Ho aperto la raccolta poetica di Enzo e ho sentito i profumi di Palestina e poi, sfogliando le pagine e i pensieri, quelli di altri luoghi martoriati dalla storia della stupidità umana: Damasco, Raqqa, Mosul, Kabul in un percorso di migrazione a est che torna poi, nelle pagine finali all’amata Palestina. Scrivo amata, senza timore di esagerare perché dalle parole dell’autore traspare l’afflato e la passione per quella terra, ingredienti con i quali dipinge i suoi quadri poetici. In sottofondo prevalgono le tinte decise della denuncia e della compassione, nell’accezione latina di “patire insieme”, soffrire insieme ai più deboli: ai ragazzi poco più che fanciulli che con le fionde affrontano mostri d’acciaio corazzati, agli amanti impossibili da parti opposte del muro e alle giovani donne “di mondi lontani vicine nei cartoni di periferia senza tetto e confini senza via di uscita”.
La sua poesia poco astrae nel rappresentare i drammi della guerra e dell’oppressione, ma resta ben piantata nella terra portandoci a soffermare lo sguardo su una natura varia e ricca: carrubi, timo, serpillo, gigli e gundelia, natura presente in molti dei componimenti, sfondo sereno ai destini funesti degli uomini, invocazione alla pacificazione ai piedi della sua bellezza. Per la selezione delle cinque poesie tratte dal lavoro di Enzo, ho scelto tre sguardi sulla Palestina occupata e due di diversa ispirazione per offrire al lettore ulteriori spunti di vista sulla varietà di contenuti della silloge.
“Ti porterò un fiore, Ahmed” è l’accorato omaggio a un ragazzo caduto nell’intifada dei sassi con cui si apre la raccolta che contiene la dichiarazione programmatica del poeta: “ti porterò un fiore, amico con i petali del rimpianto, io che ho scelto la pace alla pietra, il canto dell’usignolo alla spada” . Il filo conduttore della pacificazione si snoda nelle situazioni successive come quella dell’amore impossibile di un soldato “dalla divisa verde oliva” per una donna “col velo chiaro” nel “Il pozzo di Jamal”, per culminare nell’ultima poesia della raccolta, “Fiori nelle granate” . Qui il metallo del corpo vuoto della granata, simbolo di dolore e oppressione, si redime diventando amorevole casa per “fragili semi” , terra e semi dai quali può germogliare “linfa nuova”, “speranza nuova” di pace attraverso il sacrificio di sé.
In “La lunga notte di John” l’autore cambia prospettiva e ambientazione spostandosi a Kabul, entrando, come una “birra scura” nei pensieri e nella paure di John, militare americano assediato dai ricordi dei grigi bombardamenti.
Infine “Le altre donne” è un omaggio corale alle “donne di confine, alle donne infibulate, alle donne dei caporali, alle donne di un euro al giorno” con cui Enzo si avvicina al dolore e all’indignazione con toni netti e chiari senza cadere nella facile retorica.
Ti porterò un fiore, Ahmed
Ti porterò un fiore, Ahmed
porterò un fiore sulla collina
dove posasti l’anima
e il tuo cuore riposa tra i sassi
un fiore sulla cima violata
dove la fionda degli shebab
nel tempo d’intifada
sfidava il vento tagliando l’aria
ti porterò il più bel fiore del campo
rosso o bianco lucente o amaranto
dove prima del coraggio
lanciavamo aquiloni di seta
e l’unica sfida era l’alto
sempre più alto cielo la meta.
Nell’aria, il suono dolente del rabab
triste nenia sulle note dello schianto
a scandire il pianto per prematura sorte.
ti porterò un fiore, amico
con i petali del rimpianto
io che ho scelto la pace alla pietra
il canto dell’usignolo alla spada.
La fragranza dolce del miral
essenza di vita sui cieli di Hebron
onda fraterna d’infinita speranza.
Dorme, Ahmed, angelo della sera
dorme tra i sassi, sull’altura della morte
sognando un’altra primavera.
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Il pozzo di Jamàl
Erano stranieri in terra loro
bandiere diverse sullo stesso suolo.
Amanti.
La divisa verdeoliva e il velo chiaro
si fondevano al tramonto
nell’unico abbraccio, il solo sincero.
Un bacio e una carezza
e un’altra ancora, fino a sera tarda
sul muretto dell’orto di Jamàl
nella calma apparente, invitante
complice la ruffiana luna.
Vite sospese nella dolcezza di un’idea.
All’improvviso, la marea del piombo
sull’altura di Jabàlya
la terra tremava, orchidea
oltraggiata dai rapaci rombanti
mentre i gigli selvatici
chinavano la cresta, riverenti
recisi dalla furia delle granate.
Il pozzo presso il timo
miraggio d’acqua per zolle avare
ridotto a cumulo di ignare pietre.
Verdure e agrumi senza più linfa
antichi olivi colpiti al cuore
poltiglia di colori sul manto rosso
la terra che muore.
Il lamento di Jamàl per quello scempio
ferita aperta sulla striscia violata:
i mandorli della sua giovinezza
l’olmo di agognata frescura
le foglie per la shisha, i carrubi, la verzura
perduti per sempre.
Il roseto della madre che con cura
coglieva i petali per l’unguento
senza più vita.
Sgomento per quella tortura.
E quando la notte sovrana
abbraccerà i cieli e le rovine
e tutto inghiottirà
nel suo mantello d’ombre
si placherà il pianto della Madre Terra
china sui corpi dei figli esangui
mentre l’incanto della luna
riprenderà chiarore
irradiando luce nuova
sul campo di sventura.
Nel silenzio, l’ora triste del distacco.
Sotto le macerie dell’orto confine
l’ultimo bacio degli amanti
eterno amplesso di libertà.
Pozzo di Jamàl: terra di Palestina
dove l’acqua è ancora scura.
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Fiori nelle granate
La donna dalle mani carnose
nel cupo silenzio della tregua
guarniva il metallo spinato
col corpo vuoto di granata
cimelio ricordo dell’osceno muro
barriera crudele di confine.
Le dita arcuate a raggrumare terra
fango poltiglia per fragili semi
amorevolmente
condivano le calotte sterili
dello sprezzante ordigno.
Humus ripieno di linfa nuova.
L’arma urticante
vaso per variopinti fiori
metamorfosi di pace
esorcismo alle lacrime di tanti lutti.
Tra i filari squadrati di Bilin
il germoglio della vita
sullo stagno dei potenti.
Nel giardino monumento alla memoria
l’odore acre del gas lacrimogeno
ha lasciato il posto al profumo dei fiori
fiori nelle granate, speranza nuova.
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La lunga notte di John
E’ notte sulla laguna
senza luna il cielo
è notte sulla laguna.
Una birra scura, per favore
senza schiuma
fuori piove è notte fresca
l’alba ancora straniera
la saracinesca del bar chiude fra un’ora.
Un po’ d’olio per quella fottuta saracinesca
grigia come il cielo dei bombardieri
arrugginita come baionetta usurata
l’umidità corrode, anche i ricordi
ieri è troppo vicino e la paura non demorde.
La testa grigia scoppia e le tempie pulsano.
E’ notte sul porto
una stanza ad ore, forse…
se mi sporgo nel dolore
la ringhiera non reggerà l’urto
è notte fonda e la ghiglia
della mantella non vedrà il fondo
lambirà la sponda di nebbia
zuppa di fanghiglia e alghe nere
sarò risorto prima del tonfo.
E’ notte sulla laguna
era solo un vuoto d’aria
o l’eco della battaglia di Kabul
il rumore sordo del corpo
straziato sulla mia divisa bruna
il grido aspirato, interrotto
del nemico abbattuto, crocifisso.
Siamo morti entrambi su quell’altura
e non me ne sono accorto.
E’ notte, John, senza luna
una stanza ad ore, nell’attesa…
un’altra birra (fresca) per favore
prima di sbattere
quella dannata saracinesca scura
troppe luci sempre accese…
è ancora notte, John, lunga notte
buona fortuna.
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Le altre donne…
Sono le donne sui marciapiedi
nelle notti di bracieri accesi
lustrini e corpi come spesa
sono le donne di confine
a piedi nudi nei ghetti neri
pietre e sassi sotto il sole
fonti d’acqua come meta
sono le donne infibulate
bambine spente dagli occhi grandi
marchiate a vita nel loro cuore
coscienze scavate senza pudore
sono le donne da un euro al giorno
macchine e solventi ore ed ore
primavere al chiuso di sotterranei
sono le donne dei caporali
schiene ricurve al solleone
canti di rabbia verso i padroni
suole bucate nell’arsa terra
sono le donne alla finestra
ad aspettare l’amore senza illusioni
guerra di uomini sempre uguali
dolore e bastoni senza tregua
selva di sterili emozioni
sono le donne dei carmeli
celle chiuse senza sole
o troppo sole nei bianchi segreti
canzoni e preci nell’estasi attesa
sono le donne di mondi lontani
vicine nei cartoni di periferia
senza tetto e confini
senza via d’uscita
sono le donne dal coperto volto
i veli che attraversano il cuore
sono le donne dell’altrove
dei cieli neri, senza speranza
orizzonti estremi di donne
le altre donne, tante
nelle stanze attesa della vita
nei volti scuri dell’ignoranza.
Enzo Bacca nasce a Squinzano nel 1964. Appassionato cultore delle di belle arti, letteratura e storia, ha pubblicato i volumi di poesia: Pensieri giovanili (1993), Profondo blu (2010), Orizzonti estremi (2013), L’orto di Jamal (2014). Ha vinto moltissimi premi in concorsi letterari, per la poesia edita ed inedita. Vive e lavora a Larino, in Molise.
Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo.
Foto dell’autore a cura di Enzo Bacca.