Sopravvivere alla guerra, sopravvivere all’infanzia: su Barzellette per miliziani di Mazen Maarouf (Monia Zairi)

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(immagine di copertina: dalla Fotogallery di Francesca Brà e Enrica Luceri)

 

Sopravvivere alla guerra, sopravvivere all’infanzia: su Barzellette per miliziani di Mazen Maarouf

Monia Zairi

 

 

Autore in prosa, poeta e giornalista, nato nel 1978 a Beirut da profughi palestinesi e migrato come rifugiato nella città islandese di Reykjavík, Mazen Maarouf è recentemente giunto al successo internazionale grazie alla pubblicazione della sua prima raccolta di racconti, intitolata Barzellette per miliziani, pubblicata in arabo nel 2015 e tra le altre lingue, in inglese (nel 2019 per Granta) e italiano (nello stesso 2019 per Sellerio[1]). Maarouf scrive sotto l’impulso della necessità di elaborare esperienze traumatiche legate alla guerra e, più in generale, di mettere su carta i propri ricordi. Se trauma e memoria sono, da un lato, elementi comuni a una larghissima parte della letteratura della migrazione in ogni lingua e contesto, dall’altro Maarouf elabora un approccio assai originale ad essi. La rielaborazione del trauma e della memoria in Barzellette è legata, da un lato, all’infanzia (l’autore ha vissuto la guerra da bambino e adolescente, cosa che ha segnato profondamente il suo immaginario), dall’altra, più in generale, al rapporto con la famiglia. Infanzia e legami familiari emergono così come due nuclei di significato cruciali per comprendere la scrittura di Maarouf, la sua poetica e il suo sguardo sul mondo e la letteratura. Ma c’è di più. Maarouf decide di filtrare la tematizzazione del trauma, della guerra, dell’infanzia e della famiglia attraverso l’uso di un’immaginazione spesso slegata dal realismo ed attratta piuttosto dal bizzarro, dal sovrannaturale e dal fantastico.

Barzellette per miliziani adotta questi stratagemmi narrativi in maniera assai singolare. Nella prima metà del libro, i racconti ruotano infatti sempre intorno agli stessi momenti ed alle stesse situazioni: l’infanzia a Beirut, la guerra e la presenza dei miliziani, la morte e, soprattutto, il rapporto col padre, con la madre e col fratello in tale contesto. In ogni racconto—o meglio, in ogni gruppo di racconti—queste vicende vengono rielaborate e assumono una forma nuova. In un racconto, ad esempio, il narratore-protagonista eredita la lavanderia del padre dopo che questi è fuggito dai miliziani e i due non si incontrano più per il resto della vita, salvo parlare per telefono due volte alla settimana. In un altro, il narratore-protagonista si muove invece spesso tra Beirut e Parigi, dove ha una compagna; in un altro ancora ha un fratello gemello che cerca di vendere ai miliziani per trafficarne gli organi. In alcuni sono presenti determinati oggetti dai poteri quasi magici—un occhio di vetro, una pianta di peperone—e situazioni narrative, in altri no. La cosa interessante è che non ci viene fornita una versione “originale” rispetto a cui le altre rappresentano rielaborazioni fantastiche o tentativi di ri-immaginazione. Non sappiamo come sia andata veramente: tutto quello che abbiamo è un insieme di relazioni tra il narratore-protagonista, suo padre, sua madre ed altri personaggi che appaiono qui e là. Come in un prisma, queste relazioni vengono costantemente re-immaginate, prendendo così nuove forme narrative. Nella seconda metà del libro, poi, questo “ciclo” si interrompe e irrompe il fantastico “puro”: un racconto ha al centro una coppia eterosessuale che adotta un grumo di sangue, cui danno il nome di Munir (grottescamente simile al nome dell’autore, Muin), tenendolo in un acquario; un altro parla di una relazione a quattro tra una coppia eterosessuale, una giovane donna e un toro—e la storia viene raccontata dal punto di vista del toro. Per Maarouf il racconto breve rappresenta dunque un tentativo di scrivere e ri-scrivere, da un lato, la propria memoria e i propri ricordi di bambino, dall’altro, di destrutturare e ri-immaginare in maniere surreali e fantastiche il concetto stesso di “famiglia”.

Nel corso di un’intervista in inglese organizzata nel 2020 dal museo di belle arti di Bruxelles come parte di un ciclo di incontri intitolato Repairing the future[2], Maarouf ha affermato che per lui scrivere equivale e viaggiare in un’altra realtà. Sempre nella stessa intervista l’autore ha dichiarato che, da una parte, egli vorrebbe testimoniare in maniera forte ciò che ha vissuto usando la scrittura saggistica, ma dall’altra se ne sente incapace: il peso psicologico di ciò che ha vissuto è troppo forte per lui per essere trasmesso in maniera così “diretta”. Egli ha scelto dunque la forma mediata della scrittura di finzione e del racconto in particolare, forma in cui, sempre secondo l’intervista per Repairing the Future, usa l’immaginazione non solo per fuggire dalla realtà ma anche—e soprattutto—per creare una nuova realtà in cui sentirsi libero di sperimentare ed immaginare situazioni narrative estreme mentre si rimane, allo stesso tempo, dall’altro lato dello “specchio”, per usare una metafora ispirata a Louis Carroll. Maarouf afferma di sentirsi teso e provato quando scrive di bambini che si trovano in situazioni orribili (quali sono appunto le situazioni descritte in Barzellette) e che alla fine riesce a superare questa tensione solo ricordando costantemente a se stesso che lui è al sicuro in un’altra realtà e non è più parte del mondo che sta raccontando. È stato questo metodo di distanziamento, secondo Maarouf, a portarlo a formulare il suo stile di scrittura “grottesco” (nell’intervista usa proprio l’aggettivo «grotesque») che risulta dall’applicare un filtro ironico alla descrizione di eventi terribili e traumatici. Secondo l’autore, infatti, l’arte rappresenta uno strumento molto efficace per alleviare il trauma: si tratta di definizione che potrebbe rappresentare il più essenziale caposaldo della scrittura di Maarouf.

È possibile iniziare a comprendere la poetica alla base di Barzellette analizzando il racconto che inaugura la raccolta, triste e criptico, intitolato Una pianta di peperone. Il racconto si apre col bambino protagonista-narratore che ricorda un evento passato che avrà grande importanza lungo tutta la narrazione:

Quand’ero piccolo, per il mio compleanno mio padre mi regalò una pianta di peperone. Era un regalo strano. Allora non ne capii la vera natura. Di tanto in tanto sentivamo gli spari. Ma ci avevamo fatto l’abitudine, come per i clacson delle auto in transito. E in un certo senso non capivo quel che mi accadeva intorno, né la scelta di mio padre di regalarmi una pianta di peperone o il fatto che questa rimanesse con noi. Ma aveva due piccole bacche, e io intuivo che rappresentavano me e il mio gemello.[3]

Il padre invita il protagonista a prendersi cura della pianta: «“Questa pianta deve diventare la tua amica”. Con quel suo atteggiamento, mio padre mi diede a intendere che ciascuna delle piccole bacche di peperone aveva un’anima, e che io avrei dovuto proteggerla a qualunque costo»[4]. Il sistema metaforico innescato dall’introduzione della pianta è così presto chiuso: ad ogni bacca corrisponde un’anima, dunque la salute e l’integrità della famiglia sono, fin dall’inizio della narrazione, indissolubilmente legate a quelle della pianta e dei suoi frutti. Così il protagonista inizia a prendersi cura della pianta con estrema attenzione, come si farebbe con un membro della famiglia:

reggevo una candela per illuminare la pianta di peperone lì vicino, credendo che le nostre anime, mia, di mio fratello, di mio padre e di mia madre, si trovassero in quei piccoli peperoni e che, se avessi fatto in quel modo, nessuno di noi sarebbe andato incontro alla morte.[5]

Questa funzione magica assunta dalla pianta svolge anche una fondamentale funzione psicologica per il protagonista: stabilendo un parallelo tra la buona salute di membri della famiglia e quella delle bacche della pianta, il bambino è in grado di concettualizzare la salute dei primi come qualcosa di controllabile, qualcosa che esula dalle circostanze quotidiane della vita in stato di guerra (un raid improvviso dei miliziani, la caduta di una bomba sulla casa, ecc.). Così facendo, il protagonista si tiene al sicuro dall’angoscia di perdere i genitori, smettendo di pensare a tutte le cose e gli eventi che ne mettono quotidianamente a repentaglio la vita: non c’è più bisogno di pensare a tutto ciò se la salute della famiglia equivale a quella della pianta. Attraverso questa forma di vita dotata di poteri quasi apotropaici, il protagonista è in grado di trasformare il caos della vita, e il terrore che dalla consapevolezza di esso deriva, in qualcosa di controllabile—come è appunto la salute di una pianta.

Trasformazioni come questa avvengono lungo tutto il corso della raccolta attraverso continue ripetizioni con variazione. La scrittura breve di Maarouf può così essere interpretata come la messa in atto di quel processo di catarsi attraverso la ripetizione di cui parla Freud a proposito dell’elaborazione del trauma: i racconti di Barzellette sono fatti di continue ripetizioni—gli stessi personaggi, gli stessi luoghi, le stesse relazioni familiari—ogni volta con qualche cambiamento che conduce ogni singolo racconto in una direzione diversa dal precedente.

In conclusione, Maarouf declina la scrittura del trauma in un modo che dimostra il potere di quella che il critico Derek Attridge definì «la singolarità della letteratura», ossia «una differenza trasformativa [che] permette a ciò che è altro o estraneo di entrare nel campo di una cultura»[6].

[1] Mazen Maarouf, Barzellette per miliziani, Palermo, Sellerio, 2015. Si cita dall’edizione Kindle.

[2] L’intervista è accessibile a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=CpBJG-N5WBM (ultimo accesso: aprile 2022).

[3] Ibidem.

[4] Ivi, loc. 44.

[5] Ivi, loc. 53.

[6] Derek Attridge, The Singularity of Literature, Londra-New York, Routledge, 2004, p. 136. Traduzione nostra.

 

Monia Zairi

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Originaria di Kasserine, in Tunisia, Monia Zairi si è laureata in Lingua e letteratura inglese all’Università di Kairouan nel 2008. Nel 2017 si è laureata a Bologna in Letterature moderne, comparate e postcoloniali con una tesi su Zola e l’impressionismo. Sta per laurearsi, sempre a Bologna, in Lingua e cultura italiana per stranieri con una tesi su Mazen Maarouf e Muin Masri. Ha lavorato in Francia e in Italia come insegnante di francese (L1 e L2), inglese L2 e italiano L2. È esaminatrice per le certificazioni di lingua CILS, PLIDA, CELI e CERT.IT ROMA TRE.

Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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