Se Giulio Regeni non è più solo Giulio Regeni – di Bartolomeo Bellanova

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Giulio Regeni

È il 25 gennaio 2016 quando un ragazzo di ventotto anni e belle speranze accademiche, Giulio Regeni, ricercatore all’Università di Cambridge scompare a Il Cairo. Sta svolgendo nella capitale egiziana una ricerca sui sindacati indipendenti nella realtà scivolosa e difficile di un paese ferreo alleato delle “democrazie occidentali”,  controllato da un rigido apparato militare di sicurezza che distende i suoi tentacoli in tutti i campi della vita civile e  che adotta in modo sistematico e spietato la sparizione di ogni voce scomoda e la censura di blogger e giornalisti non allineati alla verità ufficiale del “faraone”, il generale Abd al Fattah al Sisi. Sotto il suo regime gli assassini politici sono quadruplicati rispetto ai tempi di Mubarak e la popolazione è sottoposta a rigide restrizioni in ogni tipo di attività sindacale, sociale o vagamente politica.

Per comprendere la pentola a pressione che è l’Egitto attuale, almeno la sua parte più giovane, cittadina e istruita, bisogna ritornare per un attimo a ammirare lo spettacolo di Piazza Tahrir tra gennaio e febbraio 2011 quando una pacifica rivoluzione di popolo scalza dal potere l’immarcescibile colonnello Hosni Mubarak. Il vento delle primavere arabe si esaurirà con la stessa irruenza di come è giunto e le illusioni di cambiare un paese sempre governato dai militari dopo la seconda guerra mondiale, cadono miseramente dopo un anno di presidenza Morsi, espressione dei Fratelli Musulmani. Il 3 luglio 2013 Al Sisi e i suoi uomini in soli quattro giorni prendono in potere e l’Egitto torna a essere governato dai militari. Da allora l’orologio della storia è tornato a prima del 2011 e la frustrazione delle giovani generazioni aumenta di giorni in giorno.

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Il corpo di Giulio viene ritrovato otto giorni dopo, il 3 febbraio, alla periferia della capitale egiziana. Le torture e le sevizie ripetute sono talmente profonde e invasive che Paola Deffendi, la sua mamma coraggio, dichiara di avere riconosciuto il figlio dalla punta del naso.

Seguono settimane di indignazione collettiva nazionale, di promesse e dichiarazioni a rete unificate da parte dell’allora primo ministro Matteo Renzi: su questo orrendo delitto sarà fatta piena luce e i colpevoli non rimarranno impuniti. La non collaborazione egiziana unita a goffi tentativi di depistaggio che vanno dall’incidente stradale, al delitto a sfondo sessuale fino a quello del rapimento da parte di una banda di rapitori maldestri, tutti stranamente uccisi prima che potessero parlare, culmina nel ritiro del nostro ambasciatore l’8 aprile 2016.

Per Giulio in questi mesi si mobilita Amnesty International insieme a tante organizzazioni e associazioni espressione della società civile italiana slegata dagli schemi triti della politica nazionale. Il volto sorridente di Giulio appare in scuole e municipi e in Egitto, sfidando i pericoli della repressione di regime, tanti giovani e blogger si mobilitano per lui, che viene percepito come uno di loro, non come un occidentale in cerca di scoop.

Passa l’estate e iniziano a arrotolarsi in silenzio diversi striscioni di “Verità per Giulio Regeni” sul noto sfondo giallo e nero di Amnesty International che erano rimasti esposti sulle facciate di diversi Municipi sparsi per la penisola. Il 28 dicembre 2016 arrivano, come un sasso scagliato in uno stagno, le dichiarazioni di Mohamed Abdallah, il capo del sindacato autonomo degli ambulanti che ha incontrato ripetutamente Giulio durante la sua ricerca sul campo: “Sì, l’ho denunciato e l’ho consegnato agli Interni e ogni buon egiziano, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso. […]. E’ un ragazzo straniero che faceva domande strane e stava con gli ambulanti per le strade, interrogandoli su questioni che riguardano la sicurezza nazionale. […]Quando io l’ho segnalato ai servizi di sicurezza, facendo saltare la sua copertura, lo avranno ucciso le persone che lo hanno mandato qua[1]”.   Giulio incontra per la prima volta Abdallah in 13 ottobre e, dopo i primi approcci, inizia a conoscere meglio il suo interlocutore che avrebbe richiesto per sé una sorta di “tangente” su un finanziamento ottenuto dalla sua organizzazione sindacale grazie all’interessamento di Giulio, che  il 18 dicembre definisce il sindacalista “una miseria umana” su un file del suo computer.

[1] Da “L’espresso” del  28/12/2016 – “Orgoglioso di aver denunciato Regeni” di Brahim Maarad

 

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Il 25 gennaio dopo un anno di amaro in bocca dalla sparizione di Giulio ci troviamo insieme agli amici di Amnesty International a reclamare “Verità e giustizia per Giulio Regeni” con la fiaccole nelle mani intirizzite, tante fiammelle che insieme si accendono per reclamare che non si spenga il faro nella ricerca dei colpevoli del suo assassinio. Questa collettiva preghiera laica  che si alza da Roma, Bologna, Udine, Fiumicello (paese natale di Giulio) e da tante altre città, sembra aprire uno spiraglio di speranza per l’accertamento della verità quando il 3 febbraio 2017 i genitori di Giulio dichiarano che c’è una lista di nomi su cui indagare. Ma non è così: la Procura de Il Cairo non collabora con quella di Roma e non concede la possibilità agli inquirenti italiani di assistere agli atti istruttori, né di porre eventuali domande ai poliziotti, formalmente non indagati, in quanto la legge locale non lo prevede. E la politica resta in assordante silenzio senza esercitare adeguate pressioni, tant’è che a inizio di luglio la sorella Irene torna a Cambridge con lo striscione invocando finalmente verità per il fratello Giulio e scrive su Twitter: “Da Cambridge, dove le voci tentennano a farsi sentire, alzo più forte la mia[2], ma la prestigiosa Università inglese continua la sua lunga latitanza e nessuna posizione ufficiale a suo sostegno viene espressa.

 

Nel bel mezzo dei giorni tradizionalmente dedicati alle ferie estive quando i leader politici sono solitamente impegnati nelle sagre campagnole, nelle crociere in barca a vela o nelle immersione in qualche paradiso tropicale, avviene invece un’improvvisa accelerazione della vicenda.

Il 14 agosto il governo italiano decide di inviare immediatamente  al Cairo il nuovo ambasciatore Giampaolo Cantini alla luce dei nuovi documenti che la procura egiziana ha appena trasmesso a quella di Roma che sarebbero relativi a nuovi interrogatori di poliziotti. Il faldone voluminoso,  in lingua araba, che va tradotto in tempi necessariamente non immediati, potrebbe anche contenere ricostruzioni fantastiche da mille e una notte, ma la velocità di reazione del nostro Ministero degli Esteri è esemplare.

La famiglia di Giulio definisce la decisione italiana una mossa che “calpesta la nostra dignità” ; “Sempre più lutto!” scrive Paola Deffendi in un post sul proprio profilo Facebook.

I colpi di scena non finiscono qui. Il 15 agosto il  “New York Times” pubblica una dettagliata inchiesta del proprio corrispondente a Il Cairo Declan Walsh dal titolo “Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?”,  in cui si ricostruisce con precisione, risalendo anche a messaggi privati, la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane (la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, “l’equivalente egiziano della Cia” ) che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come “in competizione tra loro”. Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. “Nelle settimane successive alla morte di Regeni”, si legge, “gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana”. “Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi […]”.  Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano[3].

Giunge tempestiva la smentita di Palazzo Chigi alle affermazioni del NYT: “Nei contatti tra amministrazione USA e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’omicidio di Regeni non furono mai trasmessi elementi di fatto, come ricorda tra l’altro lo stesso giornalista del New York Times, né tantomeno prove esplosive[4]”.

Quest’affermazione in gergo politichese non smentisce la sostanza dell’articolo che non individua infatti uno o più colpevoli, ma restringe in modo pressoché certo le piste da percorrere per arrivare alla verità. Dietro all’omicidio di Giulio potrebbero esserci apparati deviati dei servizi segreti egiziani che avrebbero potuto operare senza l’approvazione di al Sisi, messo al corrente dell’accaduto solo successivamente. Oppure Giulio è finito suo malgrado nei giochi di morte scatenati dalla rivalità tra le tre agenzie di intelligence e sicurezza egiziane, oppure la sua esecuzione così efferata è stato un messaggio chiaro, il segnale che sotto al Sisi nessun occidentale può permettersi di “giocare” con la sicurezza nazionale. Questo spiegherebbe un dettaglio rivelato al NYT da una fonte a Roma: “Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. Volevano che venisse ritrovato?[5]. Infine è stata fatta anche un’ipotesi più remota che vedrebbe Giulio caduto nel tranello di qualche potenza straniera (leggasi Francia o Gran Bretagna) che hanno tutto l’interesse a boicottare le relazioni italo – egiziane.

Ma perché per tanti mesi il nostro governo se così ben informato ha preferito non fare pressioni significative sui generali egiziani?

La politica degli stati, al di là delle ipocrisie delle dichiarazioni ufficiali da strombazzare sui media amici, non è dettata dal rispetto dei diritti umani. Un braccio di ferro con al Sisi avrebbe significato fare saltare la collaborazione per contrastare l’Isis e per l’individuazione dei terroristi islamici, ma soprattutto avrebbe avuto un peso economico fortemente negativo. Nel 2015 l’Italia esporta  verso l’Egitto armi e munizioni non militari per un valore totale pari a sette milioni di euro, collocandosi al quarto posto tra i principali fornitori del paese nordafricano. Gli affari vanno avanti indisturbati anche dopo l’omicidio di Giulio e dopo la risoluzione approvata l’8 marzo dal Parlamento Europeo che invita gli stati membri a “vietare l’esportazione di qualsiasi tipo di materiale di sicurezza e aiuto militare in Egitto.”. Secondo la ricostruzione effettuata dal blog VICE NEWS nell’articolo di Matteo Civillin del 2/9/2016 basata su informazioni commerciali rese note dall’ISTAT, ad aprile 2016 il paese guidato da al Sisi ha ricevuto dall’Italia 2.450 kg di armi e munizioni per un valore totale di oltre un milione di euro. Non deve confondere la risoluzione votata a luglio 2016 dal Parlamento italiano e subita dal Governo senza una chiara presa di posizione, che sospende la fornitura di pezzi di ricambio per i caccia F16 all’Egitto e che viene accolta con toni minacciosi dal generale, in quanto la risoluzione adottata  “non è in linea con la cooperazione tra le autorità dei due Paesi che stanno indagando su Regeni, nè con la relazione speciale fra i nostri Paesi. L’ambasciatore d’Egitto a Roma è stato incaricato a dare un messaggio importante all’Italia[6]”.

Non solo armi, sono 130 le imprese italiane presenti in Egitto che hanno in corso gare d’appalto per 2,5 miliardi di dollari[7]. Il ruolo di principale giocatore spetta al colosso energetico nazionale, l’ENI che ha investimenti in Egitto per almeno 15 miliardi di euro[8] ed è presente da cinquanta anni nel paese africano. Poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto ENI ha annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas a Zohr, al largo delle coste egiziane, contenente 850 miliardi di metri cubi di gas in grado di soddisfare la quasi totalità della domanda interna per i prossimi decenni. Sul tema è chiaro il citato articolo del NYT quando afferma che ENI entrò direttamente in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, Amministratore Delegato di ENI “parlò per almeno tre volte con il Presidente egiziano. Quella che veniva percepita come una collaborazione tra ENI e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensione all’interno del governo italiano. Membri del Ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni. ‘Eravamo in guerra e non solo con gli egiziani’ riferisce al NYT una delle fonti[9].

 

A queste motivazioni si potrebbe obiettare affermando che sarebbe bastato un consolato per gestire i rapporti economici, l’invio dell’ambasciatore è invece un atto di riabilitazione politica di al Sisi, un vero schiaffo alla famiglia, agli amici, agli attivisti che hanno continuato a credere nella possibilità della verità.  Per motivare adeguatamente la scelta del nostro governo occorre allargare il campo ad uno scomodo vicino dell’Egitto, la Libia, o per meglio dire, agli stati regionali che ormai compongono la Libia e che si trovano in stato di conflitto permanente tra loro. Dopo il rovesciamento di Gheddafi avvenuto nel 2011 ad opera di una coalizione di cui sono promotori Francia, Gran Bretagna e Usa e alla quale partecipa malvolentieri anche l’Italia, seguono anni di guerra tra milizie armate, ognuna espressione di una regione o anche solo di una municipalità, le cui alleanze si stipulano e si stracciano nel tempo di un tramonto. I soggetti forti che emergono sono due: il governo di Fayez Al Sarraj riconosciuto dall’ONU e principale interlocutore dell’Italia che controlla la regione di Tripoli e il generale Khalifa Haftar, amico dell’Egitto e sostenuto da Francia, Gran Bretagna e Russia, che governa Tobruq e la Cirenaica (la regione a est, che confina con l’Egitto).

Il 12 dicembre 2016 viene nominato Marco Minniti nuovo ministro degli interni e la politica italiana sull’immigrazione cambia passo. Preoccupato per la probabile debacle elettorale causata dal forte aumento degli sbarchi di migranti e dei continui attacchi di un’opposizione che nuota sull’onda del rigurgito di razzismo e nostalgia per l’uomo forte al potere ormai sdoganato ed esposto senza vergogna, il governo italiano firma un accordo triennale a inizio febbraio con al Sarraj che prevede un gruzzolo di oltre 200 milioni di euro da impiegare per il training, l’equipaggiamento, l’assistenza alla guardia costiera libica, la fornitura di droni per il controllo dei confini (soprattutto la rotta che passa per Ciad e Sudan, valvola di sfogo del Corno d’Africa), il rimessaggio delle malconce navi della guardia costiera oltre all’adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza.  Mattia Toaldo dell’European Council on Foreign Relations afferma che “ci sono in Libia 20 campi profughi ufficiali gestiti dal ministero dell’interno più molti in mano alle milizie[10].  I nostri politici sanno bene che non possono definire le cose con il loro nome appropriato e allora insistono a chiamare “centri di accoglienza” o “campi profughi” quei lager organizzati in cui vengono trattenuti i migranti in condizioni di schiavitù, violentate le donne, vessati in ogni modo uomini e bambini.  I passi successivi dell’approccio “securitario” e interventista del nuovo ministro passano attraverso il codice di condotta delle ong che salvano i migranti nel Mediterraneo che di fatto ne limita profondamente l’operatività e che non è stato firmato, tra le altre, da Medici senza Frontiere e il rafforzamento dell’azione di interdizione della guardia costiera libica coadiuvata, se occorre, dalla presenza di navi italiane anche in acque territoriali libiche. Si permette la creazione di una zona di soccorso in mare (la sigla inglese è “Sar – Search And Rescue”) dove i libici possono intervenire per intercettare i gommoni e riportare nei lager i migranti.

Questo è lo snodo: dall’altra parte della Libia tra Bengasi e il confine con l’Egitto il generale Haftar lancia immediatamente un avvertimento all’Italia accusando al Sarraj di tradimento e minacciando di bombardare le navi italiane se si fossero spinte in acque libiche. Anche lui rivendica la sua parte di soldi minacciando di usare la “bomba gommoni” se le sue richieste non vengono considerate, anche se la traversata per Lampedusa sarebbe molto più impegnativa partendo dalla zona sotto il controllo del suo esercito.  Ecco che spunta nel piano Minniti l’importanza del ruolo dell’Egitto che arma e sostiene Haftar. Come si può fare lavorare in pace al Sarraj e la sua guardia costiera nel chiudere ogni varco ai disperati in arrivo con la costante minaccia di attacchi da parte degli amici degli egiziani e della riapertura della rotta delle traversate del deserto dal Niger, in disuso dal 2015?

Ecco perché non si poteva attendere ancora ad inviare un ambasciatore che parlasse direttamente con al Sisi e riattivasse buoni rapporti diplomatici e di intelligence.

Sul solco degli accordi italiani  si giunge all’accordo del 27 agosto al vertice di Parigi tra Italia, Francia, Germania e Spagna alla presenza dei capi di Stato di Niger e Ciad. I quattro paesi europei si impegnano al sostegno economico di Niger e Ciad con fornitura di logistica militare per  rafforzare i controlli ai confini nord con la Libia affinché i migranti vengano intercettati, identificati e rispediti nei paesi d’origine ancor prima del loro arrivo in Libia, anche prevedendo una presenza militare diretta sul campo da parte delle potenze europee, qualora occorra, come voluto espressamente da Macron. Stando a fonti locali dell’Organizzazione internazionale dei migranti, sono circa 400mila i profughi “contabilizzati” dalle autorità di Tripoli, ma quelli rimasti imprigionati nell’inferno di prigioni senza alcun diritto alla completa mercé di violentatori, sadici e ricattatori, secondo stime ufficiose confermate anche da fonti di intelligence italiane, sarebbero tra gli 800mila e il milione[11]. Sono numeri da Terzo Reich, numeri per i quali è corretto usare la definizione di genocidio legalizzato. Tant’è che questa condanna a morte per migliaia di persone è stata definita da alcuni “la soluzione finale” con un parallelo alla pianificazione nazista dello sterminio degli ebrei che fa rabbrividire. Su questa rimozione di colpe e responsabilità, su questo uso spregiudicato di bande armate che fino a ieri erano i famigerati scafisti e oggi agghindati con la divisa nuova rappresentano con una definizione altisonante la “guardia costiera libica”, l’Europa divisa su tutto si è ricompattata.

È grave che nel Paese della “Libertè, Egalitè, Fraternitè” si sia consumato uno strappo così profondo a quei valori di civiltà e legalità in barba al diritto internazionale che impedisce i respingimenti verso paesi che non hanno firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dell’uomo.  È ancora più grave che ad aver organizzato tutto questo siano gli stessi governanti europei difensori dei diritti della civiltà occidentale come ripetono con imbarazzante ipocrisia dopo ogni attentato.

Ed è gravissimo che questo nuovo passo inaugurato dal ministro Minniti per “gestire” i flussi migratori sia passato nel disinteresse di gran parte dell’opinione pubblica e con l’esplicito appoggio di diversi opinion leader “progressisti” quali Ernesto Galli della Loggia e Massimo Gramellini che nella seguitissima rubrica “Il caffè” su “Il Corriere della Sera” del 2 settembre scrive, riferendosi appunto a Minniti: Mentre gli altri brandiscono l’ondata migratoria come arma elettorale, lui si sforza di gestirla. Trasmette la sensazione, insolita per un politico italiano, di sapere quello che dice e persino quello che fa. Non cerca di piacere e proprio per questo finisce per essere stimato anche da coloro a cui non piace. Sta realizzando l’impresa accarezzata invano da Renzi: sedurre la destra rimanendo a sinistra. Ma Renzi era troppo democristiano e indisciplinato per riuscirci. Serviva un comunista di ferro come lui”.   La cruda realtà dei numeri che prescinde da ogni altra considerazione sta dalla loro parte perché è evidente il primo risultato concreto della politica Minniti: la riduzione del numero di sbarchi in Italia ad agosto 2017 passati da 21.294 dello stesso mese dell’anno precedente a soli 3.914 (Fonte: Ministero dell’Interno

 

Ecco perché Giulio Regeni non è più solo Giulio Regeni ma si è moltiplicato in ognuno di noi quando vogliamo comprendere accettando anche di correre dei rischi, quando “ci mettiamo la faccia” e il cuore e non ci accontentiamo di essere sudditi irresponsabili. Ecco perché il potere non può più negare che Giulio Regeni è un sacrificio sacrificabile sull’altare di questa nuova storia europea che preannuncia orizzonti di morte. L’ha detto chiaramente il Ministro degli Esteri Angelino Alfano il 4 settembre davanti alla Commissione Esteri di Camera e Senato riunite in seduta comune che “l’Egitto è partner ineludibile dell’Italia” aggiungendo che l’omicidio di Regeni è stata una “grave ferita”, parole false che non cambiano la cruda realtà dei fatti.

Caro Giulio di “miserie umane”, come tu hai scritto, è pieno il mondo.

Bartolomeo Bellanova – 6 settembre 2017

 

[2] Da “Il Corriere della Sera del 04/07/2017

[3] Da “Il Corriere della Sera” del 17/08/2017 articolo di Davide Casati

[4] Da “Repubblica” del 15/087/17

[5] Da “il Corriere della Sera” del 17/08/2017 articolo di Davide Casati

[6] Da “Il Sole 24 Ore” del 1/7/16 articolo di Marco Ludovico

[7] Da “L’Espresso” del 21/08/2017 articolo di Emanuela Scridel

[8] Da VICE on line del 23/08/2017 articolo di Lorenzo Declich

[9] Da “il Corriere della Sera” del 17/08/2017 articolo di Davide Casati

[10] Da “La Stampa” del 03/02/2017 articolo di Francesca Paci

[11] Da “L’Avvenire” del 03/09/2017 Reportage di Nello Scavo.

 

La foto in evidenza è della nostra webmaster, Micaela Contoli, di OpenMultimedia

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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