Stralci da “L’ultima pelle” romanzo di Julio Monteiro Martins, trad. A. Piana, Lebeg 2019

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La Macchina Sognante è lieta di ospitare 2 stralci dall’ultima pubblicazione postuma in Italia del lavoro di Julio Monteiro Martins, la traduzione italiana a cura di Antonello Piana del suo romanzo scritto in portoghese, edito da Lebeg Edizioni, nella collana “I venti”.

Trama del libro

In questo romanzo Julio Monteiro Martins racconta da scrittore la perdita di una persona cara e il bisogno di cambiare pelle per andare avanti con la propria vita. La sua narrativa nasce quindi da questo dolore infinito, inimmaginabile e impossibile da eludere. L’unica via d’uscita è incorporarlo affinché ne nasca un nuovo essere, non più forte o più debole del precedente, ma necessariamente diverso. È questo il tema della prima parte dell’opera, ma molto altro succederà al protagonista nel tentativo di andare avanti contenendo la malinconia e la depressione che tolgono alla vita qualunque senso. Una fidanzata che pretende di sposarsi, una vecchia passione per la militanza ambientalista che si riaccende e il fallimento della propria casa editrice. Il tutto condizionato dal destino del Paese in cui viveva allora e dove era cresciuto: il Brasile.

 

 

p.20

 

Negli ultimi sei anni  io e mia nonna avevamo vissuto insieme, dopo che a settant’anni aveva assunto con energia il ruolo di padrona di casa lasciato vacante da mia madre (quando mia madre seppe che sarebbe morta, a quarantanove anni, era ormai sicuro che mia madre sarebbe morta, mia nonna si chiuse in camera con lei e le disse: “Và in pace, figlia mia. Mi occupo io dei ragazzi”). Da quel momento diventammo grandi amici. Chiacchieravamo tutti i giorni sui fatti quotidiani, le notizie dei giornali, i piccoli drammi intimi dei nostri conoscenti, e ricordavamo il nostro passato comune. E stata l’ultima testimone della mia infanzia, con lei è morta una fetta della mia memoria. Ho perso sostanza di vita. Sono diminuito.

La sua morte mi ha lasciato una strana sensazione di vedovanza. Ho perso la compagna, l’unica confidente. Il personaggio di Jandíra, che avevo creato per il romanzo O espaço imaginário, si ispirava al suo vigoroso misticismo, alla sua intimità col destino, alla magia della sua forza. È stato anche un omaggio che per fortuna è arrivato in tempo.

Ora l’appartamento è vuoto. Mio fratello si è trasferito a casa della sua ragazza a tempo indeterminato e penso che abbia fatto bene. Aveva bisogno di respirare un’altra aria.

Io vago per la casa come uno straniero. In un angolo del soggiorno c’è la sua sedia a dondolo, vuota e immobile. Il suo giubbino di lana è rimasto sull’attaccapanni della camera. Sono i segni della sua assenza.

I primi giorni senza di lei sono stati giorni di torpore e spossatezza. Giorni di biscotti, silenzio e acqua. Poi è sopraggiunto un sentimento misto di depressione, ansia e ipereccitazione: una specie di depressione attiva, in cui il movimento incessante e le disordinate scintille mentali cercavano di anestetizzare il dolore. Dev’essere un quadro tipico, non lo so… Tutto è un “quadro tipico”, quando la cornice è il ciclo immutabile dell’esistenza, che ci imbriglia tutti, sempre. Com’ è difficile coesistere con l’irrilevanza che determina questo ciclo… è come una maledizione proferita in qualche tragedia classica, che ci rigetta nella condizione più infima ogni volta che proviamo a sollevare le braccia verso gli dei.

La scomparsa delle persone che amiamo ci dà la cognizione esatta del fatto che stiamo solo ottemperando a un mandato biologico. E anche di qual è il punto del mandato in cui ci troviamo adesso. È necessario mantenere l’illusione che riusciremo a portarlo fino in fondo e che non andremo a sbattere in qualche punto della strada, quando invece è proprio lui a condurci insieme alle circostanze più aleatorie.

Dobbiamo sempre ricostruire tutto a partire dal nulla. A partire da un punto che non ha la partenza. Dobbiamo agire per la forza della meccanica stessa della sopravvivenza. Anche se manca il desiderio. Anche se manca il senso. Dobbiamo andare avanti a braccetto con la realtà. Andare avanti a tentoni nella nebbia. Come una locomotiva che avendo rotto i freni non si alza in volo.

 

 

 

p.26

 

 

È lunga la digestione della morte. È una digestione che avviene nell’inconscio, e non può essere anticipata né procrastinata.

Il tempo dell’inconscio non è sottomesso alle nostre misure di tempo cronologico, ma digerisce gli eventi traumatici della realtà attraverso trasformazioni simboliche, che non eliminano i traumi dalla memoria, ma alterano l’essenza simbolica dei loro significati. Queste trasformazioni sopprimono a poco a poco il carattere doloroso del ricordo.

Come nei sogni, dove i nostri fantasmi interiori assumono innumerevoli forme, appaiono in scenari del tutto inattesi e si presentano attraverso maschere così sorprendenti da trasformarsi gradualmente in altri esseri più vicini e familiari, nuove allegorie che da quel momento in poi entreranno a far parte del nostro immaginario arricchendoci, ormai spoglie delle loro fantasmagorie e dei loro orrori. L’elemento estraneo, il sentimento intruso, che in passato è stato l’immagine di un trauma brutale, viene incorporato per diventare un nostro elemento costitutivo. Sogno dopo sogno, catarsi dopo catarsi, il trauma viene diluito e comincia a scorrere nelle nostre vene. Il terrore si dilegua, ma la nostra visione del mondo viene di conseguenza definitivamente trasformata.

La morte totale dell’ altro, la morte fisica di qualcuno con cui condividiamo una profonda identità, è per noi una morte parziale. Un pezzo di quel che siamo se ne va con lui. Il resto viene trasformato e configura un nuovo essere, non so se più forte o più debole, ma comunque diverso. L’insieme si ricompone come un nuovo cristallo e mantiene la sua integrità, ma la “forma” è un’altra. Pertanto, siamo un altro. Bisogna saper aspettare le trasformazioni, che a volte richiedono mesi, a volte anni, a volte una vita intera per compiersi. E bisogna anche liberare l’inconscio, fornirlo di strumenti e opportunità per venire alla luce, per mostrarsi con il suo nuovo volto.

 

 

Immagine di copertina: Disegno di Giacomo Cuttone,

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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