Terra inquieta di Vito Teti (Rubettino Editore, 2015), è molti viaggi in uno. Ha come sottotitolo: “Per un’antropologia dell’erranza meridionale” e in alto a destra sulla copertina c’è scritto, in piccolo, su fondo rosso: “che ci faccio qui”, che è il nome di una collana diretta dallo stesso Vito Teti. Ecco che sono in viaggio anch’io, ecco che m’immergo in questa “storia di linee”, in questi itinerari, ecco che partecipo di luoghi che non ho mai visto, Toronto compresa, di persone che non ho mai conosciuto, ma che, come parenti lontani, accolgo nella mia nostalgia. Mi chiederò perché e come possa capitare, questa comunanza di nostalgia, e forse qualche risposta l’ho già appuntata, nel tempo lungo di lettura di queste 464 pagine, ma adesso il mio problema è di scrivere di quello che Teti scrive, mettendomi da parte. La sintesi è presto fatta, sta nel risvolto di copertina. Eccola.
Terra inquieta è un libro che è tanti libri insieme, e tutti servono a qualcosa: uno racconta di Calabrie mobili che crollano e franano; l’altro di uomini che sperano futuro cercando l’America, ma cercandola incontrano la storia; l’altro ancora di donne che ascoltano in sogno i consigli di San Giorgio per vincere ogni drago, di uomini che i santi li portano a spalla per sacralizzare la polvere e il mare che siamo, di giovani laureati che partono perché l’ultimo lavoro non pagato è un’umiliazione ormai intollerabile.
Ma in Terra inquieta c’è pure gente che resta cercando di salvare rovine e pilastri di cemento che si alzano al cielo, per farne qualcosa che vive.
In questo vagare per spazi vasti e insieme profondi lo scrittore di Maledetto sud raccoglie ogni mollica, mentre l’antropologo de Il senso dei luoghi prova una teoria capace di dare forma al sussulto imprendibile della Calabria.
Così nasce Terra inquieta, una storia di linee che ricostruisce la necessità e l’ossessione per la mobilità di una regione contadina eternata dal tempo circolare dei greci, spezzata dalle catastrofi, che però sempre ritenta nuove circolarità per non mutare sguardo su di sé, infine la Calabria moderna…
Ma ogni sintesi di questo libro è un torto.
Dice Roberto Saviano: “Ogni libro di Vito Teti è una benedizione. Il suo racconto del Sud, dell’erranza meridionale, è fatto attraverso racconti antropologici. Anche questo è un libro letterario bellissimo.”
Sì, forse il centro della questione è questo, ovvero che si tratta di un libro di genere inqualificabile, che sfugge alla classificazione, un po’ saggistica, un po’ giornalismo, un po’ diaristica, un po’ poesia e letteratura… nemmeno il narratore tiene la distanza e spesso finisce col raccontarci di sé, dei suoi amici, dei suoi parenti, coinvolgendoci in estrema vicinanza. Non si può fare altro, quindi, che leggerlo interamente, per non mancare qualche parte di questo tutto anomalo, concedersi ai suoi viaggi, seguire le sue linee, farsi cogliere dalle emozioni e pensare i pensieri che inevitabilmente scaturiscono. Perché se è vero, ed è verissimo, che questo libro parla della Calabria, e lo fa nei dettagli, è altrettanto vero che questo libro evoca temi e rimanda a questioni che non trova estranei i non calabresi.
Scrive Vito Teti, (pp. 406 – 408), riferendosi alla Persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter:
Il sentire di Carlo Michelstaedter, esponente della cultura mitteleuropea, come Joseph Roth, Shnitzler, Rilke, Musil, Kafka, autori che amo profondamente, mi fa capire come il mio essere orgogliosamente dolentemente e uomo del Sud non possa essere separato dal sentirmi anche abitante dell’Europa, del Nord, del Mediterraneo. Sono convinto che le pagine di questi scritti abbiano contribuito a salvarmi, foderando di specchi la stanza del mio dolore individuale di uomo del Mezzogiorno. Il mio senso dei luoghi, le mie illusioni, le mie utopie, si sono sempre accompagnati a un’esigenza di persuasione. Nel mio dolore e nelle mie gioie non mi sono mai adattato alla sufficienza (o all’insufficienza) di ciò che mi è stato dato. Non ho mai smarrito, spero, il bisogno di cercare e di trovare la persuasione, cercando, certo con difficoltà e con forti contraddizioni, di sottrarmi alla retorica, ai richiami inautentici della “turba dei gaudenti” che cercano il piacere per il piacere e nel momento in cui lo cercano già non l’hanno più (Ibidem). “Rettorica” e “persuasione”, termini inconciliabili, sono adatti per osservare il mondo in questo periodo di crisi e di conflitti, ma anche per mettere meglio a fuoco l’antropologia del nostro Paese, la questione del Sud e di una regione come la Calabria. La retorica dei leghismi e dei localismi è la nostra sofferenza quotidiana: le cronache e i giornali soddisfano le nostre peggiori fantasie. Ma retorica e persuasione, nel nostro caso, possono dare conto di quello stato di doppiezza e di insicurezza che ha segnato anche la vita delle popolazioni del Sud. Una sottile linea d’ombra separa ciò che può essere argomento di persuasione da ciò che immediatamente diventa oggetto di retorica. Termini e concetti come “tradizione”, “modernità”, “classicità”, “identità”, “bellezza” nelle regioni del Sud e in Calabria vengono adoperati ora per discorsi che ineriscono alla persuasione ora per discorsi che sfociano nella retorica.
In una terra di contrasti e di dualismi, dove manca la mediazione e la conciliazione, basta poco perché qualcosa si trasformi immediatamente nel suo contrario. E così, lontani da una ricerca di persuasione, il legame con la tradizione diventa retorica della tradizione e folklorizzazione, il rapporto autentico con la classicità (penso ad Alvaro) può convivere con un uso strumentale che si traduce in fuga nel passato. “Tradizione” ha la stessa radice di “tradimento”: non vi è nulla di più mobile di quello che viviamo come tradizionale. Talvolta è necessario assumersi la responsabilità di tradire i luoghi, di abbandonarli, di non assolverli, di non giustificarli. Tradizione e modernità non sono due termini che si oppongono: non esiste alcun autentico legame con la modernità se si dimentica il passato. Ma il passato non può costituire sempre un fardello. Proprio perché ho ribadito l’esigenza del ricordo, posso dire che occorre incaricarsi dell’oblio, della dimenticanza, del perdono. Bisogna dimenticare per pacificarsi con i luoghi, con le persone, con se stessi.
Il richiamo al Mediterraneo è diventato spesso mitologia del Mediterraneo; l’evocazione della bellezza ha accompagnato la devastazione dei paesaggi e l’avvelenamento della natura; l’orgoglio e l’elogio dell’ospitalità sono diventati occasione per speculazione e per affari; l’esaltazione dell’ideologia del dono è diventata banalizzazione delle culture tradizionali. Il riferimento a un modello alimentare mediterraneo si è trasformato in sagre sdolcinate, in nostalgia di un buon tempo antico alimentare mai esistito. Il richiamo alla memoria può trasformarsi in organizzazione di parate e manifestazioni colorate e strapaesane, folkloristiche, che non hanno nulla a che fare con la storia profonda delle nostre contrade. Il valore dell’amicizia si può trasformare in terribili inimicizie, il senso dell’onore è diventato pretesto per faide, vendette, scontri tra clan. Il senso sacro e religioso della famiglia in negazione degli altri, la solidarietà in convenzione, i legami interpersonali in rapporti clientelari e mafiosi.
I discorsi sull’identità spesso sono diventati rivendicazione sterile, costruzione astorica, formule inconcludenti, artifici per non fare i conti con se stessi. L’identità, le identità, non hanno nulla di pacificato e di definito, parlano di ricerca, apertura, scommesse, sofferenze. Non si sommano come numeri, uno più uno, le nostre tante appartenenze: bisogna mescolarle come la farina, rischiando anche che il pane non lieviti bene, e poi tornando a mischiare, a scommettere, ad aprirsi allo stupore. Non esistono facili soluzioni per problemi che ormai hanno anche una rilevanza e un’origine globale. Non esistono scorciatoie, fatte di proclami. Non si contrasta il razzismo degli altri con risposte localiste. Ci sono aspetti luttuosi e melanconici della nostra mentalità, della nostra antropologia, che vanno collegati a una storia complessa: non devono essere esasperati, ma di certo vanno riconosciuti e interpretati. C’è un “sottoterra” ambiguo: voragine possessiva e rapinatrice ma anche profondità sotterranea che è in grado di esprimere una capacità di accoglienza sorprendente. Anche il cielo ha una sua ambiguità […].

Il meraviglioso drakon azzurro ritrovato nel 2012 nel corso degli scavi nella città magno-greca di Kaulon, a Monasterace Marina (Reggio Calabria)
Decido infine di procedere per assaggi. Non ne verrà fuori proprio una recensione, ma potrò testimoniare, assieme, l’intensa e complessa esperienza della lettura di questo libro, e la mia gratitudine.
Andiamo all’inizio. All’inizio, il libro ha una prefazione. Nella prefazione Teti scrive (pp. 18, 19):
L’erranza, lo sradicamento, lo spaesamento, l’inquietudine diventavano, così, già da bambino e poi da grande con le letture di storia e di antropologia della Calabria, parole e segni di una condizione più generale, quella di una terra in fuga e in movimento per mille ragioni: per necessità o per scelta, per catastrofi naturali o per catastrofi storiche di cui l’emigrazione è l’ultimo e più significativo momento. Come se la terra in cui sono nato avesse in sé un destino di mobilità. Un’inquietudine iscritta nella geologia e nell’antropologia calabresi, che ha segnato in maniera indelebile il paesaggio, l’organizzazione dello spazio, la scelta dei siti per nuovi abitati, i riti, la mentalità, le culture delle popolazioni.
Il folklore, i testi di tradizione orale, le memorie e le testimonianze raccolte in varie parti della regione raccontano e rappresentano, in mille modi, il senso dell’erranza e le dinamiche tra radicamento e fuga proprie delle popolazioni. Le “rumanze”, le fiabe, i racconti popolari (penso, in particolare, alle raccolte di Pasquale Rossi, Letterio Di Francia, Raffaele Lombardi Satriani) presentano la figura e il tipo del camminatore che va in giro per il mondo in cerca di fortuna e per uscire dalle ristrettezze della vita quotidiana. Cristo, Pietro, i santi con il loro cammino (come sottolineava Mariano Meligrana nelle sue tante riflessioni sul Cristo folklorico calabrese) sconfiggono la fame e affermano la verità. “Cammina, cammina” è il motivo di moltissimi racconti popolari. Nel cammino sono impegnati donne e uomini che hanno fame, raccoglitrici di erbe e di radici, orfani, principi. Il lungo camminare porta spesso alla sconfitta della fame e all’affermazione della giustizia e della verità. I protagonisti di molte fiabe, specie quelle raccolte da Letterio Di Francia (2015) lasciano la casa e se ne vanno “spersi per il mondo” perché costretti dalla malasorte, dalle loro condizioni di miseria e dal bisogno perché cercano di cambiare il loro stato. E questa paura, desiderio, necessità di essere “sperso nel mondo” appaiono metafora di un popolo in fuga. Il “calabrese errante”, come emerge dal folklore, ha una potenza di immagine ed evocativa pari, forse, soltanto a quella dell’”ebreo errante”.
La parola “erramo”, che ascoltavo ancora da bambino e che ritorna nelle parlate e nelle tradizioni orali, dal greco éremos (deserto, solitario, privo di tutto) indica – come si legge anche nel vocabolario del Rohlfs – l’errante, il profugo, il ramingo, la persona abbandonata e priva di tutto. Il “luocu érramu” è un luogo orribile. Le espressioni: “Mu ti viju érramu!” (“che ti veda ramingo!”), “jérramu mu vai!” (“che tu possa andare ramingo!”) sono tra le bestemmie e le maledizioni più terribili e più temute. Si tratta di maledizioni che possono essere accostate all’altra terribile “Chimmu ti crisce l’erba avanti la porta della casa!” (“Ti possa crescere l’erba avanti la porta di casa!”), ovvero: che la tua casa vada in rovina e venga avvolta dalle erbe. Potenza e orrore della maledizione che raccontava storie, paure, terrore dell’abbandono, una condizione conosciuta dai paesi e dalle genti di Calabria.
Questa inquietudine delle popolazioni, tuttavia, troppe volte, per le ragioni più diverse da contestualizzare nelle loro peculiarità e da inserire anche in una trama di lunga durata, è stata come una smania senza un senso e senza una direzione precisi. Raramente organizzata e finalizzata, si trasformava velocemente in frenesia, mania, irritazione, rabbia, ribellione o, nel suo contrario: apatia, melanconia, indifferenza, tormento, rimpianto. In omaggio alla sua origine sotterranea, tellurica, talvolta non trovava neppure uno sbocco, finendo col diventare paralisi e immobilismo: l’altra faccia, necessaria e complementare, dell’inquietudine. È forse la forma particolare di tale inquietudine a spiegare, almeno in parte, perché questa terra non riesca mai a raccogliersi, a ripensarsi in progettualità individuali e collettive.
Sempre nella prefazione, Teti chiarisce la struttura del libro, quel procedere per linee a cui già si è fatto riferimento (pp. 20, 21)
A inizio Novecento, Romano Pellegrini (1907), medico alienista nel Manicomio di Girifalco, stabiliva un’equazione tra il carattere tellurico della Calabria e il carattere mobile, inquieto delle popolazioni di questa regione. Se liberiamo questa immagine dall’interpretazione propria dell’antropologia e della psichiatria dell’epoca, possiamo sostenere che questo legame tra luoghi, riti e persone ubbidisce a una mobilità che è un tratto, certo non metafisico o a-storico, costitutivo delle identità mutevoli delle popolazioni. I santi stessi delle processioni corrono, quasi a voler raccontare i timori e l’inquietudine delle popolazioni, ma anche il bisogno di trovare una presenza e un appaesamento. In questa ritualità ci sono una strategia e un progetto, come strategia e progetti esistono in tutte le altre forme di viaggio indagate e raccontate in queste pagine.
Così questo libro, anche nella sua struttura, esprime un andare inquieto e si presenta come una storia di linee: ondulate, curve, rette, spezzate. A ciascuna forma corrisponde un capitolo, e a ciascun capitolo un certo modo di dare forma al viaggio, alla mobilità e all’inquietudine. La metafora deve essere però accolta in un duplice senso: la linea è diagramma di un’esperienza, di un processo o di una forma di vita, ed è al contempo una traccia: la prova che c’è stato un passaggio, un gesto significativo di cui è necessario custodire la memoria.
Il primo capitolo, La linea ondulata: sussulti, scivolamenti, abbandoni, è dedicato a quella che ho chiamato “geoantropologia” della Calabria, e cioè alle relazioni tra la mobilità idrogeologica della terra (terremoti, frane, alluvioni, smottamenti…) e la disposizione all’inquietudine e al viaggio nella cultura tradizionale calabrese.
Nel secondo, La linea curva: percorsi, pellegrinaggi, cicli eterni, mi occupo delle forme del viaggio nel mondo tradizionale meridionale e calabrese. Lo spostamento nello spazio noto della campagna e i percorsi e gli attraversamenti che solcavano terre e paesi raccontano di una comunità abituata a spostarsi e in continuo movimento: pellegrini, braccianti, forestieri, santi, mendicanti, saltimbanchi. Si tratta di andate e ritorni, viaggi interni all’universo contadino e a una concezione mitica del mondo, nella quale il viaggio dei morti fa da matrice al viaggio storico dei vivi. Un mondo apparentemente senza uscita, senza vie di fuga, e che, invece, già faceva i conti con la storia, elaborava le proprie utopie e si attrezzava, in modo drammatico, confuso e melanconico, a diventare moderno.
La linea retta: utopie, fughe, nostalgie è il capitolo della rottura dell’erranza ciclica del mondo tradizionale. Alla fine dell’Ottocento, la possibilità dell’emigrazione fa uscire tutto un mondo fuori di sé. Dopo il fallimento del tentativo di liberazione e di emancipazione rappresentato dal brigantaggio, l’emigrazione realizza l’utopia della civiltà contadina. La linea lungo cui erano stati elaborati sogni e desideri di una popolazione segnata dalla miseria e dalla fame, Cuccagna-Montagna-America, si apre, finalmente, all’oceano. La terra mobile si fa, a questo punto, mobilissima. La trasformazione del motivo dell’erranza e del viaggio diventa radicale. Tra le sponde dell’America e i paesi della Calabria. Un intero mondo si dimezza e allo stesso tempo raddoppia: esplode la geografia affettiva di chi parte, di chi resta e di chi torna. Nell’esplosione finisce un mondo, mentre uno davvero nuovo fatica a cominciare.
L’ultimo capitolo, La linea spezzata: ritorni, nuovi arrivi, partenze, è il racconto di questi ultimi decenni, di questa modernità incompiuta che in Calabria è diventata, spesso, post-modernità. Anch’essa inquieta e mobile, evidentemente impegnata ad affrontare il lento spopolamento dei paesi dell’interno; a re-inventare le forme dell’abitare, della festa e dell’ospitalità; a fare i conti con la propria identità e i propri luoghi di fronte all’internazionalizzazione del fenomeno ‘ndranghetista, al dissesto idrogeologico, all’arrivo dei migranti del resto del Mediterraneo sulle sue coste.
Tutta questa storia dura più di un secolo. Le memorie e le fonti vanno dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni. Un tempo, dunque, individuabile, ma aperto, con sullo sfondo eventi e segni della lunga durata. Un racconto storico ed etnografico che non si sofferma su eventi noti e decisivi, ma privilegia memorie, scarti, stracci, fonti minori, microstorie, testi e documenti poco noti, ignorati, non studiati. Dalla signora Filippina alle donne di Cavallerizzo. Anche la storia delle presenze in Calabria, la storia letteraria e culturale della regione, le elaborazioni delle élite appaiono sottotraccia, senza troppi riferimenti. La stessa cosa si può dire per le rappresentazioni esterne e le autorappresentazioni dei calabresi, di cui mi sono occupato in maniera compiuta in La razza maledetta (Teti, 1993) e, più di recente, in Maledetto Sud (Teti, 2013).
Festa di San Rocco, Gioiosa Ionica, 1986 (Foto di Vito Teti)
Il libro di Vito Teti è, quindi, “il racconto della Calabria inquieta”, della Calabria che è “nello stesso tempo un luogo e tanti luoghi (“le Calabrie”, appunto). Non c’è argomento che l’autore tratti che non sia pervaso da questa inquietudine: appena si ha l’impressione di potersi acquietare in una visione, in un’opinione, subito Teti ci forza lo sguardo a vedere altri risvolti, altre versioni, altre possibilità interpretative, fornendoci le prove di questa complessità. È così che la lettura diventa anche percorso di superamento di luoghi comuni, stereotipi, catalogazioni, pre-giudizi e la scena si riempie man mano del vissuto di diverse generazioni di personaggi cosiddetti minori, di quelli utili a statistiche e censimenti, il cui peso nella storia non si misura individualmente, ma concorre a quello dei grandi numeri, dei fenomeni macroscopici, costituendone i tasselli.
Ecco, di seguito, alcuni brani, estratti seguendo l’ordine delle pagine, restituiti come appunti, quindi come suggestioni e come assaggi, dicevo, di una scrittura che interessa e cattura, nei contenuti e nei modi.
(pp. 80 – 85) La società calabrese tradizionale, già prima dell’inizio dell’emigrazione, è caratterizzata da situazioni di viaggio. Viaggi (visite o invasioni) dei forestieri, viaggi quotidiani o “eccezionali” delle classi subalterne della regione, i viaggi degli aristocratici, dei borghesi, dei proprietari terrieri dentro e fuori la Calabria (Napoli, Roma, Palermo, Parigi). Sono spostamenti fondamentali per la storia economica della Calabria, per la storia delle idee delle élite calabresi, per le impressioni che provocano nelle idee e nell’immaginario popolare. […]
Alcuni viaggi storici dei calabresi – viaggi di lavoro quotidiani, o eccezionali fuori dal territorio familiare – sono viaggi di sopravvivenza, che generalmente confermano l’esistenza; altri viaggi sono necessità, imposizioni, sventure (viaggi di carcere, viaggi di leva) che modificano la struttura mentale di chi li effettua, ma non sembrano incidere sulla struttura sociale tradizionale, sulla società che assorbe miticamente tali eventi; altri viaggi ancora (viaggio del brigante, viaggio di occupazione delle terre) tendono a cambiare, ribaltare antichi rapporti sociali e a creare nuove condizioni di vita per le classi popolari.
[…] Il mondo contadino meridionale e calabrese si muove, per lo più, con movimenti lenti, impercettibili cambiamenti della realtà, per cause interne, esterne, naturali. Altre volte con bruschi scossoni, eventi catastrofici che ne stravolgono il lento abituale procedere. In entrambe i casi, la sensazione di immobilismo e la costitutiva ripetitività di quel mondo dipendono dal modo delle popolazioni di interpretare la storia, di negarne il senso. Le classi popolari calabresi fino ad epoche recenti, e in parte ancora oggi, hanno, infatti, accordato agli eventi un significato metastorico.
[…] Viaggio mitico e viaggio storico, insomma, coincidono.
[…] Le civiltà tradizionali, pur vivendo nella storia, rifiutano la storia perché insopportabile. Aboliscono il tempo attraverso il ritorno dei morti e la rinascita, trasformando i personaggi storici in eroi mitici, le azioni storiche positive in ripetizioni di azioni paradigmatiche di santi protettori. Il pensiero mitico calabrese, in particolare, allestiva un mondo in cui ogni uomo aveva una ragione d’essere. Un cosmo in cui ciascuno trovava posto in quanto creatura di Dio. La fine del mondo non è prevista in questa concezione.
[…] La mancata soluzione di antichi problemi storici, il perpetuarsi dello sfruttamento, la sconfitta delle lotte popolari, la non incidenza delle azioni di cambiamento confermano il valore del mito del tempo ciclico, gli danno consistenza. Certo, il pensiero tradizionale riflette una cultura tradizionale la cui base produttiva resta inalterata, un mondo basato sul lavoro agricolo, sul ritorno delle stagioni. Il mito è anche un prodotto storico, eppure il pensiero popolare ha resistito a scossoni radicali avvenuti nella storia della regione. Il racconto popolare è, da questo punto di vista, il paradigma del viaggio circolare.
I diversi aspetti della cultura popolare rinnovano la concezione circolare, e sono circolari perché avvengono all’interno di un mondo che non esce da se stesso. Siamo in presenza di viaggi che modificano per confermare. E in questo non uscire da se stesso del mondo si fondano le sicurezze, le certezze, le soluzioni delle classi popolari. Il circolo viene dilatato, schiacciato, deformato, ma alla fine punto di partenza e di arrivo coincidono.
(pp. 86 – 91) Al di là della differente connotazione di forestiero e straniero, nella società tradizionale calabrese “colui che viene da fuori” provoca spavento, procura scompiglio, si mostra diverso e mette in crisi la comunità entro cui si muove. Gli stereotipi nei confronti del forestiero di cui è densa la letteratura folklorica sono tecniche di difesa dall’uomo sconosciuto, contenimento della sua latente minacciosità. […] Ma la paura, la diffidenza, l’ostilità per gli stranieri non sono sentimenti generici, antichi, lontani. La Calabria moderna, nonostante i disagi che deve affrontare il viaggiatore, la difficoltà dei mezzi di comunicazione, l’assenza di grandi strade e di alberghi e locande, il pericolo, spesso non fondato, di incontri non graditi e pericolosi, accoglie una vasta gamma di visitatori provenienti dall’esterno.
[…] Una volta conosciuti, identificati come persone non ostili, i forestieri vengono accettati e diventano amici. Sono accolti nelle case, diventano oggetto di meticolosa attenzione. È un atteggiamento che, come osservano molti viaggiatori stranieri, si collega a una civiltà che s’intendeva di ospitalità e di viaggio. Una civiltà in cui il sacro aveva un’importanza fondamentale. I forestieri in Calabria diventano ospiti privilegiati, intoccabili, sacri. Da morti, inesistenti, provenienti dall’ignoto, dal caos, diventano ospiti reali.
[…] Poveri e forestieri – i forestieri quasi sempre sono poveri – inquietanti per una possibile, improvvisa, imprevedibile, non voluta e non controllata apparizione, sono oggetto da parte della gente di un’attenzione ambigua, di rifiuto o di accettazione. Forestieri e poveri sono delle anime morte, labili e indefiniti ricordano quelle di Gogol, ma si avvicinano alla “condizione dei defunti”. Poveri e mendicanti sono figure vicarie dei morti.
[…] E allora fare bene ai poveri mendicanti, ai poveri forestieri, è fare bene alle anime dei defunti. Il cibo a loro offerto è in “gloria” dei defunti, come se da essi venisse mangiato. Accogliere e rifocillare i forestieri significa aiutare le anime dei defunti e assicurarsi la benevolenza di Cristo (come già nel Vangelo, Mt 25, 31-46). In molti racconti popolari e in numerose leggende, Cristo che “va in giro per il mondo” nasconde la sua identità, arriva come forestiero e povero, si presenta davanti alle case dei contadini, sembra voler provare la bontà d’animo, il “buon cuore” della gente, e si rivela, si fa conoscere, dopo che è stato bene accolto ed ospitato. Cristo, prima di rimettersi in viaggio, risolve con un miracolo il problema della fame e delle persone povere e buone. Figura mitica e paradigmatica di viandante vagabondo, girovago, persona affamata di cibo e verità, Cristo fonda anche la possibilità, la necessità, l’utilità del viaggio. Se Cristo viaggia alla ricerca di verità, la verità è nel viaggio: un bel messaggio da una civiltà che ha suggerito immagini di mobilità a storici e antropologi.
(pp. 97 – 99) Isolamento, chiusura, immobilità, paura di spostarsi, di evadere, angoscia territoriale sono termini e categorie che, assunti in maniera assoluta e astorica, non convincono, appaiono quasi delle chiavi di lettura troppo agevoli e scontate per poter cogliere la ricchezza e le difficoltà della montagna. Non restituiscono fino in fondo la complessità, la mobilità, le contraddizioni dell’universo tradizionale, non precisano bene come e perché per secoli la vita delle popolazioni si sia potuta svolgere nelle zone interne. […] Se adesso, fissando una carta della Calabria, segniamo i più importanti e noti luoghi di culto e di pellegrinaggio in età moderna e contemporanea, proviamo a tracciare non già gli itinerari a piedi […], ma gli istogrammi che li collegano ai diversi paesi, vedremo come tutto il territorio sia attraversato da linee che si collegano e s’incontrano, formando una trama ricca e colorata di mille punti che non lasciano fuori quasi nessuna zona della Calabria. Aggiungiamo poi i centri delle principali fiere, quasi sempre collocati all’interno, nelle aree collinari e montane. Se aggiungiamo i punti e le linee relative alle feste e ai culti che hanno interesse locale e riguardano piccole aree e comuni limitrofi, ci renderemo conto come ogni più piccolo centro, ogni minuscolo villaggio fosse inserito in un reticolo complesso di viaggi, passaggi, spostamenti, movimenti di uomini, animali e cose. Anche i paesi più isolati avevano, almeno in certi periodi dell’anno e in precise occasioni, le loro vie di collegamento, i loro sentieri, le loro aperture al mondo circostante e ai luoghi lontani. Tutti i paesi erano luoghi di partenza, di arrivo, di ritorno. La Calabria è interamente attraversata da innumerevoli “vie dei canti”, che sono altrettante vie di comunicazione. Sono per lo più vie naturali, di antica frequentazione, note ai locali o ai commercianti, ai venditori, agli erranti delle zone vicine e che quasi sempre sfuggono a viaggiatori della tradizione del Grand tour che, a meno che non siano accompagnati da guide locali, prendono come punto di riferimento le coste e le marine disabitate e malariche fino alla rima metà dell’Ottocento e in alcuni casi fino agli anni Cinquanta del Novecento.
Gli itinerari dei pellegrini si snodavano lungo sentieri e scorciatoie, che tagliavano campagne, vallate, colline, monti. Costeggiavano o attraversavano corsi e letti di fiumi e di fiumare. Il viaggio, legato a fattori religiosi o commerciali, era impegnativo, faticoso, ma consentiva una conoscenza nuova del territorio, di appropriazione realistica e simbolica dei luoghi, assicurava un rapporto con la natura ed era occasione di scambi e incontri. Comportava l’uscita dai paesi e l’avvio di scambi materiali e culturali. Le vie dei canti sono quasi sempre le più ragionevoli, le più facili, le più percorribili, le più brevi. Erano i percorsi sperimentati e tracciati nel corso dei secoli, nella lunga durata, tenendo conto anche di possibili aggressioni e di pericoli di vario genere. Erano le vie disegnate dalla natura e dalla storia, dalla geografia e dall’organizzazione sociale dello spazio, dalle limitazioni dell’ambiente e dal sentimento dei luoghi. Escursionisti e ambientalisti che oggi prendono le antiche vie dei pellegrini sanno bene come esse fossero le più comode, le più funzionali, talvolta le più belle dal punto di vista paesaggistico.
Attorno ai luoghi di culto vengono venduti e comprati prodotti, animali, attrezzi da lavoro, oggetti, indumenti, e allo stesso tempo si ascoltano i canti, le leggende, le informazioni, le novità. I luoghi di culto diventano centri di diffusione di notizie, di usanze, di pratiche da un punto all’altro della regione. Se le torri distribuite lungo le coste riescono ancora in epoca moderna a dare, in breve tempo e in luoghi distanti, l’allarme per le improvvise e devastanti incursioni dei turcheschi, i santuari sono tam-tam assordanti, centri di raccolta, elaborazione, irradiazione di racconti e saperi utili. Cantastorie, suonatori, uomini che leggono la fortuna, narratori di storie e di leggende, venditori delle merci più diverse, di difficile reperimento, diventano talvolta inconsapevoli veicoli di informazioni che in poco tempo penetrano in tutti i luoghi della regione. In queste occasioni nascono legami, rapporti, amicizie, si organizzano fidanzamenti, matrimoni, comparaggi. Una rete di rapporti si sviluppa spesso tra abitanti di paesi lontani.
I pellegrini compivano a piedi un viaggio lungo, a volte centinaia di chilometri, per entrare in contatto con la divinità. Era un viaggio duro, protetto e controllato in diversi modi: soste in luoghi noti e sacri, partenze collettive (gruppi di famiglie, parenti, amici, paesani), mangiate rituali, canti, balli che facilitavano uno spostamento in zone economiche e culturali diverse da quelle di provenienza. Il viaggio nei luoghi sacri, compiuto attraverso marce che potevano durare giorni, condensava momenti di intensa aggregazione sociale e momenti decisamente penitenziali, come nei viaggi compiuti a piedi scalzi, o in silenzio, o digiuni. Il viaggio comportava lo spostamento dallo spazio quotidiano e facilitava l’approssimarsi a una dimensione dall’altrove, non solo spaziale, ma anche culturale e psicologica.
Il pellegrinaggio ai santuari svolgeva anche un’importante funzione sociale ed economica. Facilitava rapporti tra persone, rappresentava la sospensione di una quotidianità precaria, delle condizioni di “isolamento” in cui le comunità tradizionali versavano. Il viaggio verso la divinità era così viaggio verso altre persone, altre cose, altri luoghi, ritrovamento e rinascita di sé dopo una prova faticosa.
Affruntata a Zammarò (San Gregorio d’Ippona), 2007 (Foto di Vito Teti)
Sono squarci che provocano emozioni intense le pagine di descrizione degli antichi riti, dei pellegrinaggi ai santuari, della settimana santa. Riporto un solo passaggio, indicativo delle tensioni profonde e polivalenti.
(p. 121) Mi sembra importante riportare la testimonianza di Salvatore Piermarini, uno dei primi a fotografare nel 1973 il rito [quello dei “vattienti” di Nocera Terinese] con uno sguardo rispettoso e lontano dalla tipizzazione già allora in auge:
Questa gara non è una semplice prova di “balentìa” ma è anche una penitenza, un’offerta di fatica, sudore e sangue. Ricordo la storia di un operaio emigrato, figlio di contadini e lontano per lavoro in Germania, che avrebbe dovuto essere uno dei vattienti e non era riuscito a tornare in paese. Prima della festa aveva mandato alla sua famiglia un litro del suo sangue, che per voto s’era fatto salassare in segno di devozione e rispetto alla promessa, e per essere, a suo modo, comunque presente al rito della Passione. Un gesto eclatante, quasi estremo ma moderno per quegli anni, di sacrificio, di appartenenza alla comunità, un segno clamoroso e simbolico del legame tra il mondo contadino e quello operaio.
Irrompe il tema dell’emigrazione. Riporto il piccolo capitolo di pp. 168, 169.
Non so quanto la mobilità della Calabria sia un’ipotesi legata alle mie mobilità. Non so se, invece, la mia inquietudine, il senso di trovarmi sempre altrove, la sensazione di non essere mai del tutto nel posto in cui sono, provengano dalla mobilità della regione. Certo, la Calabria evoca, non soltanto a me, visioni di viaggio. Lo abbiamo visto: terremoti, alluvioni, frane, paesi che si spostano per ragioni naturali e storiche, invasioni e passaggi di popoli, santi viandanti che vengono da lontano, il Cristo della cultura popolare che viaggia per affermare la verità, pellegrinaggi, processioni, viaggio dei defunti in un al di là che è un continuum del mondo dei vivi, ritorno dei defunti nelle loro antiche dimore, viaggi di lavoro, viaggi per il pane, viaggi per l’acqua, viaggi per la terra, fughe dei briganti in montagna, fughe di ambulanti, viaggiatori stranieri che visitano la Calabria, viaggiatori fantastici, sognatori: tutti questi eventi, tutte queste figure hanno concorso, in maniera intricata e intrigante, a fare della Calabria una terra di viaggio. Natura e storia, geografia e cultura sembrano aver congiurato per l’inquietudine del calabrese.
Ma è con l’emigrazione che una terra sempre mobile diventa “mobilissima”. Con l’emigrazione cominciano un’erranza, un’irrequietezza e una fuga che coinvolgono anche le persone che stanno ferme e che, a volte, immobilizzano le persone che si spostano. Tutto si muove in un mondo in cui le persone vanno e vengono, partono, tornano, ripartono, sognano partenze, hanno nostalgia dell’altrove. Questi dati della storia e della mentalità dei calabresi si affermano in maniera improvvisa e inaspettata. Quasi per magia.
Arrivano le pagine sull’emigrazione in America tra Ottocento e Novecento e sulle sue ripercussioni sulla famiglia tradizionale, sul tessuto sociale, con approfondimenti sull’immagine e il ruolo delle donne, arrivano le pagine sulla prima guerra mondiale e il conseguente viaggio al fronte, con le sue ricadute, comprese quelle dell’incontro con italiani di altre regioni. Poi vengono le fasi dell’emigrazione durante il ventennio fascista e nel secondo dopoguerra, lo spopolamento dei paesi di origine e il loro sdoppiamento lungo la costa o in altre parti del mondo, la descrizione di antichi e nuovi comportamenti devozionali, ricerca di una identità collettiva dispersa.
(pp. 198 – 200) La scelta di partire è frutto di divisioni, calcoli, lacerazioni. Se la partenza è morte di qualcosa, è anche inizio di qualcos’altro. Se è costrizione, è anche fuga, ribellione, inizio di un’espiazione per raggiungere il nuovo mondo. Il dolore per quello che si lascia è attutito dalla speranza del meglio. Anche chi vede solo gli aspetti negativi dell’emigrazione – ed io non ne ho certo una visione edulcorata ed estetizzante – non può non vedere in essa una “nuova nascita”. L’America è il sogno di riscatto, mondo nuovo che permette di dire addio a fame e miseria. La partenza avviene con rabbia, dispetto, dolore, ma spesse volte anche in forme gioiose. Il viaggio in America esorbita radicalmente dai limiti del viaggio contadino tradizionale, l’acqua dell’oceano sconvolge gli argini antichi delle dighe circolari. Dal viaggio in America non si torna indietro. Scrive Mario Soldati in America primo amore: “Di tutte le lontananze, l’America è la più vera ed esemplare”. (Soldati, 1981). L’emigrazione come dispersione, dissipazione, separazione, frantumazione dell’io-migrante e del paese, che si ferma e si sposta. L’emigrazione vissuta come dissanguamento degli uomini e dei paesi. Ma il sangue è, nel mondo contadino tradizionale, elemento di vita. negli antichi riti contadini, nelle feste religiose del Sud versare il sangue è rito di propiziazione, di fecondazione, di rinnovamento. Con il dissanguamento del mondo contadino, con il sacrificio di chi parte, l’emigrazione diventa rito di rinascita e di resurrezione. Dal sangue nascono i fiori e gli alberi nelle antiche società, con il rito sacrificale del capro viene delimitato il perimetro di una nuova città nel mondo classico, dal sangue degli emigrati nascono le strade e le case dei nuovi paesi in America. Il vecchio paese si sposta, nasce altrove. […]
Il sangue degli emigrati crea e assicura altra vita oltreoceano: “Li costruzioni su’ bagnati de sangu de l’emigrati calabresi…”, dice il verso d’un canto dell’emigrato Vincenzo Iozzo di San Nicola da Crissa. Nell’America, mitizzata e maledetta, piena di soldi e di miseria, di donne furbe e belle, causa di rovina e di malattie, nell’America di Kafka, grottesca, enorme, amplificata, nell’America Cuccagna e nell’America della fame, nell’America dove gli emigrati rischiano di morire all’arrivo e subito dopo ricostituiscono i paesi d’origine, nell’America vicina e lontana, conosciuta e sconosciuta, rinasce il paese calabrese, rinascono altri paesi italiani, forse anche tutti i paesi del mondo. Il paese d’origine dunque si lacera, si spezza, si sposta, perde pezzi, esce fuori di sé, rinasce, risorge, si ricostituisce altrove, diventa altro, si sdoppia. Il paese d’origine ha altrove un sosia che non conosce, un sosia mai visto, un doppio immaginato, o mitizzato, denigrato o disprezzato. Il sosia, a sua volta, osserva il paese d’origine, lo giudica, lo critica, lo mitizza, lo denigra, lo rimpiange. I due paesi si guardano e non si vedono, si studiano, si cercano, s’inseguono, si offendono, si ricompongono, si ri-separano. Il paese uno e il paese due sono l’uno specchio dell’altro, l’uno doppio dell’altro. Ognuno vede attraverso l’altro, un’immagine deformata di sé e, attraverso sé, l’immagine deformata dell’altro. Il paese uno non conosce il paese due, il paese due non riconosce il paese uno, il paese uno non comprende il paese due, il paese due non comprende il paese uno, il paese uno invidia il paese due, il paese due denigra il paese uno, il paese uno disprezza il paese due, il paese due disprezza il paese uno. E così via. L’acqua dell’oceano è un grande specchio a più facce che riflette immagini deformate. Quando il paese uno non si specchia più nel paese due è ormai definitivamente dissanguato, quando il paese due non si rispecchia nel paese uno è divenuto vampiro che ha succhiato tutto il sangue del paese uno: quando il paese due non si vede nel paese uno è morto, defunto, divenuto altro: si è integrato nell’altro mondo. E l’autoritratto non è più possibile.
Chi resta nel paese non conosce il cambiamento di chi parte, chi parte non coglie i cambiamenti avvenuti nel paese, chi parte ha bisogno di lasciare un mondo fisso, stabile, identico e, quando non lo trova, si sente straniero, incompreso e non comprende. Tra i paesani d’America nascono sensi di colpa, ma anche risentimenti. Non si tratta di un gioco di parole: sto cercando di parlare della schizofrenia dei paesi, di quello d’origine e di quello nuovo, e dei suoi abitanti. Il problema dell’identità del paese nasce con l’uscita del paese da sé, con il suo sdoppiamento. Il concetto d’identità è legato al problema del doppio, dell’altro. Solo chi è uscito da sé vuol tornare in sé. La non identità del paese uno è la non identità del paese due: sono entrambi gli esiti differenti di un medesimo movimento di separazione. L’identità del paese uno è ritornata a sé dopo l’uscita da sé. L’identità del paese due è anche, ma non solo, problema di identificazione, di somiglianza con il paese uno, di distanza da esso. Il paese uno non può ricostituire la vecchia identità, perché prima non aveva il problema dell’identità. Non può tornare al punto di partenza. E il paese due, che cambia, muta, si trasforma, non può mai identificarsi con il paese uno che, intanto, cambia, muta, si trasforma. i due paesi non s’incontrano mai. Non si ricongiungono se non su un piano mitico. Nella realtà si muovono, s’inseguono, si urtano, si scambiano le parti, s’influenzano, come i due Goljadkin di Dostoevskij (1999), ma non s’incontrano mai. Il paese due ha nostalgia del paese uno, il paese d’origine ha nostalgia dell’America. La nostalgia, la melanconia, il rimpianto, come l’identità, sono problemi, emozioni, stati d’animo comuni per chi parte e per chi resta. Ogni persona che rimane ha una parte di sé che è partita, ogni persona che è partita ha un sé rimasto in paese.
Processione a mare dell’Immacolata, Nicotera, 2000 (Foto di Vito Teti)
(pp. 278 – 281) La decisione degli emigrati di non tornare più, di crearsi una vita altrove, di formarsi una famiglia, di morire ed essere seppelliti nel nuovo mondo significa di fatto interruzione dei rapporti con la comunità d’origine. Per coloro che sono rimasti, questa scelta rivela l’esistenza di un evento che non può essere annullato, l’esistenza di un mondo dove c’è un’altra storia. La separazione, il distacco, lo sdoppiamento è anche lacerazione dell’antico tempo. Ciò che si divide non può più essere ricongiunto, il tempo non può essere più annullato. I due paesi separati vivono vite diverse, camminano per conto loro, non s’incontrano.
Ma questi sono soltanto segni di una rottura già avvenuta. La rottura consiste nella consapevolezza dell’impossibilità di annullare il tempo, nella coscienza che è impossibile non parlare di un presente e di un passato. Sia coloro che sono rimasti sia coloro che sono partiti non si possono sottrarre a un “prima” e un “dopo” della partenza. Il mondo, il paese, le strade, gli oggetti, la famiglia, le persone sono diversi se guardati, pensati, ricordati prima e dopo dei viaggi. Chi torna vorrebbe trovare tutto come prima. E non è possibile. Già lui è diverso. Torna, non trova le cose di prima, le vecchie persone – che sarà successo nel tempo in cui lui non c’era? – tutto è diverso, non si ritrova. E non può ricomporre quello che è definitivamente separato, non può fare quello che è stato già fatto, non può partecipare ai matrimoni già celebrati, non può riseppellire le persone morte in sua assenza. C’è un tempo che gli sfugge, c’è un tempo che non controlla, c’è un tempo che non può annullare, perché quel tempo non l’ha vissuto, non gli è mai appartenuto, è un tempo mai esistito per lui, tempo diverso dal suo. La reversibilità del tempo, un ritorno al prima della partenza, sono impossibili. La sua coscienza se ne rende conto, e lui prende atto di essere diventato un altro. Anche quando si illude di ricomporre, su un piano metastorico, la frattura è destinato a una delusione; anche i riti, che annullavano momentaneamente il tempo, lo costringono a prendere atto di un evento irreversibilmente accaduto. Pietro Blefari, il personaggio di Emigranti di Perri, va in pellegrinaggio a Polsi e non trova pace dentro di sé, non può annullare quel tempo trascorso in America che gli brucia dentro. Egli muore ammazzato, e la sua morte è espiazione di una colpa.
Per le classi popolari, l’emigrazione è una caduta nel tempo, un precipitare infine nella storia. L’emigrazione è “paradiso perduto”, “innocenza perduta”. Non sono immagini metaforiche, sono immagini che rivelano realmente la condizione di chi ha perso una dimensione in cui tutto poteva essere ricomposto, il possesso di un mondo in cui era possibile ricominciare daccapo. Adesso non è più possibile riprendere la vita come se niente fosse successo. Il passato esiste e punge, condiziona, determina il presente. È qui che comincia la memoria storica, non più mitica, per molti appartenenti alle classi popolari. La memoria della loro storia individuale, della storia di tanti altri. L’emigrazione, ho molto insistito su questo aspetto, significa uscita da sé, ricerca, inizio del problema della propria identità. L’identità non rappresentava il problema in un mondo dove ognuno restava sempre identico a se stesso. L’identità è ingresso in un altro mondo, attraversamento di altri mondi e presuppone un prima e un poi. Chi si interroga sulla propria identità s’interroga sul tempo, sulla storia. È qualcuno che in qualche modo ha consapevolezza della storia.
La possibilità di scegliere, partire o non partire, tornare e ripartire, partire e non tornare più, presuppone la concezione in chi sceglie di un tempo non ciclico, non obbligato, di tempi diversi a seconda dei diversi luoghi in cui si può stare. Dicono molti anziani contadini: “come passa il tempo!”; “quella persona che è morta è come non fosse mai esistita”. E un proverbio ancora recita: “povera vita mia, poveri panni,, tempo passato perché non ritorni?”. Il senso del tempo che passava e tornava era certo anteriore all’esperienza emigratoria. Abbiamo adesso un tempo che passa, i morti che non ritornano, il tempo passato che non torna più. Il “prima” e il “dopo” nel mondo contadino tradizionale non cominciano certo con l’emigrazione. C’era già un prima e un dopo nella vita degli individui: un prima del matrimonio, un prima della morte del padre, e così via. Avvenimenti che rientravano però nell’avvicendamento ciclico delle persone e delle stagioni. C’erano un prima e dopo relativi solo a singoli episodi storici. Prima e dopo le invasioni turche, prima e dopo l’arrivo dei francesi, prima e dopo il terremoto. Ma la mentalità mitica arcaica trasformava con successo, nel volgere di qualche generazione, i fatti storici in fatti mitici, l’evento veniva interpretato con tecniche destorificanti. L’emigrazione sembra aver distrutto questa capacità di assorbimento dell’evento nella mentalità mitica tradizionale. L’America diventa mito, nuovo mito, ma rimane la storicità della partenza. L’emigrazione è cominciata in un tempo preciso, è continuata in un certo modo, gli americani sono stati queste persone, il paese è cambiato in questo modo. È la consapevolezza di molti, non di pochi che leggono e studiano.
Si dirà: l’emigrazione è stata ridotta a mito in alcune situazioni, Ed è vero. Molti personaggi storici, molti emigrati sono divenuti eroi mitici a distanza di cinquant’anni, nuovi eroi fondatori del paese. Abbiamo molti esempi, ed è interessante osservare direttamente come la storia venga trasformata in mito. Si può ancora dire che l’emigrazione è un fenomeno non ancora concluso, è tutt’ora in corso, e le sue conseguenze si fanno ancora sentire. Forse domani, in tempi più lunghi, la mentalità popolare potrà ricondurre l’intero fenomeno a episodio mitico, potrà interpretarlo come evento accaduto in illo tempore, potrà annullarlo, riducendolo a paradigma di nuovi avvenimenti. Forse. non lo sappiamo. Non sappiamo nemmeno cosa succederà domani. Adesso resta il fatto che noi, e non solo noi, usciti dal mondo dell’eterno presente avvertiamo l’angoscia della storia, resta il fatto che le classi popolari, da un secolo a questa parte, hanno vissuto come una caduta l’evento di cui sono state protagoniste, e resta la consapevolezza di un’esperienza comunque per loro irreversibile. Un’esperienza che ha modificato le antiche strutture mentali dei contadini che non sono più contadini.
Peasant No More, Mai più contadini, non a caso, è il titolo di un’illuminante ricerca condotta da Joseph Lopreato dal 1958 al 1964 a Stefanaconi, in provincia di Vibo Valentia, paese di nascita del sociologo americano (Lopreato, 1990). In questo studio di comunità, stranamente ignorato dagli studiosi, Lopreato mostra come con l’emigrazione i contadini abbiano voluto cancellare una miseria che era economica, ma anche sociale e psicologica, abbiano spezzato un isolamento secolare e anche le strutture di potere locale che li vedevano in una condizione d’impotenza e di prostrazione. L’emigrazione, secondo Lopreato, realizzava anche un processo di avvicinamento tra comunità contadina e società nazionale, tra paesi e mondo. Il contadino emigrato esprimeva il bisogno di perdere la precedente identità sociale per acquisire, attraverso il reddito del nuovo lavoro, autostima, dignità, libertà personali. Paradossalmente, il contadino – scrive Lopreato – ha dovuto ripudiare il sistema di vita della propria comunità al fine di potervisi inserire. Non si tratta, è bene ribadirlo, solo della situazione della Calabria e delle altre regioni meridionali. Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti descrive, attraverso le testimonianze e le biografie di donne e uomini delle langhe e della provincia di Cuneo, un “meridione” all’interno del Nord segnato da fame e miseria, sfruttato e colonizzato, da cui donne e uomini fuggono per cambiare la propria condizione, riversandosi nelle fabbriche, dove arrivano calabresi, siciliani, lucani, che conosceranno nuove forme di marginalità anche nella società del benessere. Per questo Revelli dà voce agli «emarginati di sempre, i “sordomuti”, i sopravvissuti al grande genocidio». Parole forti che dovrebbero far riflettere quanti negli ultimi tempi hanno alimentato, in maniera strumentale, le distinzioni tra Nord e Sud, e anche per capire come le società contadine del passato si assomigliassero. Scrive Revelli: “Non sono un nostalgico delle società pastorali, non sono il turista che ama trascorrere il week-end in campagna. Non ho mai detto a un montanaro «beato te che respiri quest’aria sana, beato te che vivi nelle nostre cose perdute»” (Revelli, op. cit.). Il passato gli interessava e ci interessa per capire la società di oggi, le sue trasformazioni, le nuove lontananze sociali, le diverse lacerazioni e le nuove richieste di liberazione. Non si torna al passato: mai più contadini. E se il ritorno alla terra, alla campagna, ai paesi, saranno possibili, avverranno in forme nuove, in un mondo locale e globale totalmente mutati.
Sbarco di profughi curdi, Isca Marina, 2001 (Foto di Vito Teti)
(pp. 310 – 313) Una doppia onda di nostalgia abbraccia coloro che sono nati in un pase abbandonato. Verso l’antico e verso il nuovo o verso un altro luogo. Anche quando rimpiangono il passato, magari alla luce dei fallimenti e delle frammentazioni conosciute, anche quando pensano che oggi questi luoghi, in condizioni mutate, potrebbero essere felicemente abitati, non pensano di tornare, ma rivelano un’insoddisfazione del presente così com’è. Cercano un nuovo ancoraggio che comprenda in qualche modo anche gli antichi luoghi.
Il ritorno rituale tra le rovine realizza un legame speciale tra passato e presente, segnala la necessità di una continuità, nonostante le fratture catastrofiche. Pure se riferite ad altri contesti mi sembrano efficaci, anche per le rovine della Calabria, queste considerazioni di Marc Augé:
Siamo posti oggi dinanzi alla necessità opposta: quella di re-imparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia. Mentre tutto concorre a farci credere che la storia sia finita e che il mondo sia uno spettacolo nel quale quella fine viene rappresentata, abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia. Questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle rovine (Augé, 2004).
Le feste tra i ruderi, tra i paesi abbandonati o a rischio di abbandono ci ricordano anche che il luoghi non muoiono, nemmeno quando le persone se ne sono andate. I luoghi continuano a vivere fino a quando ci sono persone affezionate ad essi, da essi provenienti, fino a quando qualcuno ne avrà ricordo. È difficile desacralizzare un luogo, anche quando viene abbandonato. I superstiti e i discendenti potrebbero, diversamente, riscoprirlo, immaginare e praticare un qualche ritorno. Per questo forse gli ultimi abitanti lasciano il luogo con atti e gesti sacrali. L’addio non è un qualsiasi addio, è un addio che affida i luoghi alle divinità che in qualche modo rimangono a loro presidio, anche in mezzo alle rovine. Per la loro intrinseca sacralità si ha un timore segreto ad addentrarsi tra i ruderi, a toccare resti e oggetti, quasi fossero minacciosi. Anche quando li si ruba bisogna liberarsene al più presto. Ma proprio in questi posti, pensi che il non luogo sia soltanto una bella immagine e una bella metafora, che comunque non può dare conto della complessità, della fluidità e della solidità di questi posti. i non luoghi, in senso assoluto, non esistono. La desacralizzazione non è stata mai definitivamente compiuta. In queste feste è forte il bisogno di presenza delle popolazioni, il desiderio di non perdersi dopo decenni di smarrimento, la voglia di resistere là dove permane il rischio di abbandono. Con il ritorno nel paese degli antenati, la gente del luogo e degli emigrati, sparsi in mille posti del mondo, tentano forse di conoscersi e riconoscersi una volta per tutte.
Il paese morto significa rimorso e senso di colpa per gli abitanti dei nuovi paesi doppi, delle persone originarie del luogo e disperse nel mondo. Il paese morto è prefigurazione del rischio e possibilità della fine dei nuovi paesi. Una memoria che assilla, opprime, interroga il nuovo paese. I paesi morti sono una sorta di memento mori, sono testimonianza della caducità. Sono lo specchio delle dispersioni e degli abbandoni di oggi. Sono un mitico rimpianto. Sono ciò che saremo. Sono i fantasmi da cui non ci si libera, da cui non ci si vuole liberare. I tanti giovani e giovanissimi non celebrano un rito legato a un passato che non passa, una festa triste e dolorosamente nostalgica. È una festa del presente, gioiosa, vitale, fondante. Essi tornano fra i ruderi per assistere a una cerimonia, a uno spettacolo insolito, di cui hanno vaghe e imprecise notizie. Molti per curiosità, per desiderio di fare una scampagnata con gli amici, per il piacere di fare contenti i genitori. Le case diroccate, vuote, i muri ancora integri, le pietre disperse sono per loro il segno di un qualche avvenimento lontano, che li incuriosisce senza turbarli. I ruderi sono vissuti in maniera pacificata. Dall’abbandono sono passati ormai cinquant’anni e i giovani hanno soltanto vaghe notizie delle persone e delle vicende che si sono qui consumate: nei loro sguardi le rovine sono vinte dalla vita futura. Talvolta, invece, l’abbandono viene quasi mitizzato, ricondotto a mille cause, a catastrofi, ad alluvioni, a frane, a terremoti e sfollamenti imprecisati. Forse, con una nuova consapevolezza e con diversa sensibilità, a qualcuno può sembrare strano che le persone siano fuggite da un luogo così fertile, facilmente raggiungibile dalle belle coste del Tirreno e dai boschi e dalle Serre. Le narrazioni e le interpretazioni odierne della fuga hanno il merito di stemperare il dolore e di restituire un sentimento rasserenato di questi luoghi abbandonati di recente. Nelle popolazioni il sentimento di perdita convive con la speranza di rinascita. Coloro che sono rimasti appaiono impegnati in un’opera di ritrovamento e ricostruzione di un mondo nuovo, magari nello stesso luogo in cui sono nati, magari a pochi chilometri di distanza. Nei mille luoghi di passaggio, di frontiera, con case incompiute, spesso senza chiesa, senza cimitero, senza piazza, senza centri di aggregazione, si svolge un lavorìo di appaesamento, giocato su un rapporto di odio-amore e di distanza-vicinanza con il paese uno, si attua in faticoso tentativo di collegare periferie non comunicanti. Il pellegrinaggio che in passato metteva in comunicazione abitanti di paesi lontani e separati, oggi sembra assumersi il compito di riconoscere, riepilogare, ratificare e superare doppiezze interne ed esterne, antiche e recenti.
In ultimo, pagine di grande vicinanza autobiografica, comprese quelle che raccontano dei paesi abbandonati, delle “new town” dopo le frane, di Wim Wenders tra Badolato e Riace, per girare “Il volo”, o di Don Massimo Alvaro (e quindi del fratello Corrado), in cui, tra forma letteraria e poetica, appaiono amici, parenti, collaboratori antichi e nuovi, sulla scena complessa della Calabria odierna. Delle Calabrie, appunto.
Venerdì santo, Brognaturo, 2015 (Foto di Vito Teti)
Tra le ultime suggestioni vorrei riportarne una, un piccolo capitolo, titolato “MA INTANTO NESSUNO PERDE”. L’UMANITÀ DI SANDRO ONOFRI. Si trova alle pp. 434 – 436.
Devo al mio amico Sandro Onofri, una delle voci più originali e sofferte della letteratura italiana contemporanea, che ci ha detto troppo presto addio, un altro modo di guardare i nostri luoghi e la loro incompiutezza. Un giorno a fine anni Novanta, in uno dei tanti nostri viaggi in Calabria, salendo da Soriano Calabro verso Serra S. Bruno, Sandro osservava i colori di una staccionata, attorno a una casa ad un certo punto mi dice: “guarda, costruiscono come in America”: era il suo modo di cogliere in un universo apparentemente chiuso e immobile le trasformazioni introdotte dagli emigrati. Il paesaggio delle Serre è segnato dalle trasformazioni introdotte dagli emigrati d’America e della Svizzera.
Colpiscono soprattutto gli steccati messi ai bordi dei vialetti che si addentrano nel fitto del bosco, e persino il legno delle capanne costruite per conservare gli attrezzi da lavoro dei giardinieri, sistemato secondo un gusto non italiano e non calabrese, più in linea invece coi requisiti del turismo ambientale d’oltreoceano (Onofri, 1997).
Sandro Onofri, che amava e conosceva la Calabria e ne aveva scritto in molti articoli di denuncia, coglie l’ambiguità e un duplice aspetto del disordine calabrese. Un disordine dei muri, dell’abusivismo, dell’appropriazione selvaggia del territorio, al cui interno, però, si sono stratificate, secondo Sandro, le tracce di tutte le vite che ci sono passate. Sandro era attirato in Calabria da quel disordine della natura e delle cose, e “dalla gran pace che paradossalmente ne deriva”. Nelle incompiutezze del paesaggio, scorge una sorta di anarchia dei manufatti e degli uomini. Scrive Sandro:
Ogni volta che vengo al Sud, e in Calabria in particolare, resto sempre colpito dal disordine della natura e delle cose, e dalla gran pace che paradossalmente ne deriva. Agli occhi di una mentalità illuministica, tanto sbuffare di cespugli selvaggi ai bordi delle strade, i prati scompigliati e anarchici, il furoreggiare di ortiche in mezzo agli intonaci bianchi, e le canne, gli sterrati improvvisi, l’opulenza dei fiori ai balconcini e persino la prepotenza dei cespugli di pitosforo piantati in mezzo allo spartitraffico sull’autostrada, può sembrare disordine e sciatteria, scelleratezza, mancanza di senso estetico. E invece è il risultato di un atteggiamento paziente e amoroso, di un rapporto figliale verso la natura. (Ibidem).
Sandro vedeva in questo disordine naturale e culturale una sorta di opposizione a un universo ordinato dalla logica capitalistica, da una razionalità invasiva. Nelle pieghe delle incompiutezze e delle stravaganze, scorgeva una sorta di manifestazione della fantasia delle popolazioni che non si facevano omologare, un segno di un caso che metteva in discussione i discorsi chiusi e definitivi di un mondo uguale dappertutto. Nel Sud, ma ancora prima nelle culture degli indiani di America, Sandro scorgeva il modello della “lentezza”, quella dimensione del “tardare” e del “trattenersi” come forme di conoscenza (si veda l’attacco di Pianeta giovani ne Le magnifiche sorti). Nella “perdita di tempo” nasce un’idea. Sandro ricorda le pause di bambino, le interruzioni del lavoro in fabbrica del padre, che tornava a casa per il pranzo e in un’ora mangiava, si riposava e faceva la “pennichella”: un’immagine che gli provoca emozione. E quell’“emozione, quasi un intoppo dei sentimenti”, prova “nel riconoscere la mia terra in un gruppo di persone sedute fuori dai portoncini a Little Italy, o sulle scalette delle case inglesi a Brooklyn” o anche nel vedere in una sorta d’incantamento sonnolento le donne a Napoli, o al Portico d’Ottavia, che si abbandonano “sempre alla stessa ora, verso sera d’estate, quando l’aria rilassandoci accende i colori, e nei primi pomeriggi invernali”. Quelle figure femminili del Sud o della Little Italy
avevano sempre quel gesto che si usa solo da noi, quell’abbandonare la mano in grembo stringendo una pera o un pezzo di pane nel pugno, il corpo piegato pesantemente, un po’ goffamente, che data l’età si sentivano ormai esonerate dal controllare il loro contegno, e si abbandonavano a quel modo di masticare lento e lungo, che è tutto un fantasticare insieme sul mondo e sulle sue questioni esterne (Ibidem).
E sembra di leggere Alvaro. Il discorso sulla lentezza non ha nulla di retorico: è una sorta di espediente per criticare una scuola che si basa sull’elogio di chi “sa quello che vuole”, ed è smanioso di fatti, di certezze, pronte e immediate. L’opposizione all’efficientismo, alla fretta. la lentezza è un altro modo di guardare alla realtà. Camminare lenti e a passo lungo ti consente nuove vie. Sandro cercava la vita, la vitalità, il bisogno di presenza dei ceti popolari e marginali dovunque e comunque si manifestassero:
È una storia minore, di piccoli atti umili e pazienti, dove forse non vince nessuno, ma intanto nemmeno perde (Ibidem).
In questa storia che forse non vince, ma nemmeno perde, dovrebbe sperare la Calabria.

Il drakon di Kaulonia, l’antica città magno-greca sul Mar Jonio di Monasterace (Reggio Calabria). È il drago a mosaico scoperto negli anni ’60 da Alfonso De Franciscis e oggi custodito nel Museo Archeologico di Monasterace
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Vito Teti è professore di Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo. Tra le sue pubblicazioni: La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, 1993 (n.e. 2011); La melanconia del vampiro. Mito, storia, immaginario, manifestolibri, 1994 (n.e. 2007); Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, 1999; Il senso dei luoghi. Memoria e vita dei paesi abbandonati, Donzelli, 2004 (n.e. 2014); Maledetto Sud, Einaudi, 2013. Presso Quodlibet ha pubblicato Pietre di pane. Un’antropologia del rrestare, 2011 e Il Patriota e la maestra. La misconosciuta storia d’amore e ribellione di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla ai tempi del Risorgimento, 2012.
Foto in evidenza di Vito Teti.
Foto dell’autore dal blog di Vito Teti.