La riflessione sul rapporto inscindibile tra le donne e la narrazione scritta parte da quel punto esatto in cui la soggettività femminile sembra attingere dalla parola scritta risorse individuali e sociali di riscatto, di costruzione d’identità e ribaltamento di ruoli e stereotipi di genere.
Osservare il fenomeno della scrittura da un’angolazione che è quella della “scrittura al femminile” ci conduce inevitabilmente verso la cosiddetta letteratura femminile migrante, che mette a fuoco la condizione peculiare delle donne migranti e/o in esilio, nel suo declinarsi in narrazioni “oltre confine”. Qualsiasi forma di scrittura oltre confine, di fatto si pone come strumento culturale che permette alle donne di incontrarsi nell’apertura alle differenze, siano esse di genere, etniche o religiose. Questo punto di vita, la scrittura oltre confine, infatti si rappresenta come il quid della frontiera altra, che costringe a un diverso modo di guardare se stesse e il mondo circostante!
Guardando infatti a quelle che sono le letterature postcoloniali femminili affermatesi negli ultimi anni e osservando le donne della nuova ondata migratoria, che lambiscono le nuove tragiche frontiere, ci si rende conto quanto la scrittura abbia permesso al soggetto donna di mettere in scena un approdo a sé anche e soprattutto a ridosso di un filo spinato o di una guerra. Ma cosa mette in scena la scrittura? Quale abuso di guerra e religione, quale perdita di sé e quale nuovo approdo a sé, quale possibilità di riscatto e quale impossibilità di riscrivere la propria storia è infatti scenario migliore per questo stesso genere di scrittura delle differenze e delle frontiere altre?
Questi ritratti di scrittura femminile migrante rappresentano quindi un punto d’incontro tra: “quello che è messo in gioco e quello che è sollecitato, quello che è messo in dubbio e quello che è già là, tra impossibilità e possibilità di essere e di relazionarsi attraverso la parola scritta”.[1]
Attraverso la narrazione scritta si mettono in luce asimmetrie complesse e possibilità di cambiamento, si dissotterra ciò che si tende a occultare, ma soprattutto si pone in evidenza l’indicibile della propria condizione di donna sulla scena della vita migrante e/o in esilio. L’osservatorio della scrittura da parte delle donne migranti rappresenta dunque un punto d’osservazione privilegiato da cui possiamo scorgere l’inenarrabile complessità delle condizioni in cui vivono realmente queste donne in terra straniera. Ricostruire una trama, un ordito di connessioni all’interno di realtà variegate e precarie, può rappresentare una possibilità, una speranza, un valore aggiunto, che ci concede la libertà di annodare fili o di sciogliere nodi, in una prospettiva di genere interculturale (e quindi di inclusione) che sappia farsi carico dell’idea che la differenza sessuale non necessariamente ne escluda altre, anzi spesso include quelle razziali, etniche, sociali e via dicendo.[2]
Dunque nel chiedersi se la scrittura – come dice Clotilde Barbarulli[3] – possa costruire davvero per le donne “una casa di carta in divenire”, occorre anche domandarsi con quale corpo, lingua, cultura si va ad abitare questa “casa”. Narrare infatti l’esilio, il transito, il dolore, le identità, il tempo dei luoghi e del sé, non è mai così semplice. Di fatto significa esporsi là, dove spesso le parole faticano a oltrepassare i limiti di una lingua straniera, di una cultura altra o di un’autorità maschile già data. Ciò che tuttavia ci giunge, dalla letteratura femminile migrante e/o in esilio, dagli studi fatti sull’argomento e da tutti quei luoghi dove si riunisce la parola errante delle donne, è una voce forte e chiara, che interroga il desiderio di curare la propria storia frammentata, qualsiasi essa sia, attraverso le parola scritta.
“Gran parte della mia vita è stato un insieme di piccoli pezzi disseminati qua e là. In qualche modo tutti questi frantumi, qui hanno cominciato a prendere forma”.[4]
Ed è proprio così che la vita sembra prendere forma, oltrepassando i confini del bianco di una pagina vuota, raccattando i pezzi sparsi disseminati qua e là lungo il viaggio, dacché nella storia di una vita, come si legge in “Lettres Parisiennes”[5], “il est toujours question de l’exil, réel ou immaginaire”. Così si narrano tra loro Lelia Sebbar e Nancy Huston attraverso un carteggio fitto, perché soltanto la scrittura sembra dare loro maggiori sfaccettature per raccontare l’extraterritorialità tutta al femminile di cui sono portatrici. La scrittura conduce, dirà Cixous, nell’unico luogo possibile ”Là dove si scrive, dove si sogna, dove s’inventano nuovi mondi. È là che io vado”.[6]
Scrivere sarà quindi la capacità e la volontà di ciascuna di costruire quel “paese di parole” di cui parla il poeta Mahmoud Darwish,[7] abitando attraverso la parola scritta ogni frontiera possibile. Oltre il proprio mondo conosciuto, infatti, e al di là di ogni differenza, il paradigma narrativo femminile, si pone sempre come la capacità di un ritorno a sé nella dispersione dell’esistenza che investe di fatto ogni migrazione.
L’approccio narrativo dunque sembra essere un approdo possibile per affrontare la contingenza dell’erranza, dell’esilio, della non appartenenza. La scrittura viene vissuta quasi fosse un’insenatura tra gli scogli dove si è rifugiata una barca stracolma di umanità: voci, corpi, destini, che narrano il sé femminile infranto dalla fuga oltre confine e/o in esilio.
Tuttavia come restaurare l’infranto, con quale lingua se quella che ho non mi appartiene?[8] Come dare voce al silenzio e allo sgomento iniziale, si chiede Assia Djebar,[9] spettatrice delle violenze in Algeria e donna in esilio? Soltanto trasformando la propria scrittura in uno strumento efficace, inarrestabile, che dà fiato e voce a tutte le donne!
E come dare voce in una lingua straniera? Ritornando forse a essere analfabeti, come sostiene Agota Kristof[10], per imparare la lingua nemica, necessaria a non farci soccombere alla squallida esistenza e alla condizione di precarietà! Oppure – come scrivono C. Barbarulli e L. Borghi – interpretare questo come ”la necessità di diventare analfabeti di fronte all’alterità per imparare – a scrivere e leggere – le parole nuove della convivenza e del confronto.”[11]
Le donne scrivono comunque. Scrittrici di ieri e di oggi, sembrano toccarsi in un incrocio di corpi visioni e lingue diverse: Leila Sebbar, Assia Djebar, Hélène Cixous, Agota Kristof, Joan Anim-Addo, Warsan Shire, Bessie Head e altre ancora, popolano insieme a ogni donna migrante il viaggio della scrittura, quel viaggio unico e talvolta insostituibile che permette di abbattere la rigidità di confini invalicabili, scalfendo con le parole il trauma del viaggio, della memoria, del transito.
Scrivono mescolando tutte le lingue del mondo, se occorre. Narrano per lenire un’assenza o per dissotterrare il passato, per creare ponti al confine o per circoscrivere il nulla; scrivono per recidere fili spinati e per attraversare canali, narrano per approdare o semplicemente per progettare ancora un’altra partenza.
Un innesto di lingue e culture diverse che permette di mettersi in relazione, di oltrepassare una frontiera, collocando la narrazione scritta come insostituibile possibilità di arginare il caos delle loro esistenze. Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella, così ci ricorda la scrittrice slovacca Jamila Ockayovà.[12]
Nel tentativo di ”generare una stella dal caos”, l’approccio narrativo appare talvolta in bilico tra il detto e il non detto, tra una lingua e l’altra, tra una cultura e l’altra, tra il poter dire e il non poter essere detto, e tuttavia tutte sembrano navigare ostinate come Medea che
“ (…) ha navigato con la sua anima furente lontana dalla casa paterna, andando oltre i confini del mondo conosciuto”.[13]
Ed è oltre quel mondo conosciuto, che avviene l’apertura verso mondi possibili, che a mio parere risponde perfettamente al pensiero della poetessa Kathleen Fraser; e cioè dove la Fraser scrive che la lingua è un luogo di apertura, appropriazione e comprensione sia della propria soggettività che di altri mondi possibili.[14]
(…) La lingua divenne qualcosa di mio… Potevo leggere, e la vita della mia fantasia, della mia immaginazione si apriva completamente. Le parole mi venivano incontro e mi aprivano, aprivano la persona che sarei potuta essere, aprivano dei mondi possibili”.
Scrivere di sé, quindi, rivendicando il diritto di dire io, affacciarsi al mondo, riconoscersi come parte integrante di quel mondo, nasce dunque come possibilità e insieme difficoltà che le donne hanno di tessere il legame con se stesse e la realtà che le circonda. La ricchezza quindi di una scrittura femminile errante sembra raccontarci molto di più di quello che vediamo, poiché tocca l’esilio, l’erranza, la lingua, il riconoscimento, l’identità e la volontà della soggettività femminile di rappresentarsi sempre e comunque, come soggetto storico specifico, in qualsiasi condizione im-possibile, fosse pure a ridosso di uno squallido fino spinato.
BIBLIOGRAFIA
Barbarulli C., Borghi L., Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, CUEC, Cagliari, 2006,p.288.
Barbarulli C., Scrittrici migranti. La lingua, il caos, una stella, Edizioni ETS, Pisa, 2010.
Cixous H., Entre l’écriture, Edition Des Femmes, Paris, 1979.
Cixous H., La jeune née, ( avec Catherine Clément), U.G.E., Paris,1975.
Derrida J., Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.
Djebar A., Queste voci che mi assediano. Scrivere nella lingua dell’altro, Il Saggiatore, Milano, 2004.
Djebar A., Vasta è la prigione, Bompiani, Milano, 2001.
Darwish M., Darwish. Una trilogia palestinese,. Feltrinelli Editore, Milano, 2014.
Kristof A., L’analfabeta. Racconto autobiografico, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2005.
Kathleen Fraser in dialogo con Marina Camboni”, Smerilliana n. 5, 2005, pp. 147-159,
Ockayovà J., L’essenziale è invisibile agli occhi, Baldini&Castoldi, 1997.
Sebbar L., Je ne parle pas la langue de mon père, Julliard, Paris, 2003.
Sebbar L., Nancy H.,Lettres Parisiennes.Histories d’exil, Éditions J’AI LU, 2014.
Head B., Una questione di potere, Edizioni Lavoro, Roma, 1994.
Winterson J., Passione, Oscar Mondadori, Milano, 1997.
Zaccaria P., Narrare dalla soglia, in Caprettini G.P., Coalizzi G. (a cura di), Incontri di culture, Utet, Roma, 2001.
[1] Ferrario E., Possibilità dell’impossibilità. Un faccia a faccia tra Heidegger e Levinas,in “Archivio di Filosofia”, 1, 2010, pp. 223-244.
[2] https://leparoleelecose.wordpress.com/2015/05/28/praticare-la-differenza-donne-psichiatria-e-potere/
[3] Barbarulli C., Scrittrici migranti. La lingua, il caos, una stella, Edizioni ETS, Pisa, 2010.
[4] Head B., Una questione di potere, Edizioni Lavoro, Roma, 1994.
[5] Sebbar L., Nancy H., Lettres Parisiennes. Histories d’exil, Éditions J’AI LU, 2014.
[6] Cixous H., La jeune née, ( avec Catherine Clément), U.G.E., Paris, 1975.
[7] Darwish M., Darwish. Una trilogia palestinese,. Feltrinelli Editore, Milano, 2014.
[8] Derrida J., Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.
[9] Djebar A., Vasta è la prigione, Bompiani, Milano, 2001.
[10] Kristof A., L’analfabeta. Racconto autobiografico, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2005.
[11] Barbarulli C., Borghi L., Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, CUEC, Cagliari, 2006, p. 288.
[12]Ockayovà J., L’essenziale è invisibile agli occhi, Baldini&Castoldi, 1997, p.21.
[13] Winterson J., Passione, Oscar Mondadori, Milano, 1997.
[14] Kathleen Fraser, Dialogo con Marina Camboni, in “Smerilliana” n. 5, 2005, pp. 147-159.
Immagine in evidenza: Foto di Micaela Contoli.