Scivolando nell’abisso- intervista alla regista Alessandra Ferreri (a cura di Elena Cesari)

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E: Cosa significa heimat?

Il suono stesso della parola mi piaceva..Poi sono andata a ricercare il significato: è una parola tedesca che significa “sentirsi a casa”. Ne ho parlato con un amico tedesco che mi ha detto: guarda questo è un termine molto pericoloso perché ha due valenze: heimat può indicare sia la dimensione della maternità, del foyer, del luogo dove siamo nati e cresciuti, sia la dimensione di “casa propria”, dunque della proprietà, (per intenderci “l’essere padroni a casa propria”) per cui tutti quelli che sono fuori da questo microsistema non sono i benvenuti. E’ proprio questa ambivalenza che mi interessava…Questo mio amico mi ha sconsigliato di utilizzarlo, soprattutto in questo periodo, perché può veicolare il messaggio “andatevene via” a tutti coloro che hanno radici in paesi altri.

Eppure a me continuava a piacere questa nozione del sentirsi a casa per diversi motivi. Durante le prove, facendo teatro, io “mi sento a casa”, sento che questa dimensione è mia e mi piace. Ne ho parlato poi a Gustav Koenigs che mi ha appoggiata in questa scelta come sorta di rivendicazione della valenza positiva e non quella negativa che sta invece diventando preponderante in Germania. É grazie a lui se oggi ci chiamiamo cosi.

E: Anche se forse è un ragionamento storicamente un po’ azzardato, questa tua/vostra riappropriazione di un termine diventato ormai nell’uso quotidiano dispregiativo e discriminante verso un gruppo sociale, mi fa venire in mente l’operazione di rimessa in valore che, a partire dagli anni 90, il movimento glbt inglese ha fatto della parola queer e successivamente quello che della parola frocio ha fatto il movimento gay italiano). La lingua dunque come luogo di contrattazione e di continua ridefinizione del senso, come terreno primariamente politico, o politicamente primario dove le parole assumono differenti significati a seconda di chi, dove, quando e come vengono pronunciate.

A: Sì, è necessario non avere paura delle parole, ma essere in grado di utilizzarle e di rimetterle in valore. Inoltre heimat è un termine intraducibile non esiste in altre lingue. Per esempio in italiano abbiamo bisogno di una perifrasi per dire “ mi sento a casa”, invece il fascino di questa parola è che è tutto lì. E il significato di sentirsi bene, essere in un luogo in cui ci si radica, un radicamento virtuale che possa realizzarsi un poco ovunque. Per me era interessante utilizzarlo in Francia, io non sono francese, quindi nessuno mi potrebbe accusare d’aver scelto un termine d’intolleranza verso l’altro. Mi sento totalmente “europea”, nel senso che per me esiste un continuo migrare da uno stato all’altro…Sono nata in Italia , in questo momento vivo in Francia…

E: e hai fondato una compagnia con un nome tedesco…

A: Infatti!

E: Come nasce la compagnia?

A: Ho partecipato a diversi atelier di teatro in Italia con Naira Gonzalez, Cesare Ronconi, Cesar Brie, ho in seguito lavorato come attrice nella compagnia Teatro laboratorio officina ad Urgnano, Ma in tutto questo, mancava qualcosa che partisse da me. Perché nel lavoro di attrice ci si mette al servizio dell’idea creativa di qualqun’ altro, poi certo puoi contribuire attivamente alla creazione; ma non è la stessa cosa. Così ho frequentato un master di regia e scenografia in Francia e da lì ho capito che la direzione da prendere nel vasto mondo del teatro era la regia. L’obiettivo finale del master era quello di mettere in scena qualcosa. Non avevamo alcun tema da rispettare, né un limite per la forma. Da lì è nato lo spettacolo sul testo Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane.

La compagnia non ha una configurazione fissa, e penso che mai l’avrà. Al primo spettacolo ho lavorato con l’attrice Justine Alberti che partecipa pure al secondo progetto ancora in costruzione. Mi piace l’idea della fluidità di una compagnia che faccia appello a diversi artisti a seconda del progetto in programma. Contribuisce ad arricchirla, a farla crescere con punti di vista sempre diversi.

A: Il primo progetto nasce innanzitutto da una ragione che io definisco antropologica, ovvero dal mio vissuto personale. Mia madre, da una decina d’anni ormai, è malata gravemente di depressione: prima è stata catalogata come depressa, poi bipolare, poi border line, questa l’ultima etichetta al suo essere al mondo. Per cui sono molto familiare a questo tipo di malessere. Ad un certo stadio della sua malattia ho iniziato ad osservarla con un freddo distacco. Mia madre era diventata per me un caso clinico da analizzare. Ho avuto bisogno di prendere le distanze per poter sopravvivere e non precipitare nell’abisso con lei. Ho annotato il suo procedere quotidiano, come il fatto di rimanere tutto il giorno sdraiata sul divano, di non uscire mai di casa. Le era impossibile uscire di casa, l’unica traiettoria che compiva verso l’esterno era nel giardinetto d’ingresso di cui non valicava mai il cancello. Poi è stata sottoposta ad una serie di cure. All’inizio della malattia ha continuato per anni il suo lavoro come infermiera, sino a quando il filo si è spezzato e ha pianto tutte le sue lacrime in un “basta non ce la faccio più”. É entrata in una psichiatria dove è rimasta per un mese e mezzo. Da quel momento che tutto è cambiato per lei e per noi, la sua famiglia. Ne è uscita completamente automa. Gli psicofarmaci l’avevano cambiata. Aveva una lista di pillole da prendere prima, dopo, durante i pasti. Aveva la faccia completamente assente, i suoi movimenti erano robotici. In quel periodo ero l’unica delle sue figlie ancora a casa, quindi l’assistevo quotidianamente: aveva paura di fare la doccia, aveva allucinazioni che le facevan vedere i folletti in giardino, non era in grado di fare più nulla da sola. Fasi di caduta e di ripresa si continuano a susseguire da oramai dieci anni. Diverse volte mi ha chiamata dalla psichiatria in cui era ricoverata, io arrivavo e la vedevo legata, le facevano iniezioni dicesi tranquillizzanti, le hanno proposto pure l’elettroshock come estremo rimedio…

E: Esiste ancora l’elettroshock?

A: Sì. Le avevano proposto il trattamento quando hanno constatato la sua resistenza a qualsiasi altro psicofarmaco, diciamo che viene proposto come soluzione ultima, quando nessun altro farmaco fa più effetto.

E: Pensavo fosse un trattamento appartenente ormai al passato…

A: No. esiste ancora, ma i medici mi hanno detto che le tecnologie di oggi sono completamente diverse dal passato e quindi non è dannoso per le persone.

Comunque sono stata per lungo tempo molto familiare agli ambienti psichiatrici. Oltre a mia madre, a cui ovviamente mi lega un sentimento affettivo, in questi luoghi ho visto anche ragazzi, moltissime persone…Poi ho letto 4.48 ed è stato amore a prima vista e così ho pensato di lavorarci, accogliere la sfida di questa malattia e di questo testo molto complesso.

Ecco perché questo primo lavoro per me è così importante, radicato nel mio vissuto.

Il testo stesso è fortissimo, pieno di pathos. Volevo distaccarmi dall’emotività che questo testo esplosivo trasmette a primo acchito per privilegiare l’ironia che ne è contenuta. Per trasmettere una possibilità di speranza, un grido alla vita piuttosto che alla morte.

Ne è uscito uno spettacolo di un’ora e mezza. Un programmatore teatrale ci ha chiesto di fare una versione breve di 30 minuti da mettere in scena, ma ridurre non è stata una grande idea.

Abbiamo deciso di tenere il testo francese e l’inglese originale, utilizzando entrambe le lingue.

La disposizione del pubblico nella sala è circolare: gli spettatori sono seduti attorno ad un palco esagonale tutto bianco che è il palchetto podio per l’attrice.

Il lavoro è una suite di quadri dove momenti performativi e momenti di danza si alternano. Una lettrice inglese legge fuori scena il testo originale, mentre l’attrice danza.

L’idea è che le parole fuori scena arrivino all’attrice sul palco quasi come flusso sonoro, in maniera indipendente dal loro significato. La sofferenza e il dolore del testo sono rese dalle parole traslate in suono che entrano nel corpo dell’attrice.

Lo spettacolo è stato messo in scena solo due volte a Bordeaux, purtroppo non c’è stato seguito perché respinto da diversi programmatori di teatro. Da alcuni mi sono sentita dire “noi ci occupiamo solo di autori viventi, Sarah Kane ormai è morta”. Altri invece mi hanno detto che Sarah Kane é obsoleta, vecchia.

E: Ci sono ancora dei muri quando si parla di salute mentale….

A: Sì, ho sentito in realtà dietro ai rifiuti del mondo teatrale la fatica e la non volontà di parlare di malessere, di sofferenza psichica, quando invece oggi le psichiatrie sono gremite più che mai di gente. C’è la voglia forte di chiudersi di fronte alla malattia mentale, di non affrontarla.

Credo che il “malato mentale” provochi nel comune sentire, sconcerto, disgusto ma soprattutto disapprovazione. Il fatto è che non ci si spiega come si possa essere malati mentali. Il malato di cancro soffre di un male fisico, ma nel momento in cui si parla di sofferenza mentale e psichica vi è la sensazione che “ se lo siano fatti venire da soli”.

Una delle ragioni per cui credo che il nostro lavoro non sia stato accettato è che negli anni 2000, subito dopo il suicidio di Sarah Kane vi è stato un uso e un abuso dell’opera 4.48 da parte di artisti e registi. In sostanza i programmatori di teatro non ne possono più di sentire questo nome.

Un’altra ragione dell’ostilità è forse un cambiamento d’asse rispetto al quale il dramma personale non è più la priorità, quello di cui urge parlare oggi è il dramma sociale, la realtà degli attentati che stiamo tutti vivendo. Il malessere del singolo non parla più come parlava negli anni ’90, non fa più vibrare le stesse corde, è più il dramma collettivo oggi che si vive, che si torna a rivivere.

Il pericolo fisico a livello di sicurezza sociale è l’attualità d’oggi.

E: Dunque chiusa per il momento, direi in modo un po’ obbligato il lavoro ispirato a Sarah Kane, ti stai oggi dedicando ad un nuovo progetto? Raccontaci di Abime…

A: Alla base ci sono sempre dei sogni nel cassetto a cui mi piacerebbe dar vita. Prima 4e48, ora un testo di Dostoevskij…

E: Eh ma Dostoevskij è vecchio, basta Dostoevskij!

A: Eh sì non imparo mai dai miei errori. In francese si direbbe che sono “ringard, démodée”.

Ne I fratelli Karamazov, è contenuta la favola del Grande Inquisitore, un testo illuminante che con lucidità estrema analizza l’essere umano nella sua condizione di perenne schiavitù rispetto a qualcosa siano essi degli dei o degli idoli. Diciamo un trattato di psicologia sociale in forma di racconto. Nel testo si ipotizza il ritorno in terra di Cristo durante il periodo delle grandi Inquisizioni, a Siviglia con Torquemada. Tutti lo riconoscono subito ed iniziano ad adorarlo. L’Inquisitore il grande osserva la scena ed ordina la sua cattura. Durante la notte fa visita al prigioniero nella sua cella. Inizia un lungo interrogatorio che si rivela essere un monologo in cui l’inquisitore accusa Cristo d’aver abbandonato gli uomini secoli prima, lasciandoli in balia di se stessi e delle loro scelte. Sono i governanti ed i religiosi ad essersi assunti l’arduo e gravoso compito di gestire il popolo incapace di prender decisioni, incapace di essere in sostanza libero.

Il fulcro del ragionamento sono le tre tentazioni di Satana a Cristo e da lui respinte. Se avesse accettato una di queste tre tentazioni, Cristo avrebbe dato al popolo prove tangibili della sua origine divina, invece egli le rifiutò una ad una. Respingendo le tentazioni Cristo ha lasciato il popolo in dubbio. Il popolo può credere o non credere.

Una volta morto Cristo, la Chiesa si è assunta il compito di costruire il dogma, la struttura per eccellenza che ha permesso al popolo d’avere infine qualcuno davanti a cui inchinarsi.

Alla fine di questa accusatoria, il grande inquisitore gli annuncia che il mattino seguente sarebbe stato messo al rogo come il peggiore dei criminali di fronte ad un popolo esultante per la sua condanna.

L’opera di Dostoevskij mi ha stimolata ad approfondire la complessità di questo fenomeno psico-sociale ovvero la difficoltà per l’uomo ad essere libero da schemi mentali precostituiti; il suo bisogno a seguire un qualcuno.

Mi sono orientata sull’indagine del “pensiero estremo” in una sorta di continuum dall’incapacità alla libertà di pensiero. In breve la condotta estrema come degenerazione d’un pensiero già di suo condizionato dall’esterno.

Nel testo di Dostoevskij si dice qualcosa come: “finiti gli dei, sarà la volta degli idoli”. Gli idoli nelle più svariate declinazioni: i dettami estetici d’un corpo omologato per esempio, quelli della moda ci spingono a chiederci quanto il nostro agire sia libero da condizionamenti esterni. Il pericolo di degenerare in condotte di vita estreme è sempre dietro l’angolo.

Mi sono interrogata su cosa sta succedendo oggi, ho letto “La pensée extrême. Comment des hommes ordinaires deviennent des fanatiques” di Gerald Bonner. Mi sono chiesta cosa spinga delle persone con una condotta di vita ordinaria a decidere ad un certo punto di farsi esplodere in nome di un ideale religioso. Non è follia. Bonner nella sua ricerca lo dimostra abilmente. Il pensiero estremo non si svela tutto d’un colpo, ma procede per gradi sempre più radicali. Non si dà tutto subito, ma poco a poco. Ogni tappa prepara la seguente. Un processo d’ indottrinamento progressivo.

E: E’ quello che avviene anche nel caso dei totalitarismi. Prima si procede all’esclusione di alcuni diritti per alcune categorie di persone, poi si estendono piano piano le limitazioni alla vita sociale e politica…

A: Sì, esatto. È un minuzioso lavorio di demolizione di credenze, idee, stili di vita e costruzioni sociali in cui le persone si sono formate e che hanno dato loro una prima identità, a cui si affianca la rinascita in una nuova identità.

E: Insomma si tratta di un processo di demolizione e poi di ricostruzione identitaria…

A: E solitamente l’identità ricostruita è molto più forte e fissa di quella in cui eravamo prima. In momenti di crisi e di perdita di sé, il fatto di potersi legare a qualcosa di apparentemente solidissimo è una tentazione irresistibile per molte persone.

A: L’attualità di queste riflessioni non riguarda solamente l’analisi dell’estremismo e del terrorismo, ma anche quello della società che mette in essere una risposta a questi fenomeni.

Per esempio ora in Francia “l’état d’ urgence” che il governo sta prorogando è secondo me sintomo di qualcosa di grave che sta accadendo, perché sta diventando la normalità. Oggi le forze militari possono entrare senza mandato in casa tua. Adesso è l’islamico, poi chi sarà? Chi definisce chi è islamico? Ora i social media sono controllati capillarmente, sanno i nostri movimenti, il grande fratello è ovunque. Quanto, mi chiedo, non siamo già dentro una forma di totalitarismo? Una amica che abita a Parigi quando ci sono stati gli attentati al Bataclan ha ripercorso durante una serata i vari luoghi dove ci sono stati gli attentati. Si tratta infatti di strade molto frequentate dai parigini, uno degli itinerari classici di molti cittadini. Fatto sta che in modo del tutto casuale è passata prima vicino al primo luogo dove ci sono stati gli attentati, poi nel secondo, poi nei pressi del Bataclan.

La polizia l’ha contattata dicendole esattamente dove era passata e le hanno fatto quindi un interrogatorio. Quindi sanno i nostri spostamenti, sanno tutto. Eppure lo accettiamo.

Quanto siamo disposti ad accettare? Quanto accetteremo di questo nuovo stato d’emergenza che rischia di diventare un nuovo totalitarismo? In nome di che cosa accetteremo ? Di una paura? Perché il rischio di creare un capro espiatorio in nome della paura collettiva è alto.

Leggevo che anche a Vienna il Mein Kampf è il libro più venduto adesso, mi vengono i brividi solo a pensarci.

Quindi dobbiamo sollevare questo problema, dobbiamo parlarne, mettere l’allarme, state attenti. Il mio spettacolo non è centrato specificamente sullo stato d’emergenza, né su una recriminatoria contro la “banalità del male” ma cerca di analizzare la complessità del fenomeno

E: A che punto è la preparazione del nuovo spettacolo?

A: A settembre ci sarà la presentazione di 30 minuti di spettacolo al festival “Recidive”, un festival di giovani artisti di Bordaux nel quale vengono invitati dei programmatori della regione. L’interesse di partecipare a questo festival è la possibilità di essere in seguito accompagnati finanziariamente sul seguito della creazione per terminare il progetto.

In teatro, esiste, come nelle scienze, quella che si definisce “serendipity.” Nel momento in cui stai cercando, arriva l’intuizione, che porta in direzioni magari inaspettate, ma che si sente essere le uniche possibili. Per questo si ricerca, si preparara prima il terreno. Avere il lusso di disporre del tempo necessario per attivare il processo creativo è indispensabile per evitar di produrre qualcosa di qualcosa di funzionale e il “funzionale” è un po’ come dire bisogna fare i 30 minuti sperando che poi ti programmino.

Nella prima parte del progetto in costruzione viene descritto lo scivolamento nel pensiero estremo e nella seconda parte (che ancora non c’è) si è nel pensiero estremo.

Sto lavorando con due ballerini provenienti da due orizzonti diversi. Uno di origine italiana formatosi a Milano, l’altro francese formatosi in Inghilterra. Nella creazione i loro movimenti, quelle che chiamo le loro attitudini corporee, incarnano la complessità del pensiero nel suo conflitto tra libertà e sottomissione. I loro movimenti sono accompagnati da un sottofondo sonoro creato direttamente in scena da un musicista di formazione elettroacustica. L’attrice sarà invece la voce che ci racconterà della “comédie humaine” attraverso la descrizione scientifica degli Anuri, ordine di anfibi cui appartengono rane, raganelle e rospi. Questi anfibi che son stati capaci di colonizzare quasi tutto il pianeta, hanno un grado di adattamento incredibile all’ambiente esterno. Riescono a sopravvivere al deserto ma anche ai luoghi più freddi ed arrivano anche ad adattarsi a temperature dell’acqua elevatissime se l’aumento di temperatura è progressivo fino ad 85° tanto che alla fine ne muoiono.

E: E questa è dunque la metafora dell’essere umano che si adatta a condizioni di vita sempre più estreme…

A: Esatto. La caduta nel pensiero estremo è lenta e graduale e per questo non ce ne si accorge. Al contempo volevo rendere in modo visivo la complessità del pensiero umano attraverso i corpi dei ballerini. Ovviamente parte della riflessione sono anche i costumi che la nostra costumista presto realizzerà ed un’assenza di decoro. Voilà siamo arrivati questo punto, lo spettacolo è ancora in costruzione.

Compagnie Heimat

 

Abîme

 

Abîme est une création autour de la notion de pouvoir, de l’assujettissement volontaire des masses à la direction d’un leader, une interrogation sur la liberté mais aussi sur l’identité.
Comment des hommes ordinaires deviennent des « agents exécutifs d’une volonté étrangère » comme le révèle l’expérience de Milgram.
Le projet part du constat de la complexité des manifestations extrémistes. Il les analyse, les interroge sans en tirer de leçons morales.

 

 

Regia Alessandra Ferreri
con Matteo Sedda, Antonin Chediny e Justine Alberti
Musiche : Simon Lehmans

Costumi: Cynthia Perrein

Creazione luci : Grégory Varlet
Grafica : Guido Mencari

 

Amministrazione : Karyne Bizien

 

Martedi 13 Septembre a 22h00
Mercoledi 14 Septembre à 19h30

 

Settima edizione del Festival Récidive
alla Manufacture Atlantique a Bordeaux
www.festival-recidive.com

 

 

pagina facebook della compagnia: https://www.facebook.com/compagnieheimat/?fref=ts

Alessandra Ferreri è regista teatrale diplomata in Regia e Scenografia all’Università Bordeaux Montaigne in Francia. Inizialmente attrice segue corsi di teatro a Bergamo. Partecipa a degli atelier organizzati da registi e coreografi come Kaya Anderson, Marcello Magni, Cesare Ronconi, César brie, Naira Gonzalez, Gheisha Fontaine. Dopo una triennale in lettere conseguita all’Università di Bergamo, lavora con Teatro Laboratorio Officina ad Urgnano diretto da Gianfranco Bergamini. Nel 2013 si trasferisce in Francia per continuare i suoi studi a Bordeaux. Lavora con Troubleyn/Jan Fabre Theater come accessorista per la tournée dello spettacolo Mount Olympus/24h. In parallelo fonda la Compagnie Heimat. Attualmente lavora sul suo secondo progetto dal titolo “Abîme”.

Link video Abîme: https://www.youtube.com/watch?v=P38Nn5TH6Ko

Link video première di Abime http:// https://www.youtube.com/watch?v=ZiyTZnpBIBE

 

 

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Riguardo il macchinista

Elena Cesari

Elena Cesari ha fatto parte del gruppo operativo de lamacchinasognante.com fino al numero 5. Elena Cesari abita a Salvaro in un condominio solidale. Nel 2014 esce la sua prima raccolta poetica, Una viola, una pigna, un'ombra (Fondazione Luzi, Roma). A luglio 2015 esce “L'essenziale delle cose perse” (LietoColle) . Educatrice e insegnante di italiano L2 ha condotto e collaborato alla realizzazione di corsi di italiano e progetti sperimentali di teatro e lingua con donne migranti. Attualmente lavora con un gruppo di richiedenti asilo bengalesi. Da tre anni collabora con il gruppo di teatro integrato Magnifico Teatrino Errante, realizzando progetti di teatro integrato e interculturale.

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