“Slittamenti, precarietà, provincia e crimine”, recensione del romanzo di Iuri Lombardi “I banditori della nebbia (Pina Piccolo)

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Autore: Iuri Lombardi
Titolo: I banditori della nebbia
Editore: LFA Publisher
Anno edizione: 2019
Pagine: 146 p.

Già a partire dall’intrigante titolo, questo ultimo romanzo di Iuri Lombardi presenta al lettore un terreno scivoloso, caratterizzato da una superficie di apparente noiosa solidità storica e sociale quale potrebbe possedere una ricca città di provincia come Lucca, città cinta da mura, esclusione e benessere di dubbia provenienza. Ed è in questo sostrato criminoso della provincia, in una collocazione temporale un po’ incerta, nell’arco di un anno scandito in 4 capitoli con titoli che alludono a stagioni e da 8 sottocapitoli che invece privilegiano momenti salienti della trama, che rimangono invischiati e slittano le aspettative dei cosiddetti ‘banditori’, il gruppo di giovani precari del mondo della comunicazione che, assieme alla città, ripresa nelle sue varie stagioni, sono i protagonisti del romanzo.  Il termine banditori ha un sapore un po’ antico, evoca gli addetti alle ‘grida’ e oggigiorno gli imbonitori, quei signori un po’ attempati dalla loquela veloce che gestiscono le aste, ma questi del romanzo sono ‘banditori’ un po’ particolari: le ‘grida’ che mettono in campo con le proprie professionalità nella televisione per cui lavorano hanno a che fare con la creazione di una sorta di nebbia nelle informazioni, uno stordimento provocato dalla velocità e quantità delle informazioni, consegnate in stile imbonitore d’asta. Lungi dal focalizzare l’attenzione del potenziale acquirente, la velocità e la quantità nella logica di questo romanzo sono volte a promuovere uno slittamento di percezione da parte del pubblico rispetto all’ordine del giorno reale del proprietario dell’emittente. Quest’ultimo, lo psichiatra- imprenditore, Andrea della Farina, mira infatti ad occultare il suo progetto di costruzione di un mega-manicomio sotto il Mediterraneo tra la Sicilia e Malta, in cui bandire e rinchiudere chi viene considerato soggetto deviante, assoggettandola/o anche alla sottrazione della dimensione tempo” e la televisione è uno strumento utile per fare volgere lo sguardo altrove. Compresa la loro strumentalizzazione e posizione reale nell’impresa, tale ordine del giorno provoca in alcuni dei banditori dei morsi di coscienza e forse incrina l’uniformità di quella mente unificata di gruppo che sembra prevalere nella voce narrante della prima parte del romanzo. Seguendo la trama pare di assistere a una crisi che precede di qualche decennio quella attuale delle fake news, diffuse oggi principalmente tramite social media e attenendosi a sofisticati modelli e algoritmi, alterazioni mirate della realtà che tuttavia hanno conosciuto una prima fase di rodaggio nei media tradizionali, anche se di questo si parla malvolentieri oggi specialmente da parte di chi  trova più facile attribuire tutto il male all’amplificazione dei social media piuttosto che scavare nell’evoluzione del problema.

Nelle prime pagine del romanzo i ‘banditori’ vengono presentati singolarmente con una struttura che si rifà alla carta d’identità,  e il lettore perspicace dovrebbe intuire  lo slittamento del dato reale in quanto nella struttura burocratica del documento accanto a informazioni oggettive e quantificabili come residenza e altezza, già sotto la dicitura ‘nome’ si hanno informazioni sui nomignoli e sotto ‘segni particolari’ si trovano apprezzamenti come “indisponente,  senza spina dorsale, don Giovanni a giorni alterni, irresistibile, impossibile”, osservazioni elaborate non tanto da Giorgio, eletto a scrittore del gruppo e voce narrante putativa del romanzo, ma da una specie di ‘hive mind’ del gruppo stesso.  E qui, riguardo la questione gruppo sarebbe interessante fare qualche confronto con le scritture dei cosiddetti giovani scrittori degli anni Ottanta tra cui Enrico Palandri, Pier Vittorio Tondelli, il primo Andrea De Carlo quali possibili influenze non solo nella riproduzione di certi aspetti del registro del linguaggio giovanile, come giustamente mette in evidenza il critico Francesco Ricci nella sua recensione in Siena News.   Tra le somiglianze con gli scrittori degli anni 80, potrebbero esserci non solo l’importanza assegnata al gruppo ma anche al primato del corpo nella narrazione e nei rapporti tra i vari membri del gruppo. Non a caso la dedica del libro recita” Ad Antonio, a Giacinto, detto Marco, per la vita che è corpo e arte”. A tal proposito, è interessante notare che uno dei componenti importanti del gruppo è pittore, un altro finisce per diventare suo modello, il manager del gruppo sfrutta l’arte e la ritrattistica del corpo per scopi di gerarchia aziendale. Nel corso del romanzo è di scena anche l’impotenza sessuale, la seduzione e la masturbazione, nelle ultime fasi viene introdotto un personaggio che incarna non solo un rapporto con il genere vissuto dalla società come problematico ma anche un’accettazione rassegnata della sua strumentalizzazione.

In una narrazione che sembra caratterizzata da inettitudine ed inconcludenza, forse a rispecchiare la condizione di precarietà affine a quella dello slittamento, dopo una prima parte un po’ al rallentatore che permette al lettore di entrare nelle dinamiche del gruppo e della quotidianità della provincia, con la sparizione di Della Farina la narrazione accelera fino ad assumere ritmi febbrili e i toni da thriller che portano al moltiplicarsi dell’attività professionale del gruppo. Tuttavia questa svolta  non ha in realtà alcun peso sulla capacità del gruppo di incidere sul reale. Rimangono banditori della nebbia anche se è sparita la motivazione iniziale del loro ingaggio.

Lo slittamento regna supremo anche nelle fasi conclusive del romanzo, che rimane in uno stato di sospensione  – un concludersi inconcludente,  – specialmente per quanto riguarda la questione che in apparenza dovrebbe invece sancire una conclusione  senza rimedio, cioè quella delle morti e delle attribuzioni di cause del decesso. Perfino la catena delle generazioni si rivela instabile e soggetta  a slittamenti metaforici e materiali, contrassegnate da motivazioni incerte, poco attendibili. Quello che si potrebbe considerare l’unico atto conclusivo del romanzo è poeticamente ironico e dal sapore letterario. Diva di Vita, una delle protagoniste il cui nomen è davvero anche omen, con  una mossa finale che richiama nobili antecedenti letterari quali Virginia Woolf, riesce finalmente ad uscire dal suo personalissimo circolo vizioso degli slittamenti: dopo aver annullato, tramite la distruzione delle proprie impronte digitali la propria identità corporea per sottrarsi alla tirannia dello Stato, Diva riesce ad andare oltre la materialità del corpo fondendosi con l’acqua, la materia primigenia della Vita.

Per dare un’idea del tessuto del romanzo, ora propongo alcuni stralci:

 

“L’Invertebrato viene chiamato così perché è una merda di uomo, senza spina dorsale e senza anima, passa l’intera giornata a cercare di fatturare più del solito, magari strappando qualche cliente ad un compagno e senza ritegno, che già si preoccupa quanto deve rimettere alla società dell’anticipo di provvigioni incassato mensilmente. Da Artemio non viene mai, dicendo che è una perdita di tempo e che Lucca è una città tutta da esplorare e preferisce concedersi piccoli sorsi di passeggiate lungo i viali d’alberi, sostare sui marciapiedi grigi e a schiena d’asino, inoltrarsi nel tunnel dei glicini che in aprile disseminano una luce viola quasi ad annunziare un maggio imminente. In ufficio sta sempre chino sulla scrivania, sfoglia vecchi taccuini cui appunta qualcosa, poi fa qualche telefonata, oppure passa nelle sale degli studi per osservare se le promozioni da lui fatturate siano mantenute persino nei programmi in diretta. È perso per Matilde, l’altra nostra compagna e non la lascia vivere. Anche nelle ore di break la cerca in continuazione e la invita, senza successo, a cena fuori. Ma Matilde è una brava ragazza, forse la migliore della banda, la più sincera e altruista. Oseremo dire che è normale e che non dà segni di squilibrio o di nevrosi come tutti noi; per lei un giorno vale veramente l’altro ed è talmente bella che nei suoi occhi chiari le si scorge il mattino steso fuori dalle finestre nel tepore della primavera. In realtà Matilde è innamorata, forse è una parola un po’ troppo forte, direi infatuata di Leo sostiene di essere incantata dal suo accento emiliano e di essere impossibile come un asso piacentino.”

 

 

“-Sì ma non sulla pelle della gente. Questo mai! Lui fa della psichiatria uno strumento di potere, oltre che una disciplina. At- traverso i suoi studi sulle psiche e le dispute neurologiche pone una scissione, un iperbole, capisci? Partendo dalle teorie del tempo che ammala l’uomo come causa prima della malattia e poi dei suoi effetti, i comportamenti desueti, le devianze com- portamentali, sessuali, sociali, civiche ecc… ecco che ha trovato una soluzione determinante e dalla quale compie una sorta di selezione, anche sociale se vogliamo: sottrarre al paziente il tempo e il suo senso. Edificare sotto il mare, precisamente tra il Tirreno e il Mediterraneo, verso sud, nelle viscere dello stretto di Gibilterra, una grande prigione, un mega manicomio dove internare questi malati. Vuole sottrarre il tempo ecco la selezione.

Capisci? il suo progetto criminale, dato che lavoriamo per lui, ci rende complici e io non voglio essere un Caino semmai un Abele.- Afferma adesso con rabbia e senza timore, accennando solo un vago tremore alle mani.”

 

 

“Sta di fatto che oggi ci troviamo in mezzo a una strada e non coviamo più in seno la speranza di un ritorno, di una vita regolare, una di quelle che, bene o male, ti consente di alzarti al mattino, rasarti, indossare qualcosa di decente e fuggire al tuo impegno. Nonostante questo, a parte l’incertezza di un nostro futuro a breve – cosa ci attenderà? Cosa faremo da domani?- il fatto che più o meno andremo a bussare alla porta della signora Della Farina per chiedere lavoro al giornale, siamo in vena di festeggiare. Le morti, le partenze improvvise, i capovolgimenti di un dramma senza soluzione, in bilico per non cadere nel grande e vuoto contenuto della storia, di un’epoca, quella dopo l’industria, non ci hanno minimamente toccato, scalfito, sfiorato e non saprei se per incoscienza o mancanza di sensibilità o altro e tutti assieme, ognuno con le proprie storie, i sentimenti, problemi e gioie siamo a festeggiare così come matti usciti da un manicomio. Siamo personaggi usciti da un dramma, probabilmente, e persi abbiamo smarrito la bussola e in esso non sappiamo rientrare.”

 

Immagine in evidenza: Opera grafica di Irene De Matteis.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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