Ho conosciuto Francesco alla quarta Edizione di MURI DI VERSI di Via Fondazza, il 19 e 20 maggio 2018. Già dalla prima lettura delle sue opere appese alla brezza mattutina del portico, sono stato immobilizzato dalla potenza e dalla forza dei suoi versi, che ci precipitano senza orpelli, senza ipocrisie e senza luoghi comuni nella dimensione tragica del terremoto delle Marche del 2016. Nelle sue poesie il vento è una presenza, una voce, un soffio, un lamento della terra sconquassata dove la voce degli uomini è zittita, strozzata da quell’evento soprannaturale che lascia cicatrici profonde, sempre pronte a riaprirsi. Nella sua scrittura asciutta c’è il mestiere di reinventarsi la vita ogni giorno senza sapere se e quando avrà fine quella condizione sospesa di sfollati dalla propria terra e da se stessi.
Bartolomeo Bellanova
Francesco Sorana
Qualcosa di cui non so parlare
La notte del 24 agosto 2016 avevamo detto che era una notte strana. Guardavamo le stelle appoggiati alla macchina, nascosti a fumare per le strade degli allevatori che salgono sulla montagna divenendo sentieri di terra battuta, e le stelle ci erano parse strane. Quella notte noi ci svegliavamo vivi nella fuga per le scale, negli occhi smarriti, nel cercarci a vicenda le mani. Appena più in là, altri uguali a noi affondavano nelle loro stanze. Da allora abbiamo fatto per qualche tempo del disastro un gioco di società, di tende e notti enormi sulla nostra testa, il giorno passando in rassegna i danni di ogni nuova scossa. È arrivato ottobre e con lui un autunno più severo degli altri. I tetti delle nostre case hanno retto il vento e la neve, ma non il terremoto. Le donne e gli uomini, gli anziani hanno retto anche quello. E in pochi istanti eterni si è stati profughi e di nuovo tutti bambini di un paese sbranato. I mesi lontani da casa, appesi a domicili dove ogni stare è transitorio, sono divenuti anni e alcune parole del mio lessico sono mutate nel valore e nel significato. Cosa significa tornare. Cos’è una casa. Quando finisce un terremoto. Che succede alle persone. Questo è Qualcosa di cui non so parlare.
Dicono le strade di casa
sanno essere vene
e io ad essa confluisco
e la vedo ancora.
Era appena un ventre di piazza
un monumento ai caduti
da cui respirare l’estate,
le torri a badarci da lassù,
l’amore in un belvedere,
intorno una roccia appresa
e croste di mura,
la pelliccia dei boschi
a temprarci lo sguardo,
le notti di Natale,
con il cioccolato caldo.
E anch’io la penso pentita,
laggiù dove sta,
arruffata e nuda
ora che appena
è rimasto più nessuno,
la montagna
ci guarda alle case
alle nostre mute,
e sola guaisce.
***
Casa mia
sta raccolta in un piccolo ovunque,
nel paese che ha per nome
quasi un presagio, un travisamento
del participio passato di vivere.
L’ho accarezzata
a lei che tutta ferita
sfregando contro il vento
sibilava – dove siete scappati
e quand’è che tornate.
Con le lacrime
ci siamo fatti delle promesse
smisurate, lunari,
con il bosco tutto intorno
a proteggere il segreto.
Agli occhi
porto le tue stanze
Se ancora nel mio epicentro
sento il bisogno di tornare
al mio luogo protetto.
[Casa mia l’ho accarezzata con le lacrime agli occhi ]
****
Al vento non servono coordinate
io sarò bisaccia colma d’aria
gettato sulla terra dell’uomo
sarà la solitudine a soffiarmi
in tondo in largo e mulinelli
avrò la bocca amara di città lontane
e la lingua puttana di molte lingue.
Uno m’ha detto ch’è morto chi non cammina
che la vita è un invito di sentieri
io c’ho creduto
e con piedi di vagabondo
voglio cercarmi in ogni spigolo
in ogni cantuccio di mondo.
***
Madre mia prendi questa carne
tu che sei l’incipit,
la lettera maiuscola.
Madre mia
altri uomini avranno imposto
un punto sul mio petto.
Ho dato poco più
di qualche parola
al mondo Madre mia.
Madre mia non leggere
questa fine
colma di vento.
***
Dai una voce
alle rovine degli uomini
che sonnecchiano vacue
rispondi
agli echi con cui bisbigliano le sibille
ascoltale
nel chiacchiericcio dei vivi, ascoltale:
è un sussurro di neve
che ricopre le impronte scomposte.
Carezzale con gli occhi,
le creste che sono madri e culla
del tuo primo sognare d’estate
quando con pudore quasi le toccavi
quelle cime, con le dita innamorate
del vento degli Appennini.
***
Monteranno su crepacci e versanti
greggi in capricci di nostalgia
tra la neve, sulle rovine e le case
staranno come nude memorie
da ricomporre a cocci
con una lacrima in gola.
Vanno e vengono uomini
poi tornano, poi ancora
con le gru e le scavatrici
a ricostruire un’illusione;
e fidarsi daccapo di un tetto
e accendere di nuovo il camino.
Era la morte del leone
nell’agonia d’estate
nel suo ultimo ruggito
era la nascita della vergine
negli occhi rivolti al mare
nel pianto dei padri.
***
Date la colpa al primo edificatore:
se la terra ci ha chiamato a danzare
nel sonno, lei è incolpevole.
Il tamburo più profondo
a scandire, la fuga, le scale,
occhi di cui ancora non so parlare.
Abbiamo soltanto le nostre
mani, per tremarci addosso
a tempo con le montagne.
Ora le guardiamo da fuori
queste case che sono state
nostre, in un altro tempo.
Le torneremo a vegliare come si fa
con lapide di madre,
piangendo come innamorati.
***
Sei venuto per sfilacciare
recidere, poi troncare
ora è dove prima stavo
un cimitero di memorie.
Sono oggi talea per il mondo
dente di leone al vento
con il volto rotto della mia terra
a spezzarmi le gambe.
Le radici su cui ho fondato
mi hanno scacciato altrove
e camminando adesso barcollo
nonostante tutto sia immobile.
Sei stato educatore crudele nell’istruirci
ora ci sono meno cose
poche stravaganze; si sta a grappoli,
ci guardiamo negli occhi.
***
E’ il giorno della partenza
e bisogna ricordare tutto
non dimenticare niente,
e ognuno porti quel che vuole,
ma in una valigia piccola
il mondo non ci entra;
nella mia giusto qualche ciottolo
per ricordare il peso di casa.
Francesco Sorana (1992, San Severino Marche) Cresco conoscendo la meraviglia quanto la noia tra le montagne dell’appennino marchigiano, a Visso (MC) finché non mi trasferisco a Bologna per laurearmi alla triennale in Antropologia Sociale con una tesi sul consumo di droghe sintetiche nell’area di Bologna e attualmente sto per conseguire la laurea magistrale in Sviluppo Locale e Globale con una tesi che analizza il populismo latinoamericano e i processi di sacralizzazione della politica, focalizzando lo studio attorno alla figura di Hugo Chávez in Venezuela. Nel 2016, a seguito del sisma il paese è distrutto, la mia famiglia perde la casa ed è costretta a traferirsi sulla costa, a Porto Potenza Picena. Leggo e scrivo da quando sono piccolo per immaginare altre realtà, o per riuscire a dire quelle che ho sulla punta delle dita. In futuro spero di riuscire a diventare giornalista di reportage. Ho partecipato in forma anonima per qualche anno alle attività del MEP (Movimento per l’Emancipazione della Poesia), e seguito corsi di scrittura creativa e collettiva, tra i quali il corso organizzato nel 2017 da Eks&Tra e WuMing2 che ha portato alla pubblicazione della raccolta di racconti “Dall’altra parte del mare”.
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Immagine in evidenza: Foto di Melina Piccolo.