Selezione da “Il Labirinto” di Hasan Atiya Al Nassar (Ensemble 2018) a cura di Bartolomeo Bellanova

DSC07577 Pavone di marmo, Longobardo, XIII Cent. Paleo-Christian symbol, Santa Guila, Brescia

Copertina Il Labirinto

Hasan Atiya Al Nassar

Ur (Nassiriya, Iraq) 1954 – Firenze 2017. A Baghdad ha pubblicato le prime opere di narrativa e poesia, collaborando come giornalista a varie riviste. Fuggito dall’Iraq nel 1979, ha vissuto per molti anni esule o rifugiato politico a Firenze, dove si è laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Ha conseguito inoltre un dottorato di ricerca all’Istituto Orientale di Napoli. Le sue opere sono state pubblicate, oltre che in Italia e in Iraq, anche in Siria, Libano, Tunisia, Iran e Regno Unito. È stato iscritto alla “Lega degli scrittori, giornalisti e artisti democratici Iracheni”. E’ stato  membro del comitato di consulenza della rivista Al-Menfiyon (Esuli), pubblicata in Libano. Ha fatto parte della Camerata dei poeti toscani. Ha collaborato alla rivista Testimonianze, fondata da Ernesto Balducci, ed è stato redattore della rivista di poesia comparata Semicerchio, per cui curava la sezione di poesia araba. Ha partecipato a numerose conferenze dedicate al mondo islamico e alla cultura araba. Durante il conflitto del Golfo del 1991 è stato intervistato dal Tg2 per Pegaso, come interprete del pensiero degli esuli iracheni.

Inoltre nel 2004 è stato protagonista del corto-documentario Shàar al manfa, girato da Silvana Grippi e Jimmy Ciak. Cortometraggio proiettato per la prima volta in occasione dell’estate fiorentina 2005, alla quale ha personalmente partecipato.

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Non è casuale se, contrariamente al solito, ho inserito in apertura di queste note i dati biografici e bibliografici di Hasan Atiya Al Nassar, senza la lettura dei quali la sua poesia risulterebbe di molto difficile comprensione.

Hasan è poeta dell’esilio, del distacco obbligato a venticinque anni dalla sua terra a causa della feroce dittatura di Saddam Hussein, terra che porterà con sé per sempre in ogni sua più intima espressione di dolore e di gioia.

La sofferenza per la lontananza dai suoi amati Tigri e Eufrate, da quelle radici generose di civiltà e storia, si fa ancora più profonda davanti alle immagini di distruzioni, morte e macerie della guerra del Golfo del 1991 osservate attraverso lo schermo impotente della televisione e diventa un grido di straniamento a tutto, persino a se stesso, costretto ad invecchiare lontano, irrimediabilmente lontano dall’Iraq.

La lunga permanenza fiorentina, lo studio e la scrittura della lingua italiana, ne fanno un autentico poeta del nostro tempo che, senza mai perdere le proprie più profonde origini, vive la precarietà degli affetti e degli amori e la solitudine dell’uomo moderno di fronte alla caducità della vita, non senza toni di ironia a stemperare la profonda amarezza del suo cantare.

La sua voce è una voce senza confini o patrie anguste, i suoi versi sono capaci di smuovere nel profondo perché “ i poeti non hanno terra, né patria e casa i poeti possiedono lucchetti con chiavi perdute camminano sull’ultimo filo del buio, tornano sul primo filo dell’aurora; come possono abbandonare questo campo di Eden?”

Foto Hasan

Vergine nell’inverno

Come possono abbandonare i poeti questo campo?

Nuvole zampillano dalle pietre come sorgente

come acqua silenziosa limpida

come neve

come terreno arido incendiato dopo l’ultima

battaglia, che entra in una tenda, o forse

nella trincea ferma come il ghiaccio.

In ogni angolo di una casa di acqua

di sabbia, di fuscelli più alti della mia

statura e più bassi della finestra.

Io sono l’Iraq, l’orientale smarrito

nella notte di questo campo.

Io non conosco il giorno della città

perché l’Iraq piove pioggia furiosa e tu, amore

mio, sei amante dell’eco invernale,

desideri che i rami si accostino ai rami

l’acqua verso l’acqua e la pietra verso l’argento,

smarrita quando sei vicina a una tenda

con la vergine anima scivoli verso il ghiaccio

orientale fra due fiumi, mentre la notte è pioggia,

vestiario dell’inverno.

Allora verranno i poeti;

ma come possono abbandonare

questo campo?

Dal deserto al deserto

dal mare al mare

vedendo le donne l’ultimo poeta afflitto

camminando è appoggiato sull’ultimo filo scuro

sul primo filo dell’orizzonte dell’alba.

Non conosce altra direzione

non vede un cavallo su un prato, né un sasso.

Come può fuggire un inverno?

Cervara nuda nel freddo e neve

chi la guarda si vergogna della sua nudità.

Abiti invernali nudi.

Cervara scrivi il mio nome nudo

davanti ogni entrata di casa, davanti ogni sasso

che sta fermo, davanti ogni ghiaccio

nudo come le donne.

Ma come possono i poeti abbandonare questo campo?

L’anima dell’inverno uccide lo spirito dell’inverno

lo spirito dell’estate uccide l’anima dell’estate

ma una primavera sta muovendo verso le pietre

bianche, sta muovendo verso l’involucro di un fiore.

Passa l’inverno, passano primavere ed estati.

Un cammino di stormo di nomadi

che indossano le camicie bianche;

volano gli indumenti.

Ha gridato una ragazzina: “io sono pura

vergine bianca come la pietra

perché ho rubato l’alba di Cervara

mentre curava la sua ferita con l’acqua”.

Perché l’Eufrate e Nassiria sono rimasti deserti

sono rimasti soli come lo stupro

come vedove dell’inverno

che assaggiano la mattina

con il pianto

e la chiudono recitando il Corano.

Ma Cervara recita il Cantico dei Cantici

senza lacrime,

perché vola, galleggia nella sera vergine d’aria,

vola, amante di tutti i poeti.

I poeti non hanno terra, né patria e casa

i poeti possiedono lucchetti con chiavi perdute

camminano sull’ultimo filo del buio,

tornano sul primo filo dell’aurora;

come possono abbandonare questo campo

di Eden?

 

Ombretto e cenere

Il filo argentato ha superato

l’età nella testa.

Ha portato città, fiumi, villaggi, acque secche.

Dormono sotto la testa.

E tutto è così

tra le città belle e le città distrutte.

Ho sognato

per esser patria tua e mia,

ma tu hai trovato città senza terra,

piantagioni senza contadino.

Ma io sogno per esser terra e terreno

nei miei sogni e nei tuoi sogni.

Anni sono passati nella mia testa.

Filo di argento

tu sei il mio bel campo

perché

ho chiuso gli occhi per vederti

nella malinconia lieta.

Ho chiuso gli occhi

per non veder contadini nudi senza terra.

Ho chiuso gli occhi

per non vedere i pescatori quando non cantano l’acqua.

Quante volte ho chiuso gli occhi

per non vedere una palma sotto la quale dormono

i pastori feriti senza stanchezza.

Io sono stanco senza stanchezza.

Io sono estraneo con le donne

che mi hanno amato.

Sono estraneo,

sono estraneo con me stesso.

Estraneo se sogno,

estraneo se mi sveglio.

Il cielo vasto,

la terra senza confini.

Tu sei il cielo senza terra

e le tue stelle sono d’argento.

Il filo argentato cresce ancora nella mia testa,

straniero nella terra felice,

ma quante volte ho chiuso i miei occhi

per vederti vicino.

Fili di argento per i miei capelli

e nessuno mi vede.

Questo per me resta.

 

L’ultimo pianto di Ur

Mi è sembrata una terra,

era terra,

terra dei Sumeri,

spogliata dei suoi fiumi, nuda.

Mi ha avvicinato la terra d’Iraq,

tradita, già vogliosa di fiori

seminati dai propri cari.

Ho udito le tenebre che difendono i miei morti,

nel mio sangue.

Danza e canti all’alba,

per un addio eterno,

per addormentare il mio sogno.

Cresce e muore il fuoco.

Come è bello, meraviglioso il Mediterraneo,

non ha memoria dei defunti.

Fratello, ti vedo:

non camminare oltre,

il cimitero del mare ti aspetta.

Fango salato, marcio,

il grano spezzato lascia spighe mai più fertili.

Femminilità improduttiva.

Ho visto sudari, come camicie appese a un filo,

aprirsi sotto i raggi di una luna d’argento

che spinge il tramonto

verso l’isola innocente,

che nessuno ha mai calpestato

con i neri stivali di chi sta arrivando.

Spuntano ombre di contadini meridionali,

spuntano reliquie di corpi

che vagano nel fango dell’Iraq.

Così terminano le acque d’Iraq

come termina la luce

della luna d’argento.

Avrei voluto vedere le donne vergini

quando liberano dal loro ventre

bambini che stringono in mano coltelli di marmo.

Avrei voluto ascoltare il pianto del Sud,

come orfani smarriti sul valico montuoso.

Ho ascoltato sorrisi bruciare lo scandalo del fuoco,

tra il sangue e il fango di Ur traditrice,

come la donna che ci inganna sin dall’inizio

prima di abbandonarci sul crocevia del sentiero.

Ur, chi non ti ha conosciuto,

chi non ha conosciuto Abramo, Gilgamesh,

Hasan al Nassar

non può capire cosa sia la sofferenza.

Tu sei Adamo nella luce cieca

e la vita che hai avuto

non è uguale a quella di tutti.

Un’altra vita persa nella battaglia perduta.

Mi sono sembrate le stelle che tradiscono

come vergini stuprate

sotto un tessuto della notte lunare.

Nessun volto assomiglia mai al profilo della luna.

Le vergini liberano fanciulli

che tengono ancora in mano

coltelli di marmo.

Ho visto coltelli galleggiare sopra l’Iraq,

nudo d’acqua,

spogliato,

nudo di valli di fango, terra, sabbia, maiolica,

scontro di alberi con altri alberi,

innamorati con altri innamorati,

poeti con altri poeti,

piante con altre piante,

erbe con altre erbe.

Non saranno più vivi.

Ora è morto l’inno, il canto da una collina vicina.

I sogni terminano

con violenza.

Tristezza nei volti quando inizia il litigio.

Tristezza nei volti nella notte sumerica,

quando ci sarà il canto trionfale,

inno alla gioia.

Vi dico: i tamburi devono conservare il silenzio.

Vi dico: sei Adamo nella luce cieca.

Avrei voluto non ascoltare un’onda triste.

Certo, i grembi gonfi andranno

e torneranno presto al fango di Babilonia.

Porteranno cadaveri di ghiaccio.

State tranquilli, io vi dico, fate calmare la vostra voce,

che la torre di Babele inizia a prendere fuoco,

si stringe la sua cintura e risorgono i morti di Ur.

Figlia di Ur, dove vaghi?

La vita che tu cerchi non la troverai.

Riempi il tuo ventre di bambini.

Ti dovrò dare vesti per il tuo corpo,

pane e cibo, per la tua verginità.

Tu sei un braciere che si estingue nel gelo,

una porta che non sostiene il vento e la tempesta.

Per tutta la vita ti seguirò come straniero,

passo dopo passo, come un’ombra sconosciuta.

Non voglio sentirti come un serpente

che scivola sul mio corpo.

Non ti devi avvicinare dove io sono,

dove io vado non devi andare.

Dove io entro non devi entrare.

Io seguo ogni tuo passo,

uomo di frontiera

stanco di un’altra notte senza frutti.

L’amore è duro, rigido, nudo.

Ebbene, sono già cadute gocce d’acqua.

Grandine sul grano spezzato.

Su un Iraq quieto

il fango sepolcrale si è alzato, nel buio silenzioso,

a coprire il mio corpo,

a uccidermi lentamente.

Il fango sepolcrale sta camminando come il buio.

Io trattengo il fiato o un grido:

perché l’amore era duro anche nel sogno.

La terra tra due fiumi è sembrata spogliata

della sua acqua,

caduta, sconfitta, crollata.

Ho detto addio all’Iraq, ho udito l’inno di Ur traditrice.

Per la battaglia, l’incendio si alzerà lentamente.

È caduta, è caduta Ur, la grande,

il paese che è come vuole essere.

 

Separazione totale

Sparirà il corpo dal suo desiderio

Sparirà dalla sua smania

Fuggirà il mare dalla sua spiaggia

Fuggirà dal suo arenile

Svanirà la palma dal suo tronco

Svanirà dalle sue radici

Scompariranno i ritornati dal Paradiso

L’ubriaco fuggirà dal suo ultimo bicchiere

La parola fuggirà dal suo Libro Sacro

Fuggirà dal suo Corano

L’amore era ingannato e l’innamorato sparirà

Fuggirà l’assassino perché non ha una vittima

Gli amanti spariranno perché non c’era amore

Scompariranno gli alberi dal loro giardino

Le rovine si dissolveranno perché non avranno più la terra

Il poeta senza parole fuggirà

Senza femminilità le donne spariranno

Dentro questi corpi c’è un cuore che se sarà isolato morirà.

 

È la solitudine

Da solo davanti un fiume freddo,

da solo dove vanno le donne

una dopo l’altra e lui resta da solo,

da solo nel buio dove non vede se la luce è vicina,

da solo all’ombra degli alberi,

da solo con la tristezza e da solo con la gioia,

da solo con la guerra che arriva,

da solo con radio Tre,

da solo con il freddo disumano dell’inverno,

da solo contro la zanzara

che nel buio conosce la strada che porta a lui,

da solo sull’autobus XY,

da solo vivo o morto,

da solo con la ragazza che lo spoglia

come se gli togliesse la pelle

e lo abbandona nella vasca bianca e fredda,

da solo se volesse dire no,

da solo con la febbre che si alza,

da solo in un letto distrutto.

Da solo con la pioggia che gli cade sulla testa,

da solo quando mette la testa sotto il cuscino,

da solo se guarda l’Iraq lontano dai suoi occhi

da solo quando la povertà lo attacca,

da solo con il suo calice assassino,

da solo se vuole mangiare pane e cipolla,

da solo quando canta De André.

Da solo quando nell’orto del suo cuore

sogna la vita serena che mai avrà,

da solo chiuderà la porta per sempre.

Sarà sabato o domenica, lunedì o martedì,

mercoledì, giovedì o venerdì,

da solo quando viene in sua memoria

la sua amica Margherita,

resta lei da sola

e quando accadrà sarà da solo.

Da solo quando le stelle ferite cadono nel fiume.

Da solo sulla panchina in piazza con il suo amico Baret,

da solo se volesse chiudere gli occhi,

da solo quando l’Iraq non è più il suo paese

e orfano esule si chiede vivere o morire?

È la solitudine, è l’eterna sofferenza,

come i tempi finiti dei caduti.

 

Il taxi

E il taxi è ancora in ritardo.

Vacillante di tacchi e di cuore

Giuseppina attende,

contraddicendosi

tra rossori

e mento proteso al cielo.

Fa caldo,

e nessuno l’ebbe mai davvero:

tragedia di ragazza

troppo alta

per saper intenerire

implorare rifugio

o carezze.

Velata da un corpo non suo,

di vichinga,

sedeva pudica e sola:

il futuro lacerato

da arance sanguigne

e scialbi cieli nordici.

E fu suo padre

(mai menestrello

ammesso a corte)

che legandole

con filo spinato le ali,

la spinse ad altri mondi.

Nelle sue carni soffrirono

fanciulle d’Africa

mutilate

e violate,

arabe donne rinchiuse.

Giuseppina e i suoi libri.

Nessuno sapeva, nessuno sospetta.

“È strana”

bisbigliano i colleghi

se incauta o stanca

volta le spalle:

“Non è come noi”.

Né strana né matta:

incompleta.

La sete di tutto

la tormenta da sempre.

Di notte si chiede

che sarebbe stato di lei

in altri tempi,

altri luoghi,

con altre origini,

altro padre…

Non saresti stata tu,

Giuseppina!

Il taxi è crudelmente in ritardo.

Fa caldo.

Affannata conti

e riconti

le occasioni perdute,

gli uomini che ti desiderarono,

le piccole cose normali

che avresti voluto,

i cancelli che si chiusero…

Al tavolino del bar

qualcuno spreme

uno spicchio di limone.

L’aria d’improvviso

si fa agra e rabbrividisce:

sollievo.

Dal fondo della via

un giovane uomo

(pelle scura,

camicia a fiori

troppo stretta)

si illumina vedendoti.

Ti chiama.

Un tè alla menta,

Giuseppina?

Bizzarri.

Diversi ed uguali.

Lui eternamente povero,

tu per sempre persa

nel disordine dei tuoi fogli,

di giornali sbiaditi,

eppure…

 

Eppure lui sa

chi si nasconde

nell’alto corpo di tedesca:

una bimbetta siciliana

avida di tramonti e parole,

di poesia.

Grembiulino bianco

e troppi sogni:

fantasticavi di avere

un bimbo tuo,

un giorno,

forse.

Il taxi non è ancora arrivato.

Non importa.

Qualche schermaglia,

un piccolo imbarazzo

al momento di pagare

il conto.

Fa caldo, altro tè?

 

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Principali pubblicazioni di Hasan Atiya Al Nassar :

Il massacro delle oche selvatiche, Lega degli scrittori, giornalisti e artisti democratici iracheni, Firenze, 1986.

Poesie dell’esilio, DEA , Firenze, 1991.

Letteratura dell’esilio: il caso iracheno, CUSI, Milano, 1996.

con aa.vv., Quaderno Mediorientale I, collana “Cittadini della Poesia”, Loggia de’ Lanzi, Firenze, 1998.

con aa.vv., Immigrati siamo tutti, DEA, Firenze, 2000.

Roghi sull’acqua babilonese, a cura di Giulio Gori, DEA, Firenze, 2003 (II ed. 2004).

con aa.vv., Antologia dei poeti dell’arca, a cura di Lia Bronzi, Bastogi, Foggia, 2004.

con aa.vv., Ai confini del verso, a cura di Mia Lecomte, Le Lettere, Firenze, 2006.

Tra le riviste sulle quali ha pubblicato proprie poesie, oltre a riviste universitarie, ci sono: Plurale,  Le Pagine, El Ghibli, Sagarana, Testimonianze, e alcuni giornali in lingua araba di Regno Unito, Siria, Libano, Iraq, Iran e Tunisia.

Il labirinto, prima ed. La penultima, Firenze, 2013; seconda ed. Matisklo, Mallare (sv), 2015.

con aa.vv., Affluenti. Nuova poesia fiorentina, a cura di Edoardo Olmi e Marco Incardona, Ensemble, Roma, 2016.

 

 

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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