La brevità è la mia misura, il bisogno di fermare l’attimo, cogliere l’essenza. È lo spirito del nostro tempo che fugge, delle comunicazioni sempre più rapide e stringate, della concentrazione necessaria per afferrare il senso di una storia: tempo di twitter, instagram, facebook; tempo breve, tempo da non perdere. Poche o nessuna descrizione, dispersione o psicologismi, si entra subito nel vivo della narrazione. Il resto, se vorrà, lo farà il lettore che potrà trovare il suo spazio, il suo diritto a continuare il racconto, a creare la propria storia.
Oltre a corrispondere alla natura stessa di chi scrive, questi racconti si inseriscono nella tradizione latinoamericana del microrrelato, genere riconosciuto e apprezzato in tutta l’America Latina, anche attraverso seminari e corsi universitari, con precedenti illustri come Borges o Cortázar o con il capostipite del genere, Augusto Monterroso e il suo “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora là” o le scrittrici cilene, con in testa Pía Barros.
Come dice Cortazar, e anche Miriam di Geronimo, docente di letteratura latinoamericana alla facoltà di Lettere e Filosofia di Mendoza in Argentina (UNCUYO), tramite il titolo di un suo lungo saggio sull’argomento, un racconto deve “UCCIDERE PER KNOCK OUT”. O anche soltanto, colpire al cuore.
(La copertina del libro riproduce un dipinto del pittore portoghese João de Azevedo, autore anche della serigrafia che accompagna il racconto “LA PRIMA VOLTA CHE LIRA VIDE IL MARE”. Per il secondo racconto “LA STAGIONE TEATRALE DEL ‘73”, ho scelto una delle tappezzerie ricamate dell’artista, cantante e compositrice cilena Violeta Parra)
Anna Fresu
LA PRIMA VOLTA CHE LIRA VIDE IL MARE
Lira era figlia di contadini poveri, senza terra, che lavoravano sotto padrone e mangiavano se ne avanzava. Per Lira, però, sua madre rimediava sempre qualcosa: se trovava un po’ di farina – magari caduta da un sacco forato – la impastava e faceva una minestrina con l’acqua e un filo d’olio quando c’era, o coglieva erbetta selvatica nei campi dove si spezzava la schiena raccogliendo pomodori, ma quelli no non poteva prenderli, nemmeno quelli passati, che il caporale aveva gli occhi dappertutto e neanche quelli passati le lasciava tenere. Una tazza di latte appena munto era davvero un lusso o se no una zuppa di pane e acqua con un poco di vino.
Comunque Lira cresceva forte e robusta con una bella faccia bianca e rossa come una mela.
Quando i genitori andavano a lavorare nei campi, Lira giocava con gli altri bambini tirando calci a una palla di stracci, lanciando qualche pietruzza nelle pozzanghere, nascondendosi dietro a un albero. Dopo un po’ si stancava e restava a guardare il cammino di terra dove a sera sarebbero tornati i grandi. Avrebbe voluto raccontare ai genitori le scoperte della giornata: un fiore appena sbocciato, un nido sul ramo di un albero, il verso di un uccello che aveva imparato a imitare; ma poi vedeva le loro facce tristi e stanche e si rifugiava in silenzio in un angolo della cucina.
Un giorno però tutto cambiò. Sullo spiazzo davanti alla grande casa del padrone – quella casa in cui non era mai entrata e quel padrone che non aveva mai visto – si era riunita tantissima gente, contadini che ancora non conosceva, arrivati dalle altre fincas della zona. E c’erano camion, bandiere e canti e sorrisi.
Da allora anche il padre e la madre andavano al lavoro e tornavano sudati ma col sorriso sulle labbra. E sulla tavola apparvero i pomodori, l’insalata e quella volta che era piovuto tanto e tutto era pieno di fango e una mucca ci aveva perso la vita “affinché la sua morte non fosse stata invano”, gli uomini la macellarono e per giorni ci fu carne per tutti.
E una domenica decisero che potevano regalarsi una festa. Salirono tutti sul rimorchio: gli uomini e le donne, i bambini e le bambine, gli uomini con le camicie bianche e gialle, le donne con il fazzoletto in testa con sopra il cappello e i vestiti scuri puliti e qualche ragazza aveva anche osato tirar fuori un vestitino a colori; e portavano pane, lardo, cetrioli, pesche e albicocche che Lira sapeva che esistevano ma non aveva mai visto; e bottiglioni, fiaschi con l’acqua e un vino rosato. Tutti erano allegri, scherzavano e cantavano. Erano partiti poco dopo l’alba sotto un cielo perlato spennellato di rosa e oro. Lira non sapeva dove stessero andando ma era contenta lo stesso. Il viaggio non durò poi tanto e Lira capì che erano arrivati quando all’improvviso si fece silenzio, tacquero le risa e anche i canti e tutti guardavano nella stessa direzione. Davanti ai loro occhi una distesa di terra bianca – di sabbia, spiaggia qualcuno la chiamò – e al di là un lenzuolo d’argento, verde e azzurro che ogni tanto si muoveva, si sollevava, formava delle creste di spuma. Scesero piano piano, per non spezzare l’incanto e lentamente entrarono nell’acqua, così com’erano vestiti. Lira si ricordò una canzone che la mamma cantava “Ao passar a ribeirinha/ pus o pé/ molhei a meia…”. E quello non era un fiumiciattolo, c’era molta più acqua. Lira si tolse le scarpe, le calze – per non bagnarle, certo – e entrò. L’acqua era fredda ed era proprio una sensazione nuova, piacevolissima, sentirsela tutta intorno.
Fu quella la volta che Lira si innamorò del mare.
LA STAGIONE TEATRALE DEL ‘73
Erano anni gloriosi, quelli. Finalmente si respirava democrazia, libertà. Anche noi artisti, teatranti come me, eravamo pieni di entusiasmo, ci sentivamo coinvolti in quel cambiamento straordinario che ci vedeva tutti protagonisti. Ci riunivamo per strada con gli operai, gli studenti, le casalinghe e mettevamo in scena l’allegria. Con il mio gruppo portavamo i nostri spettacoli nelle fabbriche, nelle scuole, nelle piazze. Molti erano quelli che non si accontentavano di far da spettatori ma partecipavano alle discussioni, alla creazione degli spettacoli. Tutti eravamo artisti, tutti avevamo qualcosa da dire.
Da qualche mese, poi, ci avevano anche messo a disposizione un galpón, un vecchio capannone fuori uso. Lavorando tutti insieme con la gente del quartiere a un passo dal Palazzo de la Moneda, l’avevamo sistemato proprio bene. Avevamo creato uno spazio centrale con delle gradinate intorno e corridoi perché non ci fosse separazione fra pubblico e platea e la comunicazione fosse davvero circolare. La facciata l’avevamo dipinta di rosso, blu e bianco, con i colori della nostra bandiera perché tutti, in quel momento, eravamo orgogliosi di essere Cileni. Insieme avevamo elaborato le proposte per gli spettacoli e montato una vera stagione teatrale.
In un clima di festa attendevamo l’11 settembre, la data fissata per il debutto.
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Racconti tratti da: Anna Fresu, STORIE DI UN TEMPO BREVE (… anzi brevissimo), MACABOR Editore, Francavilla Marittima, 2020.
ANNA FRESU
Nata a la Maddalena, in Sardegna, si è laureata in Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. È regista, autrice, attrice di teatro, traduttrice e studiosa di letterature africane. Nel 1975 ha lavorato in Portogallo come mediatrice culturale. Dal 1977 al 1988 ha vissuto in Mozambico dove ha insegnato e diretto la Scuola Nazionale di Teatro e creato e codiretto il Dipartimento di Cinema per l’infanzia e la gioventù, realizzando diversi film che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Nel 2013 ha pubblicato il libro di racconti Sguardi altrove, Vertigo Edizioni e nel 2018 il libro di poesie Ponti di corda, Temperino Rosso Edizioni. Nel 2019 ha curato per la Kanaga edizioni l’antologia Molti nomi ha l’esilio e nel 2020 ha pubblicato con Macabor editore il libro di racconti Storie di un tempo breve (… anzi, brevissimo). Sue poesie, racconti e fiabe sono presenti in diverse antologie. Collabora con riviste on line e blog. In Argentina ha insegnato Lingua e Cultura Italiana e realizzato diversi spettacoli teatrali. Vive attualmente a Forlì.