“Splendere come il ciondolo di una qualche stella perplessa”, poesie di Fawzi Karim

FauziGardenia

 

Il profumo del gelso

Chi di noi due sa a chi apparteniamo?

Noi, con questa nostra faccia rugosa, a te?

O tu, amante di strade senza ritorno, a noi?

O piuttosto, è al boia che apparteniamo entrambi, oh Baghdad?

 

Attaccato alle maniche non mi resta che Il profumo del gelso,

l’albero è un bel po’ che è sparito,

e non ci sono più pesci a penetrare la corrente.

Come fiumi, entrambi sono fluiti a valle, verso il mare.

 

Dalla memoria di una terra concimata di cadaveri

chi potrà mai guadagnarsi il pane del domani?

E chi mai potrà trionfare se gli è contro natura la voglia di girovagare?

 

Tra il mondo dell’incubo

e il mondo dell’acqua e dell’ombra,

restano solo le nostre poesie, appese – come barriere di filo spinato.

 

 

All’entrata del Gardenia

Davanti all’entrata serrata del Gardenia

un uomo di mezz’età, dall’aspetto di pensionato, aspetta.

Anch’io sono un uomo di mezz’età, appena tornato dall’esilio.

Mi accovaccio a qualche metro da lui,

e senza perdere tempo gli chiedo,

“Sa quando apre?”

“Il bar Gardenia lo frequentavo prima della guerra

Lì avevo il mio angolino

con gli amici tutti intorno.

Chiuse dopo la guerra, venne dimenticato.

Ma io è da molto tempo che continuo a venire

aspettando ogni giorno che si apra la porta.”

 

Mi tese la mano, con dentro una sigaretta rollata,

e io tesi la mia per prenderla

e il fumo invase l’aria, appannando i due uomini

in attesa davanti alla porta serrata

sul marciapiedi di via Abu Nuwas.

 

 

  

Un lettore al buio

Prima di andare a letto insisti a spegnere le luci

e, andando a tentoni, nel buio, ti accerti di aver chiuso la porta

e di aver tirato giù gli scuri.

Come un gatto balzi su per le scale

e ti infili nel letto

sogni –

 

Che il libro sulla scrivania che stavi leggendo

nel buio ora venga riaperto:

altre dita ne voltano le pagine;

altri occhi posano lo sguardo

sulle assenze che si ripetono tra le righe…

 

 

 

Una donna di marmo

Sono vent’anni

che osservo l’abbinarsi ombroso di parola e pietra

mentre la poesia assume la forma di donna di marmo

che in mezzo a un frutteto,

espone al sole le splendide fattezze.

 

Più la natura mi concede parte della sua saggezza,

più faccio attenzione al suo nucleo di tenebra:

ai graffi veloci alle mie tempie

all’odore

che rapido attenua il tocco contaminato.

 

Quindi nel campo dei versi osservo

come appare il marmo la notte,

l’ombra del significato.

Dopo si percepiscono le ossa e arrivi

un tepore articolato.

La somma promessa della parola.

 

 

Una gelida scultura 

Tutto l’anno il rampicante

invade i muri della mia casa

senza mai lasciar spuntare

una sola foglia.

 

Ha radici profonde

penetrano la terra argillosa

che fa da sostegno alle sue dita scure.

 

Io, me ne vado sciolto,

sapendo che potrebbe arrivare la poesia

senza un segnale,

senza inchiostro o carta.

 

Sotto i suoi ripetuti mormorii

percepisco parole non dette:

esserne cosciente

è una forma di ebbrezza.

 

Gli abiti ammontano

al mio porto nella tempesta,

sebbene non abbia

destinazione alcuna.

 

Io, questa scultura isolata.

soffro il gelo.

Ed è il nulla il mio piedistallo.

 

 

Convogli di emigranti

Non accolgo la prosa di Abu Hayyan

nelle sbronze ore in sua compagnia; attraversando da solo la notte,

mi soffermo invece sul mio viaggio nel convoglio degli emigranti:

quel loro perenne moto convulso tra continenti,

e mi sovvengono le loro facce.

Come mi traumatizzavano le loro maschere, i loro inganni.

 

Prima di ritirarmi a letto,

sento dire al custode del buio

“Ciò che smaschera la maschera

è che pure nel sonno allarga il sorriso

(e qui il Sonno sorrise fra sé e sé)

 

E ho visto il Diavolo in maschera

sorridere a chi dorme dopo mezzogiorno inoltrato.

Ho visto, nel luccichio della notte, il suo sghignazzo

nutrirsi dello splendore delle stelle.

 

Dopo quell’esperienza nel deserto,

tocco la veste di mia madre – un tempo che non mi appartiene –

ricalco quella linea nel palmo di mio padre che conduce all’oblio.

Chiunque io veda rivela ai miei occhi il proprio presente

come desiderio di qualche granello di sabbia

per seminare il filo del suo passato, quella linea

incastonata, intrappolata tra le sue mani.

 

La Storia! Chi è importante per lei, se non noi?

Siamo costruttori di città effimere

dedicate solo alle sue cronache

 

Che gliene importa del moto rotatorio della Terra

in confronto ai nostri girotondi?

 

Questa manciata di parole sulla lapide dei dispersi.

quando dovrebbe essere incisa da mano esperta

se non in guerra?

 

Vedo il convoglio degli emigranti

svoltare un angolo che non è mai stato mio,

e proprio prima di sparire, splendere

come il ciondolo di una qualche stella perplessa.

 

 

Natura silente

Nel giardino

un rubinetto arrugginito

sotto un oleandro in fiore.

Oltre l’oleandro c’è una porta

occupata ora da un’ombra dubbiosa

che conta le gocce mentre cadono

nella vasca stagnante.

 

Nella casa

il sole è unico,

raggiante come le scaglie di un qualche pesce morto:

e i boccioli chiusi stretti dell’oleandro

sembrano i capezzoli di una donna incinta

che si dimena in preda alle doglie.

Com’è scuro il verde del ramo dell’oleandro!

Come sa di crepuscolo il suo profumo!

E la colla acre sui fiori,

com’è seducente, lì al sole,

per tutte le mosche che gironzolano per casa.

Per gentile concessione dell’autore. Tradotte in italiano da Pina Piccolo dal libro di Fawzi Karim “Plague Lands and other poems”, Carcanet press, 2011, versione inglese di Anthony Howelll, dalla traduzione dall’arabo di Abbas Kadhim. Quadri di Fawzi Karim, foto per gentile concessione di Fawzi Karim.

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 Fawzi Karim è nato nel 1945 a Baghdad (Iraq) . Durante l’adolescenza frequentando una biblioteca della città vecchia scopre la letteratura occidentale contemporanea. Consegue la laurea in letteratura araba all’Università di Baghdad e inizia a insegnare alle scuole superiori. Sospettato di simpatie comuniste, ne viene allontanato agli inizi del regime di Saddam Hussein. Nei primi anni ’70 si trasferisce a Beirut e il tema dell’esilio diviene un elemento molto radicato nei suoi scritti, che riflettono il contesto sociale dell’epoca, segnato da conflitti e contraddizioni politiche, ideologiche e religiose. F. Karim, pur non militando in partiti politici, patisce le conseguenze della situazione e questo si avverte nelle sue opere. Torna in Iraq, dove rimane fino al 1978. All’uscita del suo libro Alzo le mani per protesta, la sua opposizione a ogni forma di repressione è esplicita, fatto che lo porta di nuovo, definitivamente in esilio, stavolta a Londra, dove attualmente vive. Le sue poesie sono state tradotte in versione inglese dal poeta Anthony Howell, e pubblicate da Carcanet Press nel 2011 con il titolo Plague Lands and Other Poems. In Italia è disponibile la raccolta I continenti del male uscita per qudulibri nel 2014.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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