TEATRO AI TEMPI DELLA DITTATURA BRASILIANA (Anna Fresu)

censura

IL TEATRO IN BRASILE NEGLI ANNI DELLA DITTATURA MILITARE (1964 – 1985)

 

Il teatro è, per sua natura, un’arte di resistenza
(Ygor Fiori – attore e produttore teatrale)

Molte furono le conseguenze che il teatro subì nel periodo della dittatura militare in Brasile. Molte furono le difficoltà, gli episodi che ne condizionarono la pratica, la drammaturgia, le interpretazioni e molte le risorse che furono messe in campo per superare gli ostacoli. Forte l’impronta che tutto questo ha lasciato anche nel teatro attuale.

Proprio per la specificità del suo linguaggio e per l’impatto che aveva sul pubblico, il teatro era considerato la forma d’arte più pericolosa e per questo quella sottomessa a maggior controllo da parte della dittatura.

Come afferma il drammaturgo e avvocato César Vieira:

Il teatro è considerato il nemico diretto, poiché parla guardando negli occhi e non solo… La violenza della repressione intellettuale ha sempre considerato il teatro il suo bersaglio favorito”.

Il governo imponeva che le opere teatrali fossero inviate a Brasilia perché venissero sottoposte ai criteri arbitrari del Dipartimento della Censura. Non veniva preso in considerazione il valore artistico, ma si intendeva esercitare un controllo su quello che sarebbe potuto diventare uno strumento di presa di coscienza della popolazione nei confronti del governo totalitario. Gli artisti venivano generalmente considerati “una classe di intellettuali, con i piedi sporchi, folli e vagabondi, che capiscono un po’ di tutto meno che di teatro”. (Generale Juvêncio Façanha, 1968).

Fu così che durante gli anni più neri della dittatura, gli intellettuali e gli artisti soffrirono duramente il peso della repressione. Centinaia di intellettuali, docenti, artisti e persone legate alla vita culturale del paese furono arrestati, costretti all’esilio e perseguitati dalla polizia e dalle forze militari e paramilitari. La censura arrivò a proibire oltre cinquecento film, quattrocento opere teatrali, duecento libri e un numero incalcolabile di produzioni musicali. Malgrado tutto ciò, negli anni 70, sorsero iniziative importanti e non soltanto rispetto ai limiti dell’epoca. Molti settori del teatro professionale resistettero alle continue censure, alla sospensione degli spettacoli, alle minacce e agli attentati, cercando soluzioni per sfuggire alle proibizioni camuffando il linguaggio attraverso l’uso di analogie, allusioni e metafore per poter presentare i loro spettacoli.

manif contra censura

Altra via di scampo era il ricorso, diventato comune, a pseudonimi con i quali i drammaturghi inviavano le loro opere alla censura di Brasilia, evitando così di essere riconosciuti e censurati in base al loro impegno politico contro il governo, prima ancora di essere letti. Altra soluzione era quella, usata spesso dai registi, di differenziare lo spettacolo realizzato davanti al pubblico da quello che veniva presentato ai funzionari della censura.

Queste forme di resistenza, fra censura, sospensioni, chiusura dei teatri, non furono però sufficienti a garantire la sopravvivenza dei gruppi teatrali che andarono perdendo poco a poco i loro finanziatori. I produttori non potevano avere mai la certezza che uno spettacolo da loro prodotto riuscisse poi ad essere montato, portato in scena, e, una volta realizzato questo primo passo, non poteva esserci certezza che la rappresentazione non venisse all’improvviso sospesa o annullata. Per le stesse ragioni anche buona parte del pubblico cominciò ad allontanarsi dal teatro. Come sostiene lo studioso del teatro Santos, “La classe media si allontanò definitivamente dal teatro, influenzata dalla campagna che il sistema dominante gli aveva montato contro, facendolo apparire un antro di perversioni, violenza e sovversione. La cosa più prudente per il potenziale spettatore era tenersi lontano dalle biglietterie”.

Una delle soluzioni adottate dai gruppi fu quella di mettere in scena opere straniere per le quali era più facile ottenere finanziamenti. Questo, naturalmente, suscitò l’opposizione degli artisti locali più importanti dell’epoca, come Gianfrancesco Gualtieri, Augusto Boal, Lauro César Muniz, ecc… che elaborarono questo manifesto:

Noi, drammaturghi brasiliani (…) denunciamo le tendenze, sempre più frequenti da parte di alcuni impresari o pseudo-impresari, che valorizzano sistematicamente, nelle loro attività professionali, l’autore straniero a detrimento dello scrittore brasiliano, trasgredendo, e usando a questi fini vari artifici, la legge n° 1.565, del 3 febbraio del 1952, (…) che stabilisce l’obbligo di rappresentazione da parte delle compagnie teatrali di opere nazionali”.

Fu in questo periodo che, al di là delle differenze esistenti, i gruppi e gli artisti si unirono per rivendicare migliori condizioni di lavoro, la liberazione dei testi, delle opere e degli artisti stessi e richiedere una regolamentazione della professione.

Tutte queste difficoltà portarono comunque a una mancanza di continuità nel lavoro, all’isolamento, al disinteresse del pubblico, a uno sperimentalismo spesso vuoto, a disprezzo della professionalità, come dichiara nel 1972 l’attore e drammaturgo Vianninha (Oduvaldo Vianna Filho, Rio de Janeiro, 04/06/1936 – 16/07/1974), al Jornal do Brasil. Una delle conseguenze fu lo scioglimento di alcuni gruppi.

Altri invLIBERDADE LIBERDADEece seppero riorganizzarsi dando vita a un teatro strutturalmente e esteticamente completamente nuovo rispetto a quello che aveva preceduto il golpe. Con la pretesa di essere i garanti della morale e dell’etica, gli organi responsabili per la censura provocarono un’interruzione della crescita estetica e drammaturgica del teatro brasiliano, impedendo nuove possibilità di maturazione artistica e rendendo impossibile il clima che la favorisse.

In contrasto con questa situazione e questi limiti gli artisti continuarono comunque a sviluppare coraggiosamente forme di resistenza rischiando e subendo, a volte, l’esilio, la tortura, l’assassinio pur di mantenere viva la loro professione.

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Nei prossimi numeri troverete approfondimenti a cura di Anna Fresu su autori, opere e ricezione del teatro brasiliano negli anni della dittatura.

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Anna Fresu_fotoANNA FRESU

Nata a la Maddalena, in Sardegna, si è laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università La Sapienza a Roma. Ha seguito numerosi corsi di teatro, tra cui il Teatro Studio, partecipando alla creazione del teatro Spaziozero. È regista, autrice, attrice di teatro, traduttrice e studiosa di letterature africane. Ha condotto numerosi laboratori teatrali nelle scuole di ogni ordine e grado. È presidente delle associazioni culturali “Il Cerchio dell’Incontro” e, fino al 2016, di “Scritti d’Africa”. Nel 1975 ha lavorato in Portogallo come mediatrice culturale nella cooperativa agricola Torrebela. Dal 1977 al 1988 ha vissuto in Mozambico dove ha insegnato e diretto la Scuola Nazionale di Teatro e creato e diretto, col regista e giornalista Mendes de Oliveira, il “Dipartimento di Cinema per l’infanzia e la gioventù” realizzando diversi film che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Il suo lavoro in Mozambico è stato premiato al Festival del Cinema per lo Sviluppo a Genazzano nel 1991. Sempre nel 1991 ha curato e tradotto dal portoghese con Joyce Lussu le poesie del poeta mozambicano José Craveirinha (Voglio essere tamburo, Centro Internazionale della Grafica, Venezia). Nel 1996 è tornata in Mozambico come collaboratrice RAI per una serie di servizi televisivi e ha realizzato un laboratorio teatrale con i “meninos da rua”, bambini-soldato e vittime della guerra. Nel 2013, ha pubblicato il suo libro di racconti “Sguardi altrove”, Vertigo Edizioni. Sue poesie e racconti sono presenti in diverse antologie. Collabora con alcune riviste on line e blog. In Argentina è stata docente di Lingua e Cultura Italiana presso la Società Dante Alighieri e l’Università di Mendoza e ha partecipato a congressi sulla letteratura italiana e  realizzato diversi spettacoli teatrali. Nel 2018 pubblica il suo più recente libro di poesie “Ponti di corda“, Temperino rosso Edizioni e ha curato l’antologia poetica “Molti nomi ha l’esilio“, Kanaga Edizioni.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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