Il profumo del gelso
Chi di noi due sa a chi apparteniamo?
Noi, con questa nostra faccia rugosa, a te?
O tu, amante di strade senza ritorno, a noi?
O piuttosto, è al boia che apparteniamo entrambi, oh Baghdad?
Attaccato alle maniche non mi resta che Il profumo del gelso,
l’albero è un bel po’ che è sparito,
e non ci sono più pesci a penetrare la corrente.
Come fiumi, entrambi sono fluiti a valle, verso il mare.
Dalla memoria di una terra concimata di cadaveri
chi potrà mai guadagnarsi il pane del domani?
E chi mai potrà trionfare se gli è contro natura la voglia di girovagare?
Tra il mondo dell’incubo
e il mondo dell’acqua e dell’ombra,
restano solo le nostre poesie, appese – come barriere di filo spinato.
All’entrata del Gardenia
Davanti all’entrata serrata del Gardenia
un uomo di mezz’età, dall’aspetto di pensionato, aspetta.
Anch’io sono un uomo di mezz’età, appena tornato dall’esilio.
Mi accovaccio a qualche metro da lui,
e senza perdere tempo gli chiedo,
“Sa quando apre?”
“Il bar Gardenia lo frequentavo prima della guerra
Lì avevo il mio angolino
con gli amici tutti intorno.
Chiuse dopo la guerra, venne dimenticato.
Ma io è da molto tempo che continuo a venire
aspettando ogni giorno che si apra la porta.”
Mi tese la mano, con dentro una sigaretta rollata,
e io tesi la mia per prenderla
e il fumo invase l’aria, appannando i due uomini
in attesa davanti alla porta serrata
sul marciapiedi di via Abu Nuwas.
Un lettore al buio
Prima di andare a letto insisti a spegnere le luci
e, andando a tentoni, nel buio, ti accerti di aver chiuso la porta
e di aver tirato giù gli scuri.
Come un gatto balzi su per le scale
e ti infili nel letto
sogni –
Che il libro sulla scrivania che stavi leggendo
nel buio ora venga riaperto:
altre dita ne voltano le pagine;
altri occhi posano lo sguardo
sulle assenze che si ripetono tra le righe…
Una donna di marmo
Sono vent’anni
che osservo l’abbinarsi ombroso di parola e pietra
mentre la poesia assume la forma di donna di marmo
che in mezzo a un frutteto,
espone al sole le splendide fattezze.
Più la natura mi concede parte della sua saggezza,
più faccio attenzione al suo nucleo di tenebra:
ai graffi veloci alle mie tempie
all’odore
che rapido attenua il tocco contaminato.
Quindi nel campo dei versi osservo
come appare il marmo la notte,
l’ombra del significato.
Dopo si percepiscono le ossa e arrivi
un tepore articolato.
La somma promessa della parola.
Una gelida scultura
Tutto l’anno il rampicante
invade i muri della mia casa
senza mai lasciar spuntare
una sola foglia.
Ha radici profonde
penetrano la terra argillosa
che fa da sostegno alle sue dita scure.
Io, me ne vado sciolto,
sapendo che potrebbe arrivare la poesia
senza un segnale,
senza inchiostro o carta.
Sotto i suoi ripetuti mormorii
percepisco parole non dette:
esserne cosciente
è una forma di ebbrezza.
Gli abiti ammontano
al mio porto nella tempesta,
sebbene non abbia
destinazione alcuna.
Io, questa scultura isolata.
soffro il gelo.
Ed è il nulla il mio piedistallo.
Convogli di emigranti
Non accolgo la prosa di Abu Hayyan
nelle sbronze ore in sua compagnia; attraversando da solo la notte,
mi soffermo invece sul mio viaggio nel convoglio degli emigranti:
quel loro perenne moto convulso tra continenti,
e mi sovvengono le loro facce.
Come mi traumatizzavano le loro maschere, i loro inganni.
Prima di ritirarmi a letto,
sento dire al custode del buio
“Ciò che smaschera la maschera
è che pure nel sonno allarga il sorriso
(e qui il Sonno sorrise fra sé e sé)
E ho visto il Diavolo in maschera
sorridere a chi dorme dopo mezzogiorno inoltrato.
Ho visto, nel luccichio della notte, il suo sghignazzo
nutrirsi dello splendore delle stelle.
Dopo quell’esperienza nel deserto,
tocco la veste di mia madre – un tempo che non mi appartiene –
ricalco quella linea nel palmo di mio padre che conduce all’oblio.
Chiunque io veda rivela ai miei occhi il proprio presente
come desiderio di qualche granello di sabbia
per seminare il filo del suo passato, quella linea
incastonata, intrappolata tra le sue mani.
La Storia! Chi è importante per lei, se non noi?
Siamo costruttori di città effimere
dedicate solo alle sue cronache
Che gliene importa del moto rotatorio della Terra
in confronto ai nostri girotondi?
Questa manciata di parole sulla lapide dei dispersi.
quando dovrebbe essere incisa da mano esperta
se non in guerra?
Vedo il convoglio degli emigranti
svoltare un angolo che non è mai stato mio,
e proprio prima di sparire, splendere
come il ciondolo di una qualche stella perplessa.
Natura silente
Nel giardino
un rubinetto arrugginito
sotto un oleandro in fiore.
Oltre l’oleandro c’è una porta
occupata ora da un’ombra dubbiosa
che conta le gocce mentre cadono
nella vasca stagnante.
Nella casa
il sole è unico,
raggiante come le scaglie di un qualche pesce morto:
e i boccioli chiusi stretti dell’oleandro
sembrano i capezzoli di una donna incinta
che si dimena in preda alle doglie.
Com’è scuro il verde del ramo dell’oleandro!
Come sa di crepuscolo il suo profumo!
E la colla acre sui fiori,
com’è seducente, lì al sole,
per tutte le mosche che gironzolano per casa.
Per gentile concessione dell’autore. Tradotte in italiano da Pina Piccolo dal libro di Fawzi Karim “Plague Lands and other poems”, Carcanet press, 2011, versione inglese di Anthony Howelll, dalla traduzione dall’arabo di Abbas Kadhim. Quadri di Fawzi Karim, foto per gentile concessione di Fawzi Karim.
Fawzi Karim è nato nel 1945 a Baghdad (Iraq) . Durante l’adolescenza frequentando una biblioteca della città vecchia scopre la letteratura occidentale contemporanea. Consegue la laurea in letteratura araba all’Università di Baghdad e inizia a insegnare alle scuole superiori. Sospettato di simpatie comuniste, ne viene allontanato agli inizi del regime di Saddam Hussein. Nei primi anni ’70 si trasferisce a Beirut e il tema dell’esilio diviene un elemento molto radicato nei suoi scritti, che riflettono il contesto sociale dell’epoca, segnato da conflitti e contraddizioni politiche, ideologiche e religiose. F. Karim, pur non militando in partiti politici, patisce le conseguenze della situazione e questo si avverte nelle sue opere. Torna in Iraq, dove rimane fino al 1978. All’uscita del suo libro Alzo le mani per protesta, la sua opposizione a ogni forma di repressione è esplicita, fatto che lo porta di nuovo, definitivamente in esilio, stavolta a Londra, dove attualmente vive. Le sue poesie sono state tradotte in versione inglese dal poeta Anthony Howell, e pubblicate da Carcanet Press nel 2011 con il titolo Plague Lands and Other Poems. In Italia è disponibile la raccolta I continenti del male uscita per qudulibri nel 2014.