Hasan Atiya Al Nassar
Ur (Nassiriya, Iraq) 1954 – Firenze 2017. A Baghdad ha pubblicato le prime opere di narrativa e poesia, collaborando come giornalista a varie riviste. Fuggito dall’Iraq nel 1979, ha vissuto per molti anni esule o rifugiato politico a Firenze, dove si è laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Ha conseguito inoltre un dottorato di ricerca all’Istituto Orientale di Napoli. Le sue opere sono state pubblicate, oltre che in Italia e in Iraq, anche in Siria, Libano, Tunisia, Iran e Regno Unito. È stato iscritto alla “Lega degli scrittori, giornalisti e artisti democratici Iracheni”. E’ stato membro del comitato di consulenza della rivista Al-Menfiyon (Esuli), pubblicata in Libano. Ha fatto parte della Camerata dei poeti toscani. Ha collaborato alla rivista Testimonianze, fondata da Ernesto Balducci, ed è stato redattore della rivista di poesia comparata Semicerchio, per cui curava la sezione di poesia araba. Ha partecipato a numerose conferenze dedicate al mondo islamico e alla cultura araba. Durante il conflitto del Golfo del 1991 è stato intervistato dal Tg2 per Pegaso, come interprete del pensiero degli esuli iracheni.
Inoltre nel 2004 è stato protagonista del corto-documentario Shàar al manfa, girato da Silvana Grippi e Jimmy Ciak. Cortometraggio proiettato per la prima volta in occasione dell’estate fiorentina 2005, alla quale ha personalmente partecipato.
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Non è casuale se, contrariamente al solito, ho inserito in apertura di queste note i dati biografici e bibliografici di Hasan Atiya Al Nassar, senza la lettura dei quali la sua poesia risulterebbe di molto difficile comprensione.
Hasan è poeta dell’esilio, del distacco obbligato a venticinque anni dalla sua terra a causa della feroce dittatura di Saddam Hussein, terra che porterà con sé per sempre in ogni sua più intima espressione di dolore e di gioia.
La sofferenza per la lontananza dai suoi amati Tigri e Eufrate, da quelle radici generose di civiltà e storia, si fa ancora più profonda davanti alle immagini di distruzioni, morte e macerie della guerra del Golfo del 1991 osservate attraverso lo schermo impotente della televisione e diventa un grido di straniamento a tutto, persino a se stesso, costretto ad invecchiare lontano, irrimediabilmente lontano dall’Iraq.
La lunga permanenza fiorentina, lo studio e la scrittura della lingua italiana, ne fanno un autentico poeta del nostro tempo che, senza mai perdere le proprie più profonde origini, vive la precarietà degli affetti e degli amori e la solitudine dell’uomo moderno di fronte alla caducità della vita, non senza toni di ironia a stemperare la profonda amarezza del suo cantare.
La sua voce è una voce senza confini o patrie anguste, i suoi versi sono capaci di smuovere nel profondo perché “ i poeti non hanno terra, né patria e casa i poeti possiedono lucchetti con chiavi perdute camminano sull’ultimo filo del buio, tornano sul primo filo dell’aurora; come possono abbandonare questo campo di Eden?”
Vergine nell’inverno
Come possono abbandonare i poeti questo campo?
Nuvole zampillano dalle pietre come sorgente
come acqua silenziosa limpida
come neve
come terreno arido incendiato dopo l’ultima
battaglia, che entra in una tenda, o forse
nella trincea ferma come il ghiaccio.
In ogni angolo di una casa di acqua
di sabbia, di fuscelli più alti della mia
statura e più bassi della finestra.
Io sono l’Iraq, l’orientale smarrito
nella notte di questo campo.
Io non conosco il giorno della città
perché l’Iraq piove pioggia furiosa e tu, amore
mio, sei amante dell’eco invernale,
desideri che i rami si accostino ai rami
l’acqua verso l’acqua e la pietra verso l’argento,
smarrita quando sei vicina a una tenda
con la vergine anima scivoli verso il ghiaccio
orientale fra due fiumi, mentre la notte è pioggia,
vestiario dell’inverno.
Allora verranno i poeti;
ma come possono abbandonare
questo campo?
Dal deserto al deserto
dal mare al mare
vedendo le donne l’ultimo poeta afflitto
camminando è appoggiato sull’ultimo filo scuro
sul primo filo dell’orizzonte dell’alba.
Non conosce altra direzione
non vede un cavallo su un prato, né un sasso.
Come può fuggire un inverno?
Cervara nuda nel freddo e neve
chi la guarda si vergogna della sua nudità.
Abiti invernali nudi.
Cervara scrivi il mio nome nudo
davanti ogni entrata di casa, davanti ogni sasso
che sta fermo, davanti ogni ghiaccio
nudo come le donne.
Ma come possono i poeti abbandonare questo campo?
L’anima dell’inverno uccide lo spirito dell’inverno
lo spirito dell’estate uccide l’anima dell’estate
ma una primavera sta muovendo verso le pietre
bianche, sta muovendo verso l’involucro di un fiore.
Passa l’inverno, passano primavere ed estati.
Un cammino di stormo di nomadi
che indossano le camicie bianche;
volano gli indumenti.
Ha gridato una ragazzina: “io sono pura
vergine bianca come la pietra
perché ho rubato l’alba di Cervara
mentre curava la sua ferita con l’acqua”.
Perché l’Eufrate e Nassiria sono rimasti deserti
sono rimasti soli come lo stupro
come vedove dell’inverno
che assaggiano la mattina
con il pianto
e la chiudono recitando il Corano.
Ma Cervara recita il Cantico dei Cantici
senza lacrime,
perché vola, galleggia nella sera vergine d’aria,
vola, amante di tutti i poeti.
I poeti non hanno terra, né patria e casa
i poeti possiedono lucchetti con chiavi perdute
camminano sull’ultimo filo del buio,
tornano sul primo filo dell’aurora;
come possono abbandonare questo campo
di Eden?
Ombretto e cenere
Il filo argentato ha superato
l’età nella testa.
Ha portato città, fiumi, villaggi, acque secche.
Dormono sotto la testa.
E tutto è così
tra le città belle e le città distrutte.
Ho sognato
per esser patria tua e mia,
ma tu hai trovato città senza terra,
piantagioni senza contadino.
Ma io sogno per esser terra e terreno
nei miei sogni e nei tuoi sogni.
Anni sono passati nella mia testa.
Filo di argento
tu sei il mio bel campo
perché
ho chiuso gli occhi per vederti
nella malinconia lieta.
Ho chiuso gli occhi
per non veder contadini nudi senza terra.
Ho chiuso gli occhi
per non vedere i pescatori quando non cantano l’acqua.
Quante volte ho chiuso gli occhi
per non vedere una palma sotto la quale dormono
i pastori feriti senza stanchezza.
Io sono stanco senza stanchezza.
Io sono estraneo con le donne
che mi hanno amato.
Sono estraneo,
sono estraneo con me stesso.
Estraneo se sogno,
estraneo se mi sveglio.
Il cielo vasto,
la terra senza confini.
Tu sei il cielo senza terra
e le tue stelle sono d’argento.
Il filo argentato cresce ancora nella mia testa,
straniero nella terra felice,
ma quante volte ho chiuso i miei occhi
per vederti vicino.
Fili di argento per i miei capelli
e nessuno mi vede.
Questo per me resta.
L’ultimo pianto di Ur
Mi è sembrata una terra,
era terra,
terra dei Sumeri,
spogliata dei suoi fiumi, nuda.
Mi ha avvicinato la terra d’Iraq,
tradita, già vogliosa di fiori
seminati dai propri cari.
Ho udito le tenebre che difendono i miei morti,
nel mio sangue.
Danza e canti all’alba,
per un addio eterno,
per addormentare il mio sogno.
Cresce e muore il fuoco.
Come è bello, meraviglioso il Mediterraneo,
non ha memoria dei defunti.
Fratello, ti vedo:
non camminare oltre,
il cimitero del mare ti aspetta.
Fango salato, marcio,
il grano spezzato lascia spighe mai più fertili.
Femminilità improduttiva.
Ho visto sudari, come camicie appese a un filo,
aprirsi sotto i raggi di una luna d’argento
che spinge il tramonto
verso l’isola innocente,
che nessuno ha mai calpestato
con i neri stivali di chi sta arrivando.
Spuntano ombre di contadini meridionali,
spuntano reliquie di corpi
che vagano nel fango dell’Iraq.
Così terminano le acque d’Iraq
come termina la luce
della luna d’argento.
Avrei voluto vedere le donne vergini
quando liberano dal loro ventre
bambini che stringono in mano coltelli di marmo.
Avrei voluto ascoltare il pianto del Sud,
come orfani smarriti sul valico montuoso.
Ho ascoltato sorrisi bruciare lo scandalo del fuoco,
tra il sangue e il fango di Ur traditrice,
come la donna che ci inganna sin dall’inizio
prima di abbandonarci sul crocevia del sentiero.
Ur, chi non ti ha conosciuto,
chi non ha conosciuto Abramo, Gilgamesh,
Hasan al Nassar
non può capire cosa sia la sofferenza.
Tu sei Adamo nella luce cieca
e la vita che hai avuto
non è uguale a quella di tutti.
Un’altra vita persa nella battaglia perduta.
Mi sono sembrate le stelle che tradiscono
come vergini stuprate
sotto un tessuto della notte lunare.
Nessun volto assomiglia mai al profilo della luna.
Le vergini liberano fanciulli
che tengono ancora in mano
coltelli di marmo.
Ho visto coltelli galleggiare sopra l’Iraq,
nudo d’acqua,
spogliato,
nudo di valli di fango, terra, sabbia, maiolica,
scontro di alberi con altri alberi,
innamorati con altri innamorati,
poeti con altri poeti,
piante con altre piante,
erbe con altre erbe.
Non saranno più vivi.
Ora è morto l’inno, il canto da una collina vicina.
I sogni terminano
con violenza.
Tristezza nei volti quando inizia il litigio.
Tristezza nei volti nella notte sumerica,
quando ci sarà il canto trionfale,
inno alla gioia.
Vi dico: i tamburi devono conservare il silenzio.
Vi dico: sei Adamo nella luce cieca.
Avrei voluto non ascoltare un’onda triste.
Certo, i grembi gonfi andranno
e torneranno presto al fango di Babilonia.
Porteranno cadaveri di ghiaccio.
State tranquilli, io vi dico, fate calmare la vostra voce,
che la torre di Babele inizia a prendere fuoco,
si stringe la sua cintura e risorgono i morti di Ur.
Figlia di Ur, dove vaghi?
La vita che tu cerchi non la troverai.
Riempi il tuo ventre di bambini.
Ti dovrò dare vesti per il tuo corpo,
pane e cibo, per la tua verginità.
Tu sei un braciere che si estingue nel gelo,
una porta che non sostiene il vento e la tempesta.
Per tutta la vita ti seguirò come straniero,
passo dopo passo, come un’ombra sconosciuta.
Non voglio sentirti come un serpente
che scivola sul mio corpo.
Non ti devi avvicinare dove io sono,
dove io vado non devi andare.
Dove io entro non devi entrare.
Io seguo ogni tuo passo,
uomo di frontiera
stanco di un’altra notte senza frutti.
L’amore è duro, rigido, nudo.
Ebbene, sono già cadute gocce d’acqua.
Grandine sul grano spezzato.
Su un Iraq quieto
il fango sepolcrale si è alzato, nel buio silenzioso,
a coprire il mio corpo,
a uccidermi lentamente.
Il fango sepolcrale sta camminando come il buio.
Io trattengo il fiato o un grido:
perché l’amore era duro anche nel sogno.
La terra tra due fiumi è sembrata spogliata
della sua acqua,
caduta, sconfitta, crollata.
Ho detto addio all’Iraq, ho udito l’inno di Ur traditrice.
Per la battaglia, l’incendio si alzerà lentamente.
È caduta, è caduta Ur, la grande,
il paese che è come vuole essere.
Separazione totale
Sparirà il corpo dal suo desiderio
Sparirà dalla sua smania
Fuggirà il mare dalla sua spiaggia
Fuggirà dal suo arenile
Svanirà la palma dal suo tronco
Svanirà dalle sue radici
Scompariranno i ritornati dal Paradiso
L’ubriaco fuggirà dal suo ultimo bicchiere
La parola fuggirà dal suo Libro Sacro
Fuggirà dal suo Corano
L’amore era ingannato e l’innamorato sparirà
Fuggirà l’assassino perché non ha una vittima
Gli amanti spariranno perché non c’era amore
Scompariranno gli alberi dal loro giardino
Le rovine si dissolveranno perché non avranno più la terra
Il poeta senza parole fuggirà
Senza femminilità le donne spariranno
Dentro questi corpi c’è un cuore che se sarà isolato morirà.
È la solitudine
Da solo davanti un fiume freddo,
da solo dove vanno le donne
una dopo l’altra e lui resta da solo,
da solo nel buio dove non vede se la luce è vicina,
da solo all’ombra degli alberi,
da solo con la tristezza e da solo con la gioia,
da solo con la guerra che arriva,
da solo con radio Tre,
da solo con il freddo disumano dell’inverno,
da solo contro la zanzara
che nel buio conosce la strada che porta a lui,
da solo sull’autobus XY,
da solo vivo o morto,
da solo con la ragazza che lo spoglia
come se gli togliesse la pelle
e lo abbandona nella vasca bianca e fredda,
da solo se volesse dire no,
da solo con la febbre che si alza,
da solo in un letto distrutto.
Da solo con la pioggia che gli cade sulla testa,
da solo quando mette la testa sotto il cuscino,
da solo se guarda l’Iraq lontano dai suoi occhi
da solo quando la povertà lo attacca,
da solo con il suo calice assassino,
da solo se vuole mangiare pane e cipolla,
da solo quando canta De André.
Da solo quando nell’orto del suo cuore
sogna la vita serena che mai avrà,
da solo chiuderà la porta per sempre.
Sarà sabato o domenica, lunedì o martedì,
mercoledì, giovedì o venerdì,
da solo quando viene in sua memoria
la sua amica Margherita,
resta lei da sola
e quando accadrà sarà da solo.
Da solo quando le stelle ferite cadono nel fiume.
Da solo sulla panchina in piazza con il suo amico Baret,
da solo se volesse chiudere gli occhi,
da solo quando l’Iraq non è più il suo paese
e orfano esule si chiede vivere o morire?
È la solitudine, è l’eterna sofferenza,
come i tempi finiti dei caduti.
Il taxi
E il taxi è ancora in ritardo.
Vacillante di tacchi e di cuore
Giuseppina attende,
contraddicendosi
tra rossori
e mento proteso al cielo.
Fa caldo,
e nessuno l’ebbe mai davvero:
tragedia di ragazza
troppo alta
per saper intenerire
implorare rifugio
o carezze.
Velata da un corpo non suo,
di vichinga,
sedeva pudica e sola:
il futuro lacerato
da arance sanguigne
e scialbi cieli nordici.
E fu suo padre
(mai menestrello
ammesso a corte)
che legandole
con filo spinato le ali,
la spinse ad altri mondi.
Nelle sue carni soffrirono
fanciulle d’Africa
mutilate
e violate,
arabe donne rinchiuse.
Giuseppina e i suoi libri.
Nessuno sapeva, nessuno sospetta.
“È strana”
bisbigliano i colleghi
se incauta o stanca
volta le spalle:
“Non è come noi”.
Né strana né matta:
incompleta.
La sete di tutto
la tormenta da sempre.
Di notte si chiede
che sarebbe stato di lei
in altri tempi,
altri luoghi,
con altre origini,
altro padre…
Non saresti stata tu,
Giuseppina!
Il taxi è crudelmente in ritardo.
Fa caldo.
Affannata conti
e riconti
le occasioni perdute,
gli uomini che ti desiderarono,
le piccole cose normali
che avresti voluto,
i cancelli che si chiusero…
Al tavolino del bar
qualcuno spreme
uno spicchio di limone.
L’aria d’improvviso
si fa agra e rabbrividisce:
sollievo.
Dal fondo della via
un giovane uomo
(pelle scura,
camicia a fiori
troppo stretta)
si illumina vedendoti.
Ti chiama.
Un tè alla menta,
Giuseppina?
Bizzarri.
Diversi ed uguali.
Lui eternamente povero,
tu per sempre persa
nel disordine dei tuoi fogli,
di giornali sbiaditi,
eppure…
Eppure lui sa
chi si nasconde
nell’alto corpo di tedesca:
una bimbetta siciliana
avida di tramonti e parole,
di poesia.
Grembiulino bianco
e troppi sogni:
fantasticavi di avere
un bimbo tuo,
un giorno,
forse.
Il taxi non è ancora arrivato.
Non importa.
Qualche schermaglia,
un piccolo imbarazzo
al momento di pagare
il conto.
Fa caldo, altro tè?
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Principali pubblicazioni di Hasan Atiya Al Nassar :
Il massacro delle oche selvatiche, Lega degli scrittori, giornalisti e artisti democratici iracheni, Firenze, 1986.
Poesie dell’esilio, DEA , Firenze, 1991.
Letteratura dell’esilio: il caso iracheno, CUSI, Milano, 1996.
con aa.vv., Quaderno Mediorientale I, collana “Cittadini della Poesia”, Loggia de’ Lanzi, Firenze, 1998.
con aa.vv., Immigrati siamo tutti, DEA, Firenze, 2000.
Roghi sull’acqua babilonese, a cura di Giulio Gori, DEA, Firenze, 2003 (II ed. 2004).
con aa.vv., Antologia dei poeti dell’arca, a cura di Lia Bronzi, Bastogi, Foggia, 2004.
con aa.vv., Ai confini del verso, a cura di Mia Lecomte, Le Lettere, Firenze, 2006.
Tra le riviste sulle quali ha pubblicato proprie poesie, oltre a riviste universitarie, ci sono: Plurale, Le Pagine, El Ghibli, Sagarana, Testimonianze, e alcuni giornali in lingua araba di Regno Unito, Siria, Libano, Iraq, Iran e Tunisia.
Il labirinto, prima ed. La penultima, Firenze, 2013; seconda ed. Matisklo, Mallare (sv), 2015.
con aa.vv., Affluenti. Nuova poesia fiorentina, a cura di Edoardo Olmi e Marco Incardona, Ensemble, Roma, 2016.