Storie di disperata speranza – Guergana Radeva

DSCF2952gc

 

Nasib corre. Nel buio, alla cieca. Con un orecchio ascolta i passi dei compagni, bisbigli, fiato spezzato, con l’altro capta i segnali del bosco perché la natura si accorge prima degli uomini di ciò che sta per accadere. E Nasib deve essere veloce per riuscire a cambiare il futuro. Stavolta, se Dio vuole…

Aspettavano da tempo una notte senza luna. La pioggia lava via le orme, confonde rumori, sentieri, frontiere… e quando Nasib inciampa e cade, non batte la faccia nel marciume del confine serbo-croato, ma sente in bocca la polvere del natio Pakistan. La bicicletta piegata in modo innaturale, e anche le braccia del fratellino, come ali rotte. Negli occhi spalancati un cielo deserto, orfano di uccelli. Perché la natura è accorta e gli uccelli sono volati via al primo echeggiar dei fucili. Il piccolo Jadali, invece, è rimasto nella polvere. Anche se gli spari erano per Nasib. I talebani lo avevano avvertito: Lascia la scuola, va alla madrasa, fatti crescere la barba!

A quindici anni Nasib non aveva una barba. Studiava per non dover fare il muratore come il padre,  gettato nella jeep e portato sulle montagne afgane per erigere muraglie attorno alle grotte delle armi. Quando riuscì a scappare, i talebani spararono ai suoi figli.

Nasib si alza, strofina il volto, non per pulirlo ma per spalmare meglio il fango. Nero notte, invisibile. Come i ragazzi al Pedion Areos park di Atene. I passanti, le guardie, gli spazzini coi  sacchi di cartacce, siringhe e preservativi, non si accorgevano di loro. Ma gli uomini che si aggiravano fra le statue di marmo guardavano con insistenza, valutavano, contrattavano. Venti, dieci, cinque euro, un pacchetto di sigarette. Coppie appartate dietro le palme. Giovani afgani, pakistani, siriani. Dicevano tutti di chiamarsi Ali, avevano tutti fame.

Atterrito, Nasib si era rifugiato nel vecchio villaggio olimpico di Ellinikon ad aspettare la telefonata dello smuggler. A differenza dei ragazzi del parco, e anche di Jameel che con triste orgoglio raccontava di aver percorso a piedi 5854 chilometri, Nasib poteva pagarsi il passaggio con il denaro che suo padre aveva messo da parte anno dopo anno, mattone dopo mattone. Doveva servire per l’istruzione dei figli, invece stava finendo nelle mani dei trafficanti di uomini. La nave da Pakistan all’Iran, il camion attraverso la Turchia, la barca per il Pireo. Poi Macedonia, Bulgaria, Serbia. In tasca l’indirizzo di un lontano cugino. La meta sempre più vicina.

Finché l’Europa non aveva sbattuto le porte in faccia agli ultimi arrivati.

E ora, mentre si fa strada nell’oscurità dei rovi, graffiante come la nostalgia di casa, fradicio, senza un centesimo in tasca, Nasib rimpiange gli hangar sporchi dell’aeroporto abbandonato di Ellinikon. La saggezza, presa per pusillanimità, di Jameel che dopo anni di clandestinità in Grecia, stava per rientrare in Kashmir con l’aiuto di un’organizzazione umanitaria. Era partito appena sposato, Jameel, da sette anni non vedeva la giovane moglie. Una volta tornato avrebbe comprato delle capre, messo su una fattoria e fatto tanti figli. Sogni di poco conto, aveva giudicato Nasib, proiettato verso l’agiato futuro europeo, ma ora pensa a Nilab e il suo cuore stilla miele amaro. Soltanto quando ha conosciuto Nilab, ha capito che si poteva essere felici anche in mezzo al nulla, in una misera tendopoli lungo la E70. L’autostrada che attraversava due continenti, dieci nazioni e un mare, ma per quelli come lui non portava da nessuna parte.

Nel campo profughi di Adaševci Nasib aveva trascorso giusto il tempo per capire come muoversi e trovare un joker, così chiamavano i tassisti disposti a trasportare clandestini oltre confine. Per duecento euro l’autista lo aveva portato al di là della frontiera e scaricato dritto nelle mani della polizia croata. Ore dopo era riuscito a trascinarsi indietro e una famiglia afgana si era presa cura di lui. Gli diedero acqua e gli medicarono le ferite, senza fare domande. Gli era stato tolto tutto: denaro, orologio, cellulare. L’orgoglio, ma non la speranza. Era uno di loro.

Nilab era la maggiore dei dieci figli dei Hussiny. Aveva occhi ombrosi, difficili da incrociare, sempre china, indaffarata coi fratellini. In sua presenza Nasib arrossiva, non sapeva dove posare lo sguardo, come tenere le mani. Era l’allegria di una delle sorelline, Madina, a trarlo d’impaccio. La bambina non stava mai ferma, lo sommergeva di domande, rideva e cantava, non solo in pashtu, ma anche in greco, serbo, persino in italiano, ritornelli imparati dalle volontarie ambrosiane nel campo di Bogovadja.

Tutte le scimiette

in fila per sette

ballan il ciarleston…

In sei anni di vita Madina aveva vissuto in sette paesi diversi e le sue filastrocche multilingue erano un ponte allegro verso il mondo. Perché lei si fidava. Era cittadina del mondo e il mondo era una girandola variopinta dentro di lei.

Il fischio di un treno vibra nella quiete del bosco e trafigge la corsa di Nasib. Il suo corpo trema, si raggomitola dietro un tronco crepato. Mani sul volto, sopra la testa, cerca di proteggersi dai pugni. Gli insulti e i calci dei militanti di Alba Dorata nel vicolo di Atene. Le manganellate della polizia bulgara, serba, croata. Gli stivali militari nei reni, sopra gli occhiali caduti per terra. I polmoni bruciano nell’affannosa sete d’ossigeno, nascosto insieme agli altri nella cella del camion frigo, non riesce a respirare. Perde i sensi, credendo di morire. Il sudore freddo rende la pelle simile a quella di un rettile. Oppure di un cadavere. Dagli occhi spalancati verso un cielo deserto. Grandi, neri, infantili, gli occhi di Jadali, gli occhi di Madina…

C’era la brina quel giorno di novembre, se avessero aspettato ancora, sarebbe arrivata la neve. Muslima Hussiny si era fatta forza ed era partita insieme ai figli. Dopo ore di accidentato cammino, si erano lasciati la frontiera alle spalle. Ma la speranza di poter chiedere asilo in terra UE si era affievolita durante l’attesa al commissariato ed era morta nel cuore gelato della notte quando i poliziotti croati avevano ordinato alla famiglia di incamminarsi sulla linea ferroviaria  Šid – Tovarnik per far ritorno in Serbia.

Una fila di bambini esausti che procede a tentoni lungo i binari.

Il fischio tardivo di un treno.

L’urto.

L’urlo.

Grido di civetta nell’oscurità.

Quattro bottiglie d’acqua per il lavaggio rituale del piccolo corpo di Madina. Un funerale senza cerimonia religiosa. Cumulo di terra ghiacciata ai limiti del cimitero in una città straniera. Mentre il mondo continuava a girare. Indifferente, scolorito.

Si spense la luce negli occhi di Nilab. A testa china, i Hussiny si incamminarono indietro, verso Belgrado. Nisab rimase. Aveva fatto una promessa a sua madre. Doveva pensare al futuro delle sorelle.

Si unì agli altri disperati nella boscaglia di Šid. Decine, forse centinaia, senza un riparo, senza viveri. Si lavavano nel fiume. Mangiavano quando il furgoncino bianco di No Name Kitchen portava contenitori di cibo in un rudere vicino. I volontari erano l’ultimo legame rimasto con il mondo.

A dicembre il passaparola aveva riacceso la speranza. Il giorno di Natale, insieme ai rifugiati giunti apposta dai campi serbi, manifestarono sul confine croato. Uomini, donne, bambini, pacificamente, davanti al cordone di militari in tenuta antisommossa.

Sperando in che cosa? Che a Natale sono tutti più buoni? Più generosi?

Il 2018 li colse a tremare nel bosco.

In the Jungle.Going Game.

Nel loro inglese stentato i ragazzi parlano della traversata come di un gioco. Non cura la depressione, gli attacchi di panico, la nostalgia, però aiuta a rattoppare l’identità perduta lungo il viaggio, a fabbricarne un surrogato. Dopo ogni sconfitta offre l’illusione di possedere molteplici vite. Energia che si ricarica. Ancora e ancora…

E allora non ti resta che tendere le mani verso l’effimero calore della legna bagnata e gettare nel fuoco il volantino che parla di quarantamila mine inesplose, sparse nei boschi che intendi percorrere. Dire una preghiera al tuo Dio, sperando che sia la volta buona. Raccogliere le poche cose nello zaino. Giubbotto lacero, scarpe bagnate. Occhiali riparati con lo scotch. Attraverso le lenti rotte il mondo come una pizza a spicchi dietro una vetrina blindata.

Fame contro sazietà.

In un istante di lucidità ti domandi perché tutto deve essere così distorto? Ingannevole. Ingiusto. Poi ogni pensiero razionale annega nella pioggia e nell’oscurità.

Stanco, affamato, infreddolito.

Smarrito.

Nel cuore di Europa, corri!

 

Per Nasib Khan e il suo fratellino, ucciso dai talebani in Pakistan, mentre pedalava sulla sua bici.

Per la piccola Madina Hussiny, travolta da un convoglio sulla linea ferroviaria Šid-Tovarnik la notte del 21 novembre 2017, dopo essere stata respinta dalla polizia di frontiera croata.

Per Jameel Muhammad, i ragazzi del Pedion Areos park e i ragazzi di the Jungle.

Per i migliaia di profughi intrappolati da due anni nei Balcani senza via d’uscita.

 

Quando nel’92, con soli venti dollari in tasca, sono partita dalla Bulgaria verso l’Italia, non potevo immaginare che venticinque anni dopo, lungo la stessa rotta Balcanica, avrei seguito nuove storie di disperata speranza, come fili di Arianna che attraversano la caverna del male in perpetua ricerca di luce.

 

Šid, febbraio 2018

 

295046_3752503304240_1492323797_n

Guergana Radeva è nata in Bulgaria nel marzo del ’67. Laureata in Ingegneria elettronica all’Università tecnica di Sofia, vive in Italia dal ’92. Ha pubblicato i romanzi Amalgrab ovvero lo specchio delle brame, Michele Di Salvo Editore 2007; Amalgrammer, Ed. Akkuaria 2012 e Rosa canina, Ed. Progetto Cultura 2014. Altri suoi scritti sono stati inclusi in antologie di narrativa e poesia.

 

 

 

 

 

immagine in evidenza: Tessuto ricamato realizzato dall’artista iraniano Seyed Moktaba Vahedi.

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

Pagina archivio del macchinista