Testimonianza di Furugh da Kabul, in attesa di essere salvata

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A cura di Domenico Arturo Ingenito, professore di Iranistica presso l’UCLA, California.

Ho tradotto in Italiano dal Persiano la testimonianza di una ragazza che è rimasta per giorni in attesa nel canale-fogna che porta all’aeroporto di Kabul. Forse non ci sarà salvezza per lei. Conosco il suo nome, ho visto la sua foto. La chiamerò Forugh per proteggerla da ritorsioni. Fate circolare la sua storia, questo è quello che hanno visto i suoi occhi. Parlatene ad amici, parenti, colleghi. Che la coscienza dei governi non trovi pace finché non riusciremo a portare in salvo queste persone:

Noi non crediamo ai nostri assassini (Furugh, da Kabul, in attesa di essere salvata)

“C’era folla, caos, l’aria intrisa di polvere e il sole che ci spingeva faccia contro faccia. L’odore pungente di escrementi umani si sentiva dovunque, inseparabile da me come l’olezzo di fogna dal canale. Lì dov’era la mia destinazione finale c’era una folla di migliaia di persone: attraversare il canale significava trovare salvezza. Mi sono avvicinata al bordo del canale, restando in piedi in mezzo a un mare di uomini nella speranza di conquistare una visione d’insieme più completa. Appena mi sono tenuta in piedi, mi sono fatta tutta occhi e orecchie per vedere e sentire meglio, tutta spalle nello sforzo di  portare il mio zaino.
Il canale era lungo, con una profondità di circa sei metri, e una fogna che arrivava sino alle ginocchia della gente. I rotoli di filo spinato che sott’acqua parevano alligatori in attesa di afferrare la preda ora restavano calmi ora laceravano piedi e vestiti. Dentro al canale vedevo a perdita d’occhio donne, uomini e bambini che cercavano ad ogni costo di aggrapparsi alle braccia dei militari per conquistare il raro privilegio concesso a pochi fortunati.
La scena più assurda della mia vita stava per apparire davanti ai miei occhi. Ho visto un uomo estrarre il suo neonato dall’acqua sporca del canale e portarlo sotto i raggi violenti del sole. Reggeva il piccolo in mano così, avvolto in un fascio di documenti, perché i militari si commuovessero e gli prestassero attenzione. Ho visto un altro uomo portare nel canale il suo fratello affetto da disabilità fisica e mentale. Aggrappati l’uno al collo dell’altro procedevano tra i liquami.
I racconti circolavano furiosi come granuli di polvere nell’aria, ma io sono stata testimone di forme di paura e orrore che dopo dieci giorni si facevano dieci volte più spaventose e orrende.
Tutti dicono che i Talebani sono cambiati e che dobbiamo negoziare con loro. Ma ditemi chi vorrebbe mai sedersi a negoziare con i propri assassini? Gli assassini della nostra anima, gli assassini della nostra voglia di vivere, delle nostre speranze.
Noi non crediamo nei nostri assassini, così come loro non credono nella nostra vita.
Chiudo gli occhi, li riapro. La mia unica speranza adesso è di scoprire che questi giorni non sono stati altro che un incubo da cui ci si ridesta.”
Tradotto da Domenico Ingenito.
 

Foto in evidenza: Michelle Angela Ortiz, CLEANSE, 2020, Video project on wall,  9th and Montrose Street, former Frank Rizzo Mural, Philadelphia

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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