Stagioni scalene è la terza raccolta poetica pubblicata da Edoardo Olmi, già noto ai lettori di LMS per la precedente R:exist-tance (Ensemble 2017) recensito nel nostro numero 15 del luglio 2019. Diversi sono gli elementi di continuità, e diverse sono le discontinuità di questo nuovo lavoro che evidenzia un percorso di ulteriore maturazione dell’autore. Le “stagioni” sono qui da leggersi nelle loro molteplici accezioni: non tanto come stagioni dell’anno solare che si susseguono con le loro peculiari caratteristiche paesaggistiche o meteorologiche, qui ridotte al minimo, ma in quanto stagioni di vita, momenti esistenziali a tutto tondo che comprendono la lotta politica, gli accadimenti sessuali e affettivi (questi ultimi restano in secondo piano) e l’emotività acuta dello sguardo dell’autore su un mondo destrutturato e incattivito in ogni aspetto della coesistenza sociale.
Olmi sovverte anche il susseguirsi temporali delle “stagioni”, in quanto come dichiarato dallo stesso autore nella esaustiva prefazione di Antonella Sarti Evans, la sincronicità spazio temporale è uno degli elementi portanti dell’opera. Sincronicità che riguarda sia le singole sezioni, sia i componimenti in esse contenuti, scritti dal 2015 a tutto il 2020.
L’autore attraverso la frammentazione del verso, l’abbandono della maiuscola dopo il punto e capo e l’uso di un linguaggio tecnico – informatico – economico con numerosi prestiti dall’inglese (post-truth society, breaking news, touch-screen, music awards …) e dal parlato comune (twittare, linkato …) intende rappresentare dei fotogrammi di una realtà sociale ed esistenziale non più configuarabile dentro a un ordito di senso, dentro allo sviluppo di una trama civile. La contemporaneità di azioni e situazioni simultanee tra loro irrelate, ha lo scopo di disorientare e mettere alle corde il lettore per costringerlo ad accettare di entrare nelle pagine della raccolta senza boe di senso o punti fermi di riferimento.
Allora la vita diviene uno sminuzzamento di attimi a sé stante, un susseguirsi di click sulla tastiera del p.c., che spesso non ci si rende conto di vivere, ma di essere sopravvissuti alla meno peggio al dileguarsi del Logo che al principio si fece parola in mezzo al consorzio umano ed ora è scappato lontano dalle nostre nevrosi e dalle nostre patologie sempre più numerose e profonde.
La raccolta si apre con Primavere che contiene al suo interno il primo testo della raccolta dicerie degli untori, che precede le due sotto sezioni: MODERNITA’ IN POLVERE e ROMA NASONA, quest’ultima relativa agli anni di vita romana dell’autore (tra il 2011 e il 2015). dicerie degli untori è un testo “pandemico” dove lo sguardo sulla società malata viene snudato definitamente dal Covid-19 che porta a galla le contraddizioni e le assurdità del nostro sistema sociale.
(Foto dell’autore)
dicerie degli untori
FASE 1 DI
siamo banditi del progresso,
malati terminali in una civiltà
dove i droni annunciano equinozi di primavera
la fuga di Olympia in diretta da Barbara D’Urso
per applicare la sharia della sanità
agli spazi liberati del toccare.
mendichiamo un’ora d’aria di libertà
al sacramento dell’#iorestoacasa;
contrabbandiamo sguardi e passeggiate con il cane.
ipocondriaci per Dpcm/
immunodepressi
nel difendere la vita ed i più deboli
col distanziamento sociale delle (r)esistenze
– dentro la Wuhan della Bassa Padana
Golia che si è arresa ad un millesimo di micron –
indossiamo le inferriate
evitando di inalare moscerini;
nel giro del cortile
in cinquantaquattro giorni.
rimandiamo a fine anno la guerriglia partigiana,
raccontandoci che niente
sarà più come prima.
eppure le stagioni sfrigolano
i tassi corrono veloci lungo via Pietrapiana,
delfini vanno a caccia attorno al Lido di Venezia.
orsi che sgambettano sul passo del Tonale;
ippopotami nei resort
fra le spiagge dell’oceano indiano.
il mondo si è preso qualche anno sabbatico;
la scienza ci riduce a particelle di particolato
negli spasmi interstiziali della modernità.
FASE 2 DI
i rave in equilibrio sull’elastico
le feste di laurea sulle piste ciclabili –
sgomitando affetti stabili di secondo grado
rimasti troppo tempo senza aperitivo sui Navigli.
assembramenti dei rider
al protocollo per le attività economiche (già) essenziali;
ma chi dai primi giorni a mala pena ti scansava
adesso fa lo yoga in fila al supermercato.
pane e coperto servito sotto i portici
nel masticare un senso di horror vacui,
fra i Cuba libre offerti alla municipale
nella movida a prova di aerosol.
e schermi piatti con le cicatrici
dov’è impossibile rimarginare un futuro;
lapidato da parole apprese
affilate coi pronomi determinativi.
i bagni turchi nelle librerie
sfogliando Hikmet con i preservativi per le mani
dispositivi indossati a tracolla
da fare invidia alle borsette H&M –
ed il design di braccialetti accattivanti
per corteggiarsi nel #restiamoadistanza
o app Immuni per mappare se anche Wally
è prossimo alla soglia di Rt 0;
sul profilo FB delle Pari Opportunità
le giornate per l’indipendenza dei nativi digitali.
perché il governatore medio non aspettava altro
che un hashtag con cui giocare agli eroi mascherati
e commentare «Il sacrificio della patria nostra è
consumato!»
comodamente seduti sul portatile di casa.
pascolando fra i recinti del #riparTIAMOItalia,
ruminando breaking news nella post-truth society
ma preparando assalti frontali
ai virus della diffidenza e dell’autodafé
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Dalla Sezione ROMA NASONA riporto un estratto che rimanda alle atmosfere di degrado e assenza di futuro della suburra romana, preconizzate da tanti versi e scritti di Pier Paolo Pasolini:
…le gru accasciate a sera a margine dei cantieri
– prede di contrabbandieri del cemento
su carcasse di catrame,
bianche morti del cigno
nella danza macabra del caporalato
bici si prendono in orgasmi di lamiere;
amandosi sul ciglio della strada.
consueti ed allo stesso tempo inaspettati
piccioni e mozziconi di sigaretta sull’asfalto –
ragazzine con le tette a dieci anni
e un’infanzia ormai caduta in prescrizione
ai primi amplessi nei vecchi
capannoni industriali.
candele votive dimenticate accese
per i maiali sacrificali del dio Kebab;
avvampano jihadisti dell’hip hop
kamikaze di spalle sui balconi
mentre parlano al telefono coi serial killer
dell’identità….
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Fa parte di queste “Primavere” il componimento “Ulisse”, formalmente e stilisticamente diverso da tutti gli altri della raccolta, nel quale l’autore riprende gli ultimi versi del XXVI Canto dell’Inferno dantesco e sostituisce le vicende di Ulisse con quella degli uomini che, in particolare dall’inizio del secolo scorso, (il riferimento alle “tre generazioni”), hanno sfruttato in modo intensivo e violento le risorse naturali. La quarta generazione, l’attuale, dovrà fare definitivamente i conti, se non invertirà la rotta, con il collasso ambientale del pianeta che provocherà la sesta estinzione di specie già in atto, mettendo la parola fine alla breve parentesi umana sul pianeta terra.
Ulisse
Da tre generazioni inquini lidi e tutte l’acque;
e percuoti del merlo il primo canto.
A la quarta levar l’oceano in suso
e la terra ire in giù, come a nessuno piacque
infin che ‘l mar
è sovra noi richiuso.
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Seguono le Estati, che contengono una Sezione di AMORE EPILESSI (canti elbani). La definizione del dizionario Treccani di epilessia è: “Sindrome neurologica complessa, caratterizzata dal periodico ripetersi di manifestazioni psicofisiche improvvise, quali sospensione o perdita della coscienza, stato confusionale ecc …”, che qui si unisce al sostantivo Amore, che ricorre poche volte nell’intera raccolta. Per l’autore l’Isola d’Elba rappresenta contemporaneamente la perdita e lo spaesamento che si palesano d’improvviso insieme all’appagamento e alla profondità di un vero e autentico amore. Si concretizzano in questa sezione visioni profonde, a tratti liriche, mai banalizzate in facili suggestioni turistico balneari.
quel corpo fatto per resistere all’abisso
ricevette una spinta verso l’alto
pari alla massa d’acqua spostata
dal suo dolore.
cambiò la pelle alla memoria,
come rinasce quella dei serpenti
guardando sul barometro dei rimorsi;
«hai gridato tremando a Punta della Gioma
‘con la rosa dei venti domani siamo pari’»
vorrei tu fossi femmina
dirà il desiderio;
la marea non ha bisogno di dare spiegazioni
e di notte non ha voglia di chiedere il permesso
terra di macigni vivi
stesi come gatti rotolati al sole –
Marina che riposi in pace
incava nel sonno.
III.
a Chiessi il pesce arrivava la mattina dal mare
dopo i tramonti della Costa del Sole,
dove si fa l’amore a strapiombo sul Tirreno
scansando le cadute di massi dal Capanne.
giochi a gara di pesca con i cormorani
mentre il libeccio ne frantuma l’eco sugli scogli
e capisci perché la Corsica non si vede mai
dalle rive francesi
– sentieri arrampicati sui vitigni
che sanno di oleandro e di ginepro
fra i fichi d’india sparsi nei terrazzamenti
che salgono sui ruderi di San Bartolomeo –
ma una volta che accetti la sfida
sei solo tu, davanti l’orizzonte
dalla cresta delle montagne
anche i giganti se ne sono innamorati
e passano le epoche perduti negli abissi
con la tristezza
poggiata su un fianco.
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[…]…vorrei essere come questa terra
un verbo che non ha soggetto.
addormentarmi al vespro
alla finestra degli abissi
fra le rive del sonno – risvegliandomi sul ciglio di una strada
fra colline rosse d’imbarazzo.
se la ascolti è come un quadro di van Gogh
stessi pochi, poveri pastelli;
mai una volta in cui due tele siano uguali
mai due sguardi della stessa confusione.
ti saluta con l’abbraccio di un sorriso frastagliato
finché a un tratto sparisce
dietro al molo ancora aperto di Piombino
nel riso delle ragazze
nel rimestare delle stagioni.
Le successive poesie di Olmi sono molto intense e costituiscono alcuni dei testi più significativi della raccolta.
La prima è Il governo del cambiamento, riferito alla stagione dell’esecutivo “giallo verde” (M5 e Lega), della quale riporto uno stralcio:
… dopo che il Generale Ferragosto
– ed un Papeete in scala quaranta –
hanno portato i souvenir
della campagna di Russia.
con il telecomando giocano a battaglia navale;
colpiti-affondati nell’eco degli abissi
di grida dai campi di concentramento della Libia
o raid aerei
dopo il calciomercato.
sul libro Cuore del telegiornale
hanno arrestato gli assassini comunisti
– che devono marcire in galera
fino alla fine dei loro giorni –
con gli stessi soldi dei contribuenti
con cui facevano gli espropri proletari;
sbattendo dentro centinaia di innocenti
sopravvissuti al genio senza nome dell’eroina
rifugiati politici in casa nostra,
con le guerre procurate a casa loro –
generazioni fucilate per emendamento
desaparecidos nell’arco costituzionale
ognuno/a ostaggio di un paese
che elargisce libertà senza martirio
l’Italia è una promessa
che non si può mantenere.
La seconda, Hasan dedicata a “Hasan Atiya Al Nassar (Dhi Qar, 1954 – Firenze, 2017). Poeta iracheno costretto a fuggire dall’Iraq in quanto oppositore al regime di Saddam Hussein. Ha vissuto molti anni in Italia – e in particolare a Firenze – dove aveva ottenuto lo status di rifugiato politico. Nel testo i ricordi dell’autore si mischiano a versi, immagini e suggestioni delle poesie dello stesso Al Nassar. (NdA)”. Il profondo affetto per Hasan, la compartecipazione alle sue vicende di esilio, danno vita a versi di grande emozione:
“… tutti dicevano di averti visto lì l’ultima volta
bere, scrivere, ascoltare nel vuoto
le ragazze sembravano portare tue poesie
nei ventri inanellati di farfalle.
venivano a renderti omaggio
i doni del caos –
amici, conoscenti, profeti
compagni di lavoro per un anno
bevute per un giorno,
tu stesso dei pirati
eri detto il profeta.
a quello stupore fra ricordi e promesse
libri rilegati dal vento offrivi in sacrificio,
ti era ufficio stampa in via dell’Ariento
la Casa del Vino…
… quando gridò un’ultima volta il rumore del vento
sulla Firenze che ti ha amato
e la Firenze che ti ha odiato,
che ti ha donato
il sorriso invernale nell’estate –
delta di due fiumi,
ti ha gettato nel mare un’altra volta.
Hasan, quante parole inutili
per quello che ci siamo sempre detti
nei respiri che assomigliano al profilo della luna;
di poesia e di poeti non si parla
ma si è.
quante volte hai chiesto aiuto
dentro l’orto del tuo cuore
districandoti fra i roghi della gioia di vivere,
partigiano di un bagliore apolide
che ho incontrato negli occhi dei profughi
e dei refrattari…
===
Seguono gli AUTUNNI con Ateneo libertario e poesia leninista:
Ateneo libertario
i ditalini all’asta della bandiera,
prima con l’indice poi con il medio;
non avevo mai fatto l’amore con un elfo –
apostrofo di borgo Pinti
a forte Belvedere.
scale spianate su SS. Annunziata,
santa protettrice dei ritardatari
sotto l’Arco di Trionfo dell’Innocenza;
quello che sei prima di avere un cognome
ed una firma per poterlo autenticare.
– parte Linoleum all’imbocco di via Capponi
ed il Duomo sembra non avere più un vero scopo
pace dei sensi
nel mantra di un refuso,
le scarpe danno la buonanotte.
sulla verginità delle colline adiacenti
la provincia puntava al risparmio energetico.
rivendicato genuino e clandestino
il pane di grani antichi di Mondeggi;
affinità e divergenza
fra comuni e movimenti
nella Storia e nell’attualità –
fra un bis di penne con lo zafferano
o una zuppa di lenticchie col coriandolo,
non protestare
se non hai fatto i conti con il monte
ed un respiro strozzato.
portare la rivoluzione addosso al treno
e sbatterci la testa;
seduti contromano
da Statuto fino a Borgo.
sul binario da viale Lami a Bologna
non ho mai creduto nella colpevolezza,
come i post che non si possono cancellare – Ak
le tue premure cambiano d’abito al mondo
sotto al sedile sei ancora più bella
che davanti ai tuoi baci.
===
poesia leninista
in considerazione del fatto
che alle 07:00 bisogna pur sempre andare a dormire
questo “Che fare” ha un tempo finito
per essere fatto.
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Da INVERNI propongo Bologna Centrale, un testo breve che riporta con grande potenza espressiva al ricordo dell’impunita strage del 2 agosto 1980:
Bologna Centrale
underground ormai
è sinonimo di Eurostar
o di guerra parallela;
ma chi ha bisogno di incorporare pace
trattiene il respiro
contro un orologio
un’ora esatta dopo
gli ultimi versi della storia
Chiude la raccolta Scalene, sintesi potente del paesaggio interiore del poeta. Sono versi che racchiudono le lotte, gli amori, le illusioni, i dolori delle tante stagioni di una vita vissuta con l’unica infreddolita certezza, che su quel che è stato fatto non si può mai più tornare.
scalene
scalare in quarta
al momento del decollo;
se ti viene da ruttare
devi smettere di pensare.
finché senti senza elaborare
sei puro come il bimbo
che gli anni hanno stuprato.
la verità di ogni adolescenza
– più vera della scienza –
è non portare a compimento
nessuna teoria:
il ponte stecchito
fra le braccia della sera
sotto il rivo nella neve
si è fatto ormai torrente.
beata pienezza
che sgorga mattutina
sopra campi di ricordi,
portando a sé detriti
dell’immaturità
se nel delta di quel che è stato fatto
resta sale di quello che è da fare.
– aironi increspano desideri nel vento
e storni come mani
sui vitigni addormentati.
mentre il sole nel meriggio
non sa che giorno è
(quella notte la nebbia
diradava la montagna).
una luce restò accesa
socchiusa a pianoterra,
il fuoco che ti era domandato –
nel buio il mistero innominato
che trasforma il sonno in sazietà.
boschi inalano in silenzio
i fumi all’imbrunire,
condensando come pelle
screpolata sopra al fiume.
i cieli issano le vele –
e si infrangono nei frangiflutti
dei tuoi occhi.
una stella infreddolita
vi si spegne a intermittenza;
prende il largo nel silenzio
verso albe clandestine…
le correnti affogheranno i nostri corpi,
aggrappati ad una riva di dolore;
estuario
di un amplesso ribaltato
poi nel mare la certezza senza nome
che su quel che è stato fatto non si può mai più tornare
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