere umano che come cieco deturpa l’ambiente in cui vive e si ritrova a infettarsi con l’inquinamento da lui stesso provocato, non può che riportarci al contingente, di certo alla pandemia da Covid-19, ma anche ai disastri ambientali e ai preoccupanti cambiamenti climatici a cui stiamo assistendo. È evidente che quelle macchie blu che a un certo punto vediamo comparire sul corpo dell’essere umano, sono gli ematomi di Jarman provocati dall’AIDS; eppure ormai per lo spettatore è inevitabile generalizzare la questione e sentirla propria. «Quello che questa performance racconta» spiega infatti la regista «è ciò che anche la pandemia ha messo in luce, ovvero l’incapacità dell’uomo di percepirsi come parte di un ambiente organico. Ma un virus che viaggia attraverso i canali aerei» continua Ivonne «ci svela che siamo immersi in un mare. Non esiste qualcosa che è fuori di noi e qualcosa che è dentro di noi: l’aria, se è contaminata, contamina il nostro corpo e il nostro interno, e questo è valido sia a livello fisico che ideologico. L’inquinamento delle idee, del pensiero, delle abitudini, sono un’incapacità di vedere il mare in cui viviamo». È in questi termini che si va infatti a evolvere la performance, in un crescendo di tensione e violenza verbali e sonore, fino a una quiete che altro non è che una presa di coscienza da parte dell’essere umano, un riaprire gli occhi sul disastro quando ormai è troppo tardi. L’immagine finale è esemplificativa in tal senso e rende esplicito l’invito a pensarsi come parte di un tutto, a credere ancora nella possibilità di ricostruire il paradiso perduto perché, in fondo, quel giardino siamo noi. Lo vediamo infatti quell’uomo – a testa in giù, col volto e le braccia coperti da una gonna blu simile a quella della Madre e le gambe in aria – trasformarsi in una forma di vita dalle sembianze botaniche, un arbusto, un albero, qualcosa che sarebbe pronto a sbocciare ma che forse, senza un cambiamento, non può far altro che macchiarsi, contaminarsi, contaminare, scomparire.Thinking Blind è dunque una performance che mette sapientemente in campo non solo molti registri linguistici, ma anche molteplici elementi sul piano contenutistico, dal tema ambientale, alla malattia, all’essere umano in relazione alla natura e alla coscienza della propria incidenza sul mondo. Il tutto viene veicolato attraverso una narrazione che mescola universale e particolare, chiedendo allo spettatore di abbandonare le redini della ragione per un coinvolgimento sensoriale e una comprensione più istintuale, al fine di percepirla davvero quella scossa del pericolo che avanza e che sta lì a dirci «Ascolta! Senti! Apri gli occhi, ora, prima che sia troppo tardi!». Thinking Blind allora si svela essere un titolo a due declinazioni: è la denuncia di una condizione (la cecità dell’uomo nei confronti del proprio agire e del disastro imminente), ma anche l’esortazione a chiudere gli occhi per dare spazio ad altri sensi e accedere a una dimensione visiva alternativa, quella del buio in cui tutto è da ricostruire. Ecco allora che il blu, con la sua profondità, si fa invito ad abitare con coraggio gli abissi dell’immaginazione; un atto di resistenza alla decadenza e all’orrore per (ri)costruire – come fece Jarman – il giardino perduto dentro di sé e quantomeno tentare di renderlo concreto nel proprio agire sulla terra.

 

 

 

 

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(da) PERSINSALA

7/10/2021

di Daniele Rizzo

Thinking Blind cambia completamente registro rispetto alla nuda parola. La performance ideata e diretta da Ivonne Capece è ispirata e dedicata alla vicenda di Derek Jarman, in particolare a Blue, la pellicola a cui il cineasta britannico affidò il proprio testamento estetico ed esistenziale. Sieropositivo all’Hiv negli anni in cui esserlo costituiva una condanna, oltre che uno stigma, Jarman compose e realizzò questo lungometraggio (1993) quando era ormai praticamente cieco e aveva “a disposizione” uno spettro visivo limitato alle tonalità del titolo, utilizzando per oltre un’ora un singolo fotogramma blu, le musiche di Simon Fisher-Turner e quattro voci fuori campo (tra cui quella di Tilda Swinton che aveva debuttato proprio con il Caravaggio di Jarman). La costruzione performativa intreccia post-drammaticamente elementi visivi, sonorità e stralci testuali di carattere biografico (la triste vicenda sanitaria, le infinite medicine da assumere) e poetico (la marginalità esistenziale, l’arte come forma di r/esistenza), senza che una partitura prenda il sopravvento sull’altra. Il palco – dove Ivonne Capece e Giulio Santolini sono due figure metaforiche e il loro abitare la scena assume valenza iconica e secondariamente figurativa – è una sorta di ambiente ancestrale nel quale la visione e l’ascolto procedono per quadri e “provocano” l’urto della comprensione.Il primo quadro è quello di una donna per metà nuda, cinta da una lunga gonna blu sui fianchi e che rimane immobile fintanto che “annuncia”, con tono fermo e moderatamente enfatico, una visione su cosa accadrebbe se dieci bottiglie verdi dovessero cadere una a una. La cronologia da dieci a uno è accompagnata da immagini che introducono la dimensione panica dell’allestimento, vale a dire la consapevolezza “lirica” dello stretto legame che intercorre tra il macro e il microcosmo, tra la natura e l’essere umano, tra l’esterno e l’interno. Come sottotesto visivo iniziano a fare comparsa delle arance, il cui rotolare restituisce la fecondità, l’amore e anche la purezza paradisiaca di una fugace condizione primordiale.“Caduta” l’ultima bottiglia verde, Capece, che durante la performance sarà visibile unicamente di spalle, rompe il proprio status “marmoreo” e inizia movimenti quasi impercettibili. Compare una piramide di arance dalla lunga gonna e soprattutto si annuncia la venuta al mondo dell’essere umano, Giulio Santolini. L’uscita dal ventre non è indolore, come se la vita umana non fosse poi così determinata a manifestarsi e a prendersi le responsabilità che l’attendono al varco, ma infine, dopo un estenuante parto, essa compare plasticamente e riceve in affido non una mela, ma un ananas, simbolo di esotismo, abbondanza e accoglienza. La generazione, dunque, “contamina” la scena che perde innocenza; l’essere umano fagocita selvaggiamente una arancia, il suo corpo si macchia di blu, mentre i colori restituiti nel “racconto” della donna rappresentano ciò che l’autore ormai non poteva più vedere e dunque il rischio della consapevolezza della perdita quando ormai è troppo tardi. Un ultimo atto di resistenza, estremo e struggente, viene messo in atto dalla donna: nel crescendo fisico e verbale della sua disperazione, che è la disperazione della stessa Terra, cede all’uomo una delle sue due gonne. Gli consente così di coprirsi di blu, di destarsi dall’incosciente torpore con cui sta devastando il proprio ambiente e la “prima natura” e quindi di provare a ri-fondersi panicamente con e in essa. Nonostante la stratificazione e la “complessità” performativa, Thinking Blind è comunque uno spaccato lirico e, a suo modo, limpido della “attenzione” a cui siamo richiamati in quanto esseri umani prima che ogni sforzo diventi inutile.

 

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(da) L’EREDITA’ DEL TEMPO

‘Doppiozero’  8/10/2021

di Enrico Piergiacomi

Sottile è anche il discorso sul tempo di Thinking Blind di (S)blocco5, andato in scena il 2 ottobre, 2021 al Teatro Testori di Forlì. Due performer, Giulio Santolini, Ivonne Capece, prendono avvio dal film Blue di Derek Jarman per precipitare l’ascoltatore dentro una sinestesia. Lo scopo è creare un lavoro visivo che cerca paradossalmente l’assenza di visione – la creazione di un campo cieco dove si disimpara a vedere gli oggetti singoli e si aguzza in questo modo l’ascolto. Nel giro di un’ora, Thinking Blind passa dal racconto del giardino di Eden, o della condizione idilliaca in cui dominava il colore verde bellissimo della natura rigogliosa e quello arancione della frutta matura, al graduale processo di caduta in un mondo colmo di malattia e morte, in cui gli oggetti e i viventi sono ora colorati di giallo-blu. Il mutamento cromatico suggerisce, tra le varie cose, un processo di graduale cecità e sordità dell’essere umano. Se nell’Eden quest’ultimo vedeva tutta la natura, ora non vede più nulla, perché si è convito di essere indipendente dall’ambiente naturale. La pandemia da Covid-19 ha dimostrato il contrario, facendo irrompere in maniera lampante la percezione che noi siamo immersi in un tutto interconnesso. Il blu è così simbolo di un’incapacità di percepire il cosmo nel suo complesso, dunque di sentire che l’umanità è una piccola parte della natura. A livello scenico, questo piano simbolico è trasposto in un dialogo tra la Madre Natura (Capece) e l’essere umano (Santolini). L’una è sempre vista di spalle, mentre descrive con azioni, parole e oggetti una vicina apocalisse. L’altro danza o agisce sulla scena quasi sempre nella condizione di chi non comprende questi segni e persino svaluta i doni che riceve dall’ambiente naturale. Ne è un esempio il punto in cui l’essere umano divora un arancio che Madre Natura invece usava per abbellire lo spazio: lo rende, da oggetto estetico, un semplice alimento. Solo verso il finale la situazione sembra mutare. Qui, infatti, l’uomo indossa la sottana blu di cui veste Madre Natura, segnalando un ricongiungimento della parte con l’intero. Entro questa cornice drammatica, il tema dell’eredità del tempo si introduce in relazione alla metafora dell’apocalisse. I segni apocalittici che Madre Natura presenta all’essere umano in scena sono un invito – esteso però agli spettatori – a ricongiungere la fine con l’inizio, in altri termini a ricreare, nel mondo orribile e malato in cui ci troviamo, una condizione vitale almeno somigliante a quella edenica. Ciò avviene su imitazione di Jarman, il quale aveva allestito in un’area prossima a una centrale nucleare un giardino di piante selvatiche, veicolando così la potente suggestione che compito di ogni arte è creare il bello anche nei luoghi capaci di esplodere da un momento all’altro. Thinking Blind di (S)blocco5 prosegue a sua volta l’intuizione di tale artista, ne raccoglie in altri termini l’eredità e sprona lo spettatore ad attivarsi in una direzione salvifica, prima che sia troppo tardi. Se così non farà, il blu resterà l’unico colore visibile ai nostri sensi, la cecità una mutilazione perenne.

 

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Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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