Shailja Patel a Venezia, sabato 10 novembre alle 18 a Micromega Arte E Cultura (MAC)

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Sabato 10 novembre 2018 alle ore 18:00

Micromega Arte e Cultura (MAC) in Campo San Maurizio (San Marco 2758)

A 10 anni dalla pubblicazione di Migritude, insieme a Shailja Patel ci interrogheremo su come è cambiata la rappresentazione della ‘migrazione’ nella scrittura, sia in Africa che  in Europa, con particolare attenzione all’attuale contesto storico e sociale di avversione a questo fenomeno mondiale. Converseranno con l’autrice, la direttrice del Festival “La Palabra en el Mundo”, Anna Lombardo, e le due traduttrici italiane, Marta Matteini e Pina Piccolo.

Riproponamo i link ad alcuni scritti di Shailja Patel apparsi in precedenza ne La Macchina Sognante, Sagarana o nel blog di Pina Piccolo, e sotto, in forma completa, l’intervista a Shailja Patel fatta dallo scrittore Emmanuel Iduma e apparsa nella prestigiosa rivista Wasafiri nel 2015.

Come l’Ambi si trasformò in Paisley (da Migritude)

I gioielli (da Migritude)

Dieci anni dalla pubblicazione bilingue di “Migritude”  di Shailja Patel

Colti in flagrante

Liberate Oakland 

Che nome dargli 

La vecchia e il tamburo

Shailja Patel’s Italian Tour:s Doses of Migritude to Help Audiences of the Global North Stay Human

 

Emmanuel Iduma intervista Shailja Patel

La CNN definisce Shailja Patel la faccia della globalizzazione centrata sui popoli. Migritude, il suo debutto letterario, basato sul suo monologo teatrale, è stato un best seller di poesia su Amazon e per il Seattle Times, come pure finalista per la letteratura straniera del premio Camaiore. Il testo viene utilizzato in oltre 50 università nel mondo.

 

Le poesie di Shailja Patel sono state tradotte in oltre 16 lingue. I suoi saggi sono pubblicati in le Monde Diplomatique, The New Inquiry, Internazionale e Counterpunch. Tra i vari riconoscimenti: la Sundance Theater Fellowship, La Nordic Africa Institute African Writer Fellowship, il premio di poesia Voices of Our Nation, il Fanny-Ann Poetry Award.

 

Patel è uno dei membri fondatori di Kenians for Peace, Truth and Justice, una coalizione di associazioni della società civile che operano per una equa democrazia in Kenya. L’organizzazione African Women’s Development Fund l’ha nominata una delle 50 più importanti femministe africane. La rivista indiana ELLE l’ha scelta come una delle 25 persone più influenti tra i giovani (New Guard Influencers) e Poetry Africa l’ha onorata con il premio Letters to Dennis Poet, per le sue attività che continuano la tradizione del poeta Dennis Brutus, famoso per la sua lotta all’apartheid. Nel 2012 ha rappresentato il Kenya al Poetry Parnassus, le olimpiadi culturali di Londra. Il suo lavoro è attualmente esibito nella mostra “Beyond Bollywood” allo Smithsonian Museum. La seguente conversazione ha avuto luogo tramite Google Chat in un caldo pomeriggio di Nairobi e un freddo mattino invernale di New York.

 

Shailja Patel –Grazie per la tua penetrante meditazione su Baga. Se riuscito a dare a molti di noi le parole che stentavamo a trovare.

 

Emmanuel iduma– Sono io a ringraziare te. Ho pensato al tuo uso della parola “unworded”* – “sparolata”, senza parole, gioco di parole su un-worlding– in risposta al mio saggio.

SP – E’ un ottimo punto di partenza. E’ da un po’ che penso a quale sia il punto – se ce n’è uno – delle parole in questi tempi che ti tolgono la parola. Annie Dillard ha scritto “Cosa si potrebbe dire a una persona che sta morendo che non la faccia arrabbiare nella sua banalità?” Uno scrittore africano cosa può dire di Baga? O cosa potrebbe dire ai superstiti di Baga che non li indurrebbe a sputargli addosso? Come possiamo trovare il senso di questa cosa inimmaginabile, insopportabile che è successa? “Mai più” è uno slogan inutile. “Blacklivesmatter” è inutile.

EI – Credo che la domanda che vuoi porti sia “cosa possono fare le parole?”

SP- E a che cosa servono le parole.

EI- Fondamentalmente credo che scrivere sia l’atto di attraversare il vuoto, il tentativo di gettare un ponte tra le distanze. Forse è da qui che bisogna partire per immaginare il nostro lavoro in tempi che ci tolgono la parola. Cioè, in che modo può la scrittura avvicinarci a tutta la morte che circonda?

SP- Keguro Macharia ci insegna che la forma può servire da contenitore per i sentimenti. Parole in funzione di rito: una struttura formale per il dolore.

EI- Le parole di Keguro costituiscono “ un immaginario etico” e naturalmente anche Yvonne Owuor utilizza le stesse parole.

SP- Il tuo testo lancia dei fili che tentano di ricomporre tutte quelle rotture create dalla violenza. Ci ritiriamo nell’insensibilità protettiva del trauma. Qualcuno deve parlare per ricucire la comunità. Audre Lorde si chiede, “Quanta di questa verità posso vedere e continuare a vivere rifiutando la cecità? Quanto di questo dolore posso utilizzare?”

EI- La violenza, che si compie oggi su scala di genocidio, specialmente quando viene trasmessa in diretta, ha come disegno quello di desensibilizzarci, trasformarci in meri osservatori. La mia fiducia nella scrittura come modo per riportarci alla sensibilità (se mi è lecito utilizzare quella parola) non è stata mai tanto grande. E’ una questione di urgenza, vero? Cosa è importante per me in questo momento? Che cosa sostiene la mia vita e quella degli altri?

SP- Combattere la desensibilizzazione attivando l’immaginario etico stava al centro del ICC Witness Project – poesie di scrittori kenioti scritte subito dopo le violenze che si verificano durante e dopo le elezioni del 2007-8. E oggi il Kenya ha appena approvato il Security Act, che trasforma quel tipo di testimonianza in potenziale reato. Mi sto interrogando profondamente su che tipo di scrittura possa offrire immagini e dare nutrimento al senso etico della vita – una scrittura che sostenga la vita, una scrittura contro la separazione e la disumanizzazione che ci circonda. E come fare tutto ciò in una modalità che renda onore ai morti, che non neghi le atrocità.

EI- Credi che la parola “attivista” non sia sufficiente a descrivere i tuoi impulsi di scrittrice?

SP- La mia formazione è in economia politica ed infatti la mia prima carriera è stata nel settore finanziario. E’ impossibile per me scrivere senza prendere in considerazione i rapporti di potere, le storie che sono state zittite e i flussi di risorse. Porto la totalità di quel che so in tutto ciò che scrivo – dalle poesie d’amore a un ritornello sullo zucchero. La parole “attivista” nel modo in cui viene utilizzata in Kenya è inadeguata perché ora come ora è associata solo alla spettacolarizzazione – corpi nelle strade che si schierano contro la violenza dello stato neoliberale militarizzato. Definito così, l’attivismo cancella il lavoro di riproduzione, il lavoro che dà nutrimento alla vita, il lavoro intellettuale. In questo spazio, scrivo per mettere sotto la lente d’ingrandimento e complicare la narrativa maschilista. Nella mia scrittura amplifico e valorizzo le economie della cura che danno sostentamento e riparano i corpi rimasti in strada, danno punti di sutura alle ferite e rigenerano i mondi distrutti dalla guerra.

EI- Un’attivista ma anche una poeta, quindi. Tornando al discorso “forma come contenitore dei sentimenti”, immagino che, come poeta, ti trovi a trattare le parole come oggetti?

SP- Non sono sicura di ciò che intendi dire. Spiegami meglio “parole come oggetti”, per favore.

EI- Beh, pensavo al tuo verso, “guadagnarsi il significato delle parole” (in Migritude). Questo “guadagnarsi” mi sembra un’azione fisica. E poiché scrivevi dei tuoi sari, scrivevi attraverso di loro per esprimerti, anche le parole acquistano fisicità?

SP –“Prima di reclamare una parola… devi guadagnarti il suo significato” è collegata al materialismo delle parole. Parole come materia. Il concetto di onore personale e comunitario che sta alla base del concetto di mantenere la parola, cioè il fatto che la tua parola sia “buona” – nel significato di solida, affidabile, una promessa su cui si può contare. Cioè agire in maniera coerente con quel che si afferma. Come scrittrice credo ardentemente nell’integrità delle parole – non uso alla leggera parole come “amore”, o “verità” o “ giustizia”. In Migritude, i sari hanno la funzione di parole materializzate – sì. Incarnano la circolazione del capitale globale, delle storie cancellate. E nella preparazione dello spettacolo, ho avuto esperienza dei sari anche come oggetti generativi – affabulatori, testi, palinsesti artistici, tessuti, cultura, commercio, impero.

EI- Allora è con integrità che usi la parola “migritude”?

SP-Ah, ecco, mi sono data la zappa sui piedi. [sorride]. … Mi viene in mente una poesia di Adrienne Rich in cui scrive “ Sto in piedi nella tua poesia, insoddisfatta..” Per certi versi mi sono sentita un po’ così in Migritude – come se mi stessero dicendo che la “condizione della migrazione” non può essere risolta oggi nel mondo.” Quello che intendo dire con la parola integrità attinge a quella poetica della conoscenza scomoda, per citare Alice Fulton. Per poter reclamare una parola ed utilizzarla con integrità bisogna vedere tutto quello che ci sta dentro, comprese le cose che ci procurano disturbo a livello critico. Non si può parlare di “giustizia” in maniera selettiva. O di “verità” quando viene cancellata qualsiasi cosa che turbi la tua narrativa.

EI- Certo. Vilem Flusser dice che la parola va considerata sia nel senso ontologico che in quello etimologico. Qual è la storia della parola, sì, e come essa opera nel mondo.

SP- Utilizzare la parola “migritude” con integrità, bisogna accettare la conoscenza scomoda che lo status di migrante può toccare a chiunque, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento.. Chiunque può subire una dislocazione a causa dei cambiamenti climatici, gentrification, guerra, disastri naturali… siamo stati tutti migranti nel passato, nel presente e potenzialmente nel futuro. Quando dico questo agli intervistatori o a un pubblico che si identifica come parte del mondo sicuro e dominante, li vedo che subito si agitano e cercano di negare che potrebbero mai far parte “di quella gente là”.

EI- Ho sempre pensato che a volte ad avviare la migrazione sia un impulso. In molti casi (e questo mi è stato confermato la scorsa estate quando ho viaggiato in una rotta attraversata dai migranti) un migrante non ha tempo per spiegarsi i motivi della migrazione. E’ una cosa improvvisa, è un’esigenza che s’impone.

SP- E dobbiamo ricordare che molti popoli sono sempre stati nomadi. Ho iniziato a rendermi conto della mia ignoranza rispetto alle loro storie. La costruzione dei confini degli stati nazionali africani, per esempio, è stata una forma di violenza ai danni delle popolazioni dedite alla pastorizia. Lo “sviluppo” delle nazioni africane nel periodo successivo all’indipendenza è una guerra contro le popolazioni nomadi e una forma di land grabbing delle loro terre di demanio. Sandile Dikeni ci ricorda che lo stato nazionale è un costrutto europeo del diciottesimo secolo. Per loro, la funzione fondamentale dell’Africa è stata quella di consentire a delle élite caratterizzate dall’etnia la cattura delle risorse.

EI- Mi irrita il fatto che in Europa chi ozia per le strade viene tranquillamente chiamato un “flaneuer”, alla maniera di Baudelaire, cioè un gentiluomo che ozia ed osserva, mentre se lo fa una persona in Africa tutto a un tratto diventa un “loiterer” cioè un vagabondo potenzialmente criminale.

SP- A Nairobi è reato sedersi a terra per strada. Oziare è criminalizzato. I corpi che semplicemente occupano spazio ma non generano utili destano sospetto.

EI- E con questi stati nazionali sono sorti anche nuovi imperi. Credi che sia egualmente importante denunciare queste nuove egemonie?

SP- Io non li considero nuovi imperi ma piuttosto l’Impero che si ripete, si affina, con tecnologie sempre più letali. E’ incredibile osservare con quanta energia la gente cerchi di evitare di vedere e pensare alle conseguenze dell’Impero. Non sai quante volte ho trovato persone, gente che evidentemente si identificava con l’impero, che con immeritato senso di superiorità si accaniva a spiegarmi come stavano le cose quando non desistevo dal richiamare alla loro attenzione i torti subiti da popolazioni considerate usa-getta.

EI- Il comodo vivere, in qualsiasi forma, ti porta a una tremenda complicità. Una volta che ti trovi a tuo agio  immaginando di essere distante dai problemi del mondo, inizi a convincerti che le persone che si ostinano a denunciare l’impero  sprecano il loro tempo.

SP- Ti devi convincere che è indubbiamente necessario che gli altri si sacrifichino per la tua comodità. Naturalmente ciò accade a una certa distanza da te. Certo, tu personalmente non ti metteresti mai a incendiare la casa di un’altra persona per garantirti la tua riserva di elettricità o benzina, ma ti va bene che al tuo posto lo facciano Shell o la Banca Mondiale. Vedere queste cose costa fatica. Pensare a modi alternativi di vivere insieme al mondo costa fatica.

EI- In tempi come questi mi chiedo se la metafora non sia la maniera più utile per parlare in maniera diretta. E’ per questo motivo che scrivi poesia, perché ti consente di affrontare diversi argomenti, a diversi livelli, in unico testo poetico?

SP- La poesia è il genere in cui la metafora si trova nel proprio elemento. Ma in questi tempi non ho più la pazienza di condurre delicatamente la gente a percepire la vita degli altri, le realtà al di fuori della propria dispiegando il linguaggio con maestria. Mi sembra assiomatico, per esempio, che la satira non debba deridere gli oppressi. Che se la tua vignetta prende a calci chi già li riceve tutti i giorni della sua vita più che un artista d’avanguardia sei uno stronzo e un bullo.

EI- Quindi sei d’accordo con Keguro Macharia che scrive, “Non capisco l’idea che gli scrittori debbano difendere il diritto di offendere”.

SP- Esatto. Quindi a noi scrittori toccherebbe corteggiare l’immaginazione di chi se ne sta comodo, sedurre i privilegiati per indurli semplicemente a vedere l’Altro come essere umano- questa cosa mi riempie di rabbia.

EI- E credo che questo stia al centro di Migritude.

SP- Il corteggiamento o la rabbia?

EI- Il corteggiamento.

SP- Allora, forse il prossimo libro sarà un concentrato di rabbia.

EI- il prossimo libro? Stai lavorando a un altro?

SP- Non avrei dovuto farmelo scappare. In questo momento sono in un corpo a corpo con la possibilità di scriverne uno nuovo. E’ che la storia continua ad accadere in tempo reale – senza alcuna considerazione- e le emergenze politiche e umane sono prioritarie. Quando ritorno al manoscritto, queste emergenze mi costringono ad ampliarne l’orizzonte. Il libro esplora le costruzioni di razza, mascolinità e nazione.

EI- Come fai a sapere quando hai finito?

SP- Questo è esattamente il problema. Il mio amico Jeff Chang dice: a un certo punto ti devi rassegnare che non sai abbastanza e ti accontenti. Io ancora non mi sono rassegnata.

EI- Certo che è difficile. Sono interessato a sapere se credi che ci sia uno spazio per africani di discendenza est asiatica che prima non esisteva?

SP- Non penso in termini di africani di discendenza est asiatica. È un concetto astorico, considerando che la storia di migrazioni dall’oceano indiano è vecchia di duemila anni. E’ un concetto che ti trasforma in “Altro” e che balcanizza proprio nel momento in cui ci stanno costringendo a dividerci in enclave tribali in Africa. Altrove ho detto, “ Ci sono solo 3 tribù in Kenya: Quelli Che Hanno – Quelli Che Vorrebbero Avere – e Quelli Che Vorrebbero Che Entrambi i Suddetti Fossero Rimossi.

EI- Si capisce. Useresti mai il termine “migritude” per descrivere una qualsiasi identità in Kenya?

SP- Abbiamo ancora mezzo milione di sfollati interni prodotti dalle settimane di violenza post elettorale del 2007-8 e dai conflitti politici dei decenni precedenti. Intere comunità sono state violentemente sfrattate dalle loro terre sulla costa. Ci sono popolazioni indigene che sono dovute fuggire dalle loro case nelle foreste del Kenya centrale perché la Banca Centrale con la complicità di politici dediti al land grabbing gli hanno bruciato la casa. L’anno scorso c’è stata la pulizia etnica della comunità somala – oltre un milione di persone.

EI- Il tuo libro è allo stesso tempo un’autobiografia, una prosa poetica, un memoriale e il racconto del processo artistico. E’ stato strano – forse perfino incongruo- lavorare a questo tipo di libro?

SP- E’ stata una sfida trovare la forma giusta che andasse bene con il contenuto, creato in origine per il teatro. Sono stata fortunata ad avere una editor lungimirante – Sunyoung Lee di Kaya Press – che è riuscita a visualizzare come il copione della performance potesse essere racchiuso in una narrativa divisa in parti. Il contenuto dà forma alla struttura.

EI- Penso anche alla autorevolezza pregnante della tua voce. Mentre fai le tue dichiarazioni è quasi come se stessi fissando lo sguardo sulle tremende immoralità dell’Impero. Mi chiedo, come sei riuscita a costruire tanto ardire?

SP- Lo attribuisco a un’infanzia passata a lottare contro i bulli più di grandi di me – e a perdere la maggioranza delle volte. Crescendo sono sempre stata anomala e ho imparato a sentirmi a mio agio con la mia scarsa popolarità. Ritorno al principio di onore personale, che per me significa fedeltà alla verità e alla giustizia. Preferisco di gran lunga entrare in conflitto con il potere pur di sentirmi integra. I sistemi che interrogo adesso sono semplicemente bulli più grandi di quelli della mia infanzia. Il capitalismo è l’uber-bullo planetario.

EI- Ricordo di aver letto da qualche parte che preferisci essere chiamata “una keniota dalla pelle marrone”. Non so se ti senti a tuo agio a parlarne, ma credi che Migritude abbia contribuito a farti percepire quella come tua identità?

SP- In realtà preferisco essere chiamata keniota senza alcuna aggettivazione.“ “Keniota dalla pelle marrone” è una locuzione che utilizzo per correggere l’errore compiute da persone che descrivono la gente di pelle marrone nel continente africano con il termine “indiani”. Trovo che l’aggettivazione riferita a gruppo etnico, proprio come l’aggettivazione riferita a genere o sessualità abbia come ordine del giorno quello di emarginare. Si presume che uno scrittore appartenente a un gruppo etnico di minoranza scriva della sua identità; le donne vengono chiamate a scrivere su argomenti che riguardano il genere, agli scrittori gay si chiede di parlare della propria sessualità mentre si presume che la scrittura di uomini eterosessuali appartenenti alla cultura dominante rappresenti la condizione umana universale. Quindi Philip Roth, per esempio che scrive del suo pene, è uno scrittore “americano” mentre Toni Morrison, che scrive sui miti fondanti e sulle ideologie degli Stati Uniti, è una “scrittrice nera”. Se è importante che io venga identificata con il mio gruppo etnico, allora è egualmente importante descrivere Ngugiwa Thiong’o come Gikuyu keniota-americano, Chimamanda Ngozi Adichie come nigeriana Igbo, Wole Soyinka come nigeriano Yoruba, etc.

EI- Ti piacerebbe che ci fosse un numero maggiore di scrittori per il teatro? Intendo, scrittori che scrivono nel continente africano?

SP- Non credo che sia un numero esiguo. Ci sono molti spazi africani che danno nutrimento alla scrittura teatrale – il Sundance East Africa, festival teatrali sparsi per tutto il continente – e ci sono delle voci straordinarie che riempiono quegli spazi, e che scrivono anche per la radio, al TV e il cinema.

EI- Mi conforta sapere questo.

SP- Io non lo vedo come problema legato alla mancanza di una nuova scrittura teatrale. Si tratta piuttosto del fallimento degli stati africani nella creazione di settori artistici duraturi che offrano salari in grado di far vivere in maniera sostenibile i lavoratori della cultura. Abbiamo bisogno di infrastrutture che sviluppino, producano e organizzino tournée per i nuovi lavori teatrali di scrittori locali e offrano condizioni giuste. Il successo dell’attrice keniota Lupita Nyong’O a Hollywood è questione di orgoglio nazionale, ma gli attori e gli scrittori di testi teatrali kenioti sono sempre a combattere una battaglia perdente per essere pagati a fare il proprio lavoro in Kenya. Ciò rafforza una cultura in cui è possibile solo ai figli dei ricchi fare carriera seriamente nelle arti.

(traduzione di Pina Piccolo)

L’originale inglese è stata pubblicata nella prestigiosa rivista di scrittura internazionale contemporanea Wasafiri, il 17 febbraio 2015

Per gentile concessione dell’intervistatore.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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