Ora che muoio, il mio volto diventa quello di tutti.
Ora che muoio, divento prima ladro, poi vittima di odio, poi di nuovo ladro, uomo negro senza fortuna, uomo negro senza appello.
Ma alla fine di questa triste, triste giostra, ciò che mi assolve da tutti i miei peccati è quel permesso di soggiorno rinnovato che non permetterà che io venga seppellito col nome di Clandestino.
Sento già le loro voci nella mia testa, voci di giornalisti, voci di uomini di legge, che sanno di politica e che vestono di nero inamidato.
Sono arroganti.
La loro pelle è bianca e pura, sembra non avere segreti ma mente! Solo perchè sembra pulita non vuol dire che non sia sporca, che non abbia qualche segreto.
Non fidatevi delle apparenze, né di ciò che dicono. Io non mi fidavo allora e non mi fido oggi che li vedo maneggiare con incuria e violenza le mie sofferenze, quasi fossero tizzoni ardenti, rossi di sangue e di rabbia pellegrina, da estinguere ed annegare con acqua e sale, acqua che viene dal mare
Italia che mi salvi, Italia che condanni.
Ora che muoio, il mio volto, all’improvviso, diventa quello di tutti.
Ma io non ti conosco, non conosco te, e neppure te. E non conosco te E te, né tanto meno te.
E tu la in fondo che gridi vendetta per il mio nome, pronunciato male, con tutti gli accenti e i sospiri sbagliati, hai occhi troppo calmi per potermi immaginare.
Non puoi, uomo bianco, che stai lì, in piedi dalla mia parte. Perchè sei vivo, e io sono ancora morto.
Perché camminiamo e tu speri che forse un giorno potremmo somigliarci ed essere uguali, ma la Storia ci ha fatti e divisi.
Ora che muoio, qualcosa di strano succede intorno a me perchè il mio volto esiste, è reale. Lavoravo così tanto quando ero vivo che avevo dimenticato cosa si provasse a guardarsi in uno specchio. Le foto del mio viso sono ovunque adesso. La gente le usa nei social, la usa nei giornali, la usa per condannarmi, per giudicare, per provare a sé stessa quanto fossi povero e disperato. Quanto fossi, migrante, ecco.
Ma io, il mio viso piccolo e asciutto lo ricordavo diverso, più sottile e invisibile, più leggero, meno negro di come adesso lo vedono tutti.
Ero così giovane e di me hanno preso l’immagine peggiore ma io non sono veramente così, coi capelli spettinati e la faccia di chi è a digiuno di sonno da una vita.
Quelli che adesso si impietosiscono, di fronte al mio volto attonito, avrebbero dovuto vedermi, quando scendevo in strada coi miei fratelli a manifestare col Sindacato dei lavoratori di base.
Eravamo braccianti, quindi alzavamo le braccia e anche se stanchi e consapevoli dell’odio che avevano i reggenti di quel feudo nella piana di Gioia Tauro – dove eravamo e siamo ancora schiavi – urlavamo in questo paese straniero che sì, eravamo lavoratori e non bestie da soma pronte al macello.
Che sì, il nostro lavoro contava quanto quello di un uomo bianco.
Che sì, l’uomo nero aveva diritto a lavorare in un luogo sicuro, aveva diritto ad avere una casa accogliente in cui potersi addormentare, a delle condizioni di vita che fossero le migliori di un mondo impossibile.
Che sì, andava messo un freno a questi nuovi negrieri della terra ferma, che battono un mare di infinite piantagioni a colpi di lupara.
Eravamo uomini, io, ero un uomo, e questa terra dura e arida – la Calabria – che umilia e che ha umiliato me, Soumayila Sacko, in verità vi dico, non mi ha ucciso.
Perchè la pelle che lascio su questa terra, si sgonfierà della mia carne prima o poi. Il tempo lo farà, la morte lo ha già fatto. E la gente finirà col dimenticare cosa significava piangere un migrante, uno che – lo racconta la definizione stessa – non è radicato ad alcun luogo, ma vede raccontato il suo esistere come una nube oscura e leggera, eterea e priva di peso specifico ed importanza.
Il migrante come la nube, si fa sospingere da un vento che soffia da lontano e si arena, approda, senza radicarsi, mai.
Bene, io non ero un migrante. Nessuno di noi lo è.
Ecco, vorrei che la smetteste di chiamarci così d’ora in poi perché è al vostro fianco che noi ci siamo fermati. Non ci vedete e quando lo fate, ci trapassate con le vostre fantasie di cuore di tenebra e inciviltà.
Ma se bevi e respiri e sudi e ami, in una terra che non è più la tua allora, non sei un migrante, sei un uomo.
Magari diverso, ma pur sempre uomo, e non più migrante.
Domani, domani è gia arrivato. Altri uomini e altre donne moriranno come me, forse peggio di me.
E anche di loro non resterà che la pelle, meravigliosa, imperfetta, spessa e delicata, del colore della terra che abbiamo solcato e rinnovato affinché ci restituisse la vita.
Siamo braccianti, ma chi ci ha amato ed è riuscito a resistere a questa Europa assassina, soffierà nelle nostre pelli, e allora non sarà la carne, debole ed offesa, a ridarci la vita, ma il respiro profondo e caldo di chi crede che la giustizia esista anche per l’uomo nero che cammina.
Che non striscia.
Ma cammina.
Il negro è morto. E’ vero. Ma forse Stava rubando.
Aveva un regolare permesso di soggiorno.
La prima ipotesi è una Vendetta per furto.
Vendetta. Vendetta. Vendetta.
7 giugno 2018
Per gentile concessione dell’autrice. Prima pubblicazione 7 giugno 2018 in Kasava Call
Djarah Kan è una cantante e scrittrice afroitaliana. Ha scritto l’articolo sopra come contributo a un convegno che si teneva a Palermo su Africa, mediterraneo e interstizi nei giorni dell’assassinio di Soumayila Sacko.
Immagine in evidenza: foto del Mali, dal profilo Facebook di Aboubakar Soumahoro.