Storia e guerre del mio popolo (Ferreira Gullar)

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Per ricordare Ferreira Gullar, considerato tra i più grandi poeti del Brasile contemporaneo, scomparso il 4 dicembre 2016, riprendiamo uno dei suoi scritti selezionati diversi anni fa da Julio Monteiro Martins  e pubblicati su Sagarana.

 STORIA E GUERRE DEL MIO POPOLO


Ferreira Gullar

 

Accanto alla vecchia staccionata crescevano le erbacce come un incendio, di fuoco morbido e feroce: l’ intero cortile era illuminato dal chiarore delle foglie, tra le quali passavano le galline, come grifoni di oggi, trascinando vive, sotto una domesticità quotidiana, le furie della propria origine. Famiglia di distratti, la nostra. Il cortile era un inferno che ardeva in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti, e noi non lo sapevamo.
Nello sfarzo diurno dell’ estate, i fiori accesi nell’ aria, rossi e neri, e un rituale che attraversava le notti, non mi lasciava dormire. Mi svegliavo, mi alzavo e andavo alla festa di silenzio e luce. Insetti azzurri mangiucchiavano le foglie; una tensione quasi insopportabile di sacrificio e barbarie. Ogni essere, ogni pianta o animale, ronzava nella sua combustione solitaria ma felice, e sotto il carbone si sentivano i gorgheggi di un’ unica e allucinante allegria. In seguito, iniziava la metamorfosi dei colori e dei movimenti: tutto emanava un calore estremamente puro, che si alzava subito all’ alba come colonne in cui il sole si frantumava.
Nei pomeriggi, sdraiato sulla mia amaca, e il mio odore, il profumo maledetto dei venti intestinali, della bava della fame, del sesso trasudato da ogni parte del corpo, che il cotone custodiva e diffondeva in continuazione come un lume nella tranquillità della casa; già allora sapevo quello che diceva la Storia, e l’ ascoltavo, divorato dalle formiche, le belve della sera nate dal midollo di ogni fiore, portatrici del proprio fuoco iniziale, paglia nelle proprie ali, diaspro nel gancio della sua meccanica mezzo vegetale, mezzo algebrica. Le pieghe della mia pancia erano luminose perché stavo diventando un animale d’ oro.
In aprile, il sole aperto sulle corolle dell’ inferno, gli aromi furiosi, ardenti mi bruciavano il viso, i capelli. Ogni stelo di vetro reggeva un fascio dove la vita scoppiava impazzita, suicida, vera. Il corpo di Ranara, bianco, si intravedeva tra la vegetazione, nell’ amalgama delle sue risa, e lo scintillio dei denti che si indovinava dalla terra. Vedevo il vento e pensavo ai suoi frutteti, dove soffiava. Le parole, che un giorno le cose mi avrebbero richiesto, si muovevano, pura materia calcica, sotto la mia epidermide. La gioia della sua evidenza saliva come un brodo fino alla mia gola, mi stringeva le ghiandole. La voce di mia madre risuonava da molti secoli nella casa, nelle stanze dei morti, e io cominciavo a singhiozzare fissando questo giardino di furie. Il funzionamento del cortile, le banderuole, la cosmogonia, la botanica, non mi interessavano più. La mia testa pendeva fino alla polvere più intima, le formiche salivano, verso i miei occhi, mi invadevano dalle orecchie, dalle unghie, rodevano e bucherellavano le mie dita.
La voce di mia madre penzolava ora impigliata nelle ragnatele, nell’ alto di ogni tetto con solaio, nelle stanze vuote, la sua voce, invecchiata dal tanto chiamarmi, imprigionata come una mosca. I ragni arrivavano e cominciavano a divorarla: le loro bocchine si doravano nel luminoso lavorio di consumare il verbo affettivo, l’ amore materno, puro verbalismo.
Il corpo di mo padre, steso sul pavimento, marciva e si disintegrava in milioni si soli minuscoli.
Arrivò l’ inverno: le acque cadevano troppo vecchie per quel tempo, come lingue di chiarore sui vetri; e i soli lì, nella polvere, esatti e impersonali. Tra loro, qualche dente rimasto immune all’ alchimia. Nel cortile, la pioggia inzuppava il mio corpo; gli uccelli sbattevano le ali quasi senza rumore, in quella notte di temporale. Tra i fili traslucidi di quell’ inverno inaspettato, ogni foglia, ogni fiore, sosteneva la sua bellezza. Io ridevo, guardandoli. Mi vendicavo della mia luce così precaria, del mio corpo di ossa bruciacchiate. Le acque scavavano quella notte, facendola sempre più profonda, di tenebre. Pensavo a quell’ acqua che inondava il contorno del pianeta, e cadeva nell’ abisso cosmico in movimento. Le gocce incessanti mi riempivano la bocca spalancata, cantavano nella mia gola come in una brocca, e scorrevano dagli angoli come se io veramente ridessi.Dopo quella stagione, il sole arrivò torrido. Un vento aspro e insistente sollevava la polvere da terra. Il cortile, deserto di ogni forma di vita – né piante né galline -, sembrava disfarsi ad ogni soffio del vento maledetto. I miei vestiti, incollati al suolo, si consumarono, si confusero nella terra: la mia pelle cominciò a sgretolarsi come carta rinsecchita. Demoni diurni, con le loro vesti di vetro, passavano ridendo fragorosamente per il cortile, e ad una velocità allucinante. Uccelli strani iniziarono ad apparire, sempre a mezzogiorno, grossi e rossi, puzzando di angelo, si posavano sulla terra assolata del cortile, e cominciavano a rodere i petali assassinati, le foglie defunte, il cui brillio e profumo avevano bevuto loro stesse fino all’ ultima goccia, prima di arrendersi a quello sterminio. Nel frattempo, il mio corpo marcio e rinsecchito si fondeva con la terra. Più tardi, il vento soffiava libero nello stesso luogo dove stavano le mie ossa. Le stesse ossa che erano già diventate il vento che soffiava lì. Gli uccelli rossi si impadronirono del cortile. In quel campo di aridità vivevano e si amavano. Il loro canto terribile, a poco a poco, demoliva la nostra casa. Non ci fu più né pioggia né notte. Nel profondo di quella terra, però, la mia immaginazione si organizza, prepara un’ invasione e una strage generale. Forse ci vorrà molto tempo, forse mi scoccerò e non farò niente. Ma, per il momento, questa è la verità.


L’originale in Portoghese:

HISTÓRIA E GUERRAS DE MEU POVO


Junto à cerca velha cresciam as ervas como um incêndio, de fogo macio e feroz: todo o quintal era iluminado pelo clarão das folhas, entre as quais passavam as galinhas, como grifos de hoje, arrastando vivas, debaixo de uma domesticidade cotidiana, as fúrias de sua origem. Família de destraídos, a nossa. O quintal era um inferno ardendo em pleno dia, à vista de todos, e não o sabíamos.
Na pompa diurna de cada verão, as flores acesas no ar, vermelhas e negras, e um ritual que atravessava as noites, não me deixava dormir. Eu acordava, erguia-me, vinha para a festa silenciosa e feérica. Insetos azuis roíam as folhas; uma tensão quase insoportável de sacrifícios e barbárie. Cada ser, cada planta ou bicho, zunia na sua combustão solitária, mas feliz, e sob o carvão se ouviam os gorgeios da única e alucinante alegria. Depois, principiava a metamorfose das cores e dos movimentos, tudo jorrando de si uma claridade extremamente pura, erguida logo ao amanhecer como colunas onde o sol se esfacelava.
Nas tardes, deitado em minha rede, e o meu cheiro, o perfume maldito dos ventos intestinais, da baba da fome, do sexo porejado por todas as partes do corpo, que o algodão guardava e expunha permanentemente como um lume na tranqüilidade da casa; já então eu conhecia o que dizia a História, e a ouvia, devorado pelos formigões, as feras vesperais nascidas do miolo de cada flor, condutoras do próprio fogo inicial, palha em suas asas, jaspe no guincho de sua mecânica meio vegetal, meio algébrica. As dobras de meu abdômen eram luminosas porque eu me ia tornando um bicho de ouro.
Em abril, o sol aberto sobre as corolas do inferno, os aromas furiosos, ardentes, queimavam-me o rosto, os cabelos. Cada haste de vidro segurando um facho onde a vida rebentava desvairada, suicida, verdadeira. O corpo de Ranara, branco, era visto nos claros da vegetação, na mistura de seu riso, e o brilho dos dentes que se adivinhava dentro da terra. Eu via o vento, e pensava nos seus pomares, donde ele soprava. As palavras, que um dia as coisas reclamariam de mim, moviam-se, pura matéria cálcica, sob minha epiderme. A alegria de sua evidência subia como um caldo até minha garganta, engatava-me nos gânglios. A voz de minha mãe soava há muito séculos dentro da casa, nos aposentos dos mortos, e eu começava a soluçar fitando esse jardim de fúrias. O funcionamento do quintal, as flâmulas, a cosmogonia, a botânica, já não me divertiam. Minha cabeça pendia até o pó ínfimo, as formigas subiam, para os meus olhos, invadiam-me pelos ouvidos, pelas unhas, roíam e brocavam os meus dedos.
A voz de minha mãe balançava agora presa nas teias de aranha, no alto de cada teto com forro, nos aposentos vazios, a sua voz, envelhecida de me gritar, aprisionada como uma mosca. As aranhas vinham e começavam a devorá-la: suas boquinhas douravam-se no trabalho luminoso de consumir o verbo afetivo, o amor materno, puro verbalismo.
O corpo de meu pai estendido no assoalho apodreceu e desintegrou-se em milhões de sóis minúsculos.
Veio o inverno: as águas desciam muito velhas para aquile tempo, como línguas de claridade pelas vidraças; e os sóis ali, na poeira, exatos e impessoais. Entre eles, alguns dentes que não lograram a alquimia. Lá no quintal a chuva ensopava meu corpo; os pássaros moviam quase sem rumor as asas, naquela noite de temporal. Entre os fios translúcidos daquele inverno inesperado, cada folha, cada flor, sustinha a sua beleza. Eu ria, espiando-as. Eu me vingava de minha luz tão precária, de meu corpo de ossos chamuscados. As águas iam cavando aquela noite, fazendo-a mais e mais funda, de ténebras. Pensava naquela água jorrando pelo contorno do planeta, caindo no abismo astral e móvel. As gotas sucessivas enchiam-me a boca escancarada, cantavam na minha garganta como dentro de uma bilha, e se derramavam pelos cantos como se eu realmente risse.
Depois dessa estação, o sol veio tórrido. Uma ventania áspera e insistente voava com o poeirame do chão. O quintal, deserto de toda vida – nem as plantas ne mas galinhas -, paremia se desfazer a cada sopro do vento maldito. As roupas de meu corpo, coladas no chão, poíram-se, perderam-se na terra: minha pele começou a se partir como papel ressequido. Demônios diurnos, com suas vestes de vidro, passavam gargalhando sobre o quintal, e numa rapidez alucinante. Pássaros estranhos deram de aparecer, ao meio-dia sempre, vermelhos e grandes, fedendo a anjo, pousavam no chão assolado do quintal, e começavam a roer as pétalas assassinadas, as folhas defuntas, cujo brilho e perfume elas mesmas beberam até a derradeira gota, antes de se renderem àquele extermínio. Enquanto isso, meu corpo podre e ressequido ia se fundindo à terra. Mais tarde o vento passava livre pelo lugar onde estiverai meus ossos. Mesmos ossos que eram já o vento que corria ali. Os pássaros vermelhos se assenhorearam do quintal. Naquele campo de aridez viviam e se amavam. Seu canto terrível foi aos poucos demolindo nossa casa. Não houve mais chuva nem noite. No fundo daquela terra, porém, minha imaginação se reorganiza, prepara uma invasão e um morticínio geral. Talvez demore muito, talvez eu me aborreça e não faça nada. Mas, no momento, esta é a verdade.




(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi allievi dell’Università di Pisa Sara Barboni, Serena Benassi, Milena Bertelli, Ilaria Biagi, Barbara De Cagna, Elisa Del Cesta, Angela Masotti, Aurora Simoni.)

 


 Ferreira Gullar è probabilmente il più importante poeta brasiliano vivente.

 

 

Ferreira Gullar, nome d’arte di José Ribamar Ferreira, è uno dei più significativi poeti brasiliani contemporanei. È nato a São Luís, capitale dello Stato del Maranhão, nel Nord-est del Brasile, il 10 settembre 1930. Primo di otto figli, vive l’infanzia ribelle di chi mal sopporta la rigida disciplina delle scuole di allora. Innamorato di Terezinha, senza amici, si dedica alla lettura di libri alla Biblioteca Comunale ed a scrivere poesie. Nel 1945 scrive un testo sul “Giorno del Lavoro” per cui riceve elogi ma non ottiene il punteggio massimo a causa di gravi errori grammaticali; pertanto inizia a dedicare una gran parte del tempo allo studio della grammatica. Si trasferisce a Rio de Janeiro nel 1951, lavorando per la Revista do Instituto de Aposentadoria e Pensão do Comércio. Vive per molto tempo a Rio de Janeiro, città che è spesso sostanza e scenario di molti dei suoi testi, soprattutto negli ultimi libri. Nel 1954, sposa l’attrice Teresa Aragona, con la quale ha avuto tre figli: Paulo, Luciana e Marcos. È nominato nel 1961 direttore della Fondazione Culturale di Brasilia. Viene incaricato di dirigere il progetto del Museo di arte popolare e di iniziare la costruzione. Rimane in carica fino alla fine di ottobre del ’61. Ferreira Gullar pensa che la letteratura sia un mezzo per incidere sulla realtà. Ha cercato di captare nella poesia la forza e la vibrazione della vita. Questo impegno per cambiare la società lo porta, nel 1964, ad affiliarsi al Partito Comunista Brasiliano. In seguito, nel 1968, verrà arrestato insieme a tanti altri intellettuali e artisti, quali Caetano Veloso e Gilberto Gil. Sono gli anni più bui della dittatura brasiliana e il poeta si vede costretto all’esilio, dal 1971 al 1977, periodo in cui vivrà in diversi paesi dell’America Latina, quali Cile, Argentina e Perú. Scrive a Buenos Aires una delle sue opere più belle e struggenti, un poema-fiume che erompe dalla solitudine e dal dolore che lo riportano alla terra natale, São Luís, alle strade, alle case, agli amici, al mondo che credeva perduto e che la memoria ricompone in un momento di precarietà della vita. Ritorna in Brasile nel 1977. Nel 1984, ha ricevuto il titolo di “Cittadino Fluminense”, e nell’Assemblea legislativa di Rio presenta il progetto “Educação e desenvolvimento creativo de transformação sócio-cultural” in apertura del 25º Congresso Mondiale per l’educazione all’arte, tenutosi presso l’Università dello Stato di Rio de Janeiro.

Con la traduzione di “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand, pubblicata nel 1985, vince il premio “Moliere”. Nel 1987 pubblica “Barulhos”; due anni dopo, i “Saggi sulla cultura brasiliana” e “La questione dell’avanguardia nei paesi in via di sviluppo”, nel libro “Indagações de hoje.” “A Estranha vida banal”, una collezione di 47 cronache scritte per “O Pasquim” e “Jornal do Brasil”, viene pubblicato nel 1990. Viene nominato direttore dell’Istituto Brasiliano di Arte e Cultura (IBAC) nel 1992. Lancia nel 1993 “Argomenti contro la morte dell’arte” che provoca polemiche tra gli artisti. Nel 1994 muore a Rio la moglie Teresa Aragona. Tematiche ricorrenti nella sua opera sono la riflessione sulla genesi della poesia e sulla corrosione del tempo che sottomette gli esseri al dolore e alla morte. È un poeta concreto e metafisico, quotidiano ed esistenziale allo stesso tempo. La realtà lo sollecita e questa realtà è la sua materia poetica. Non può concepire la poesia avulsa dal contesto, la parola immateriale, la teoria asettica. Ciononostante, la sua è una parola depurata ed essenziale, contraria ad ogni retorica, come lo è l’uomo e l’intellettuale. L’arte è un’esperienza estetica ed al poeta sono richieste, oltre che sensibilità, esperienza e maturità interiore, elaborazione e dominio del linguaggio. Gullar plasma il linguaggio, lo rende vivo, agile e flessibile, capace di metamorfosi, capace di incorporare i ritmi e i registri più diversi, dal sublime al quotidiano e popolare.

In questi quasi sessant’anni di poesia Ferreira Gullar afferma di non aver mai scritto un verso che non avesse sentito come assolutamente necessario. Forse proprio questa sua carica di vitalità e schiettezza, nonché la qualità estetica della sua opera, hanno fatto di lui uno dei poeti brasiliani contemporanei più amati e letti, anche dai più giovani. Egli non si nega, non si sottrae alla vita e agli uomini del suo tempo: spigoloso e contundente, partecipa con generosità a conferenze e incontri in tutto il paese in cui ribadisce che la poesia è una forma di resistenza, sempre più necessaria, contro la massificazione che cancella le identità e riduce l’uomo a merce in questa società del consumo.

 

Foto  on evidenza di Simbala Desilles.

Foto nel testo per gentile concessione di Sagarana.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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