SCHOOL’S OUT – Vincenzo Aulizio

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School’s out for summer

School’s out forever

 

Queste le parole di un famoso brano di Alice Cooper. Da ragazzo, negli anni’80, lo ascoltavo e lo recitavo come fosse un mantra liberatorio: il nemico è battuto, è tempo di estate, di festa!

In questo periodo le parole di School’s out hanno ripreso a ronzarmi nella testa, ma con un timbro nuovo, diverso, sinistro: una profezia rock sciagurata e inquietante.

Dove siamo arrivati?

Luglio 2020 (sesto mese di pandemia). La scuola italiana (alunni, insegnanti, dirigenti scolastici, personale ATA e genitori) negli ultimi sei mesi ha lottato, gioito, imprecato, valutato, promosso e soprattutto lavorato in DAD. Unica eccezione in questo periodo di didattica e di vita on line è stato l’esame di maturità, che attraverso severe misure di sicurezza si è svolto (stravolto?) in presenza.

Ma d’ora in poi, cosa ci attende? Che cosa ne sarà della scuola italiana? Si tornerà a settembre? Se sì, come?

Il futuro della Scuola è un argomento che mai come ora interessa un po’ tutti: tanti italiani, magari con modalità diverse, la vorrebbero aperta, il governo si è espresso e continua a farlo soprattutto con boutade o con slogan, ma direttive realmente precise per adesso mancano. Come insegnante mi sento sospeso, a metà strada tra la fine del quadrimestre horribilis e un settembre sempre più indefinito, impalpabile, out.

Però, sebbene l’incertezza generi inquietudine (e davvero ce n’è tanta), d’altro canto questa condizione stimola la riflessione, la fantasia, incoraggia la progettazione, perché questi periodi straordinari dilatano i tempi e lasciano spazio ad interrogativi che prima, nel marasma e nella fretta dell’ordinario, non ci si poteva permettere. E allora, mentre i tecnici e i politici pensano come riportarci a scuola e congetturano le più disparate modalità per ricominciare le lezioni a settembre, proviamo a riflettere sulla scuola partendo dagli ultimi sei mesi.

La pandemia è stata un banco di prova fondamentale per la scuola italiana. Il corpo docente ha dovuto fronteggiare (inizialmente senza alcuna guida) una situazione senza precedenti: insegnare a distanza. Eppure i professori nostrani, spesso dipinti come dinosauri culturali rimasti fermi a carta e calamaio, sono riusciti a compiere uno sforzo tecnologico importante e in poche settimane, grazie al loro impegno e alla loro fantasia, hanno ricominciato a rivedere e risentire i loro alunni, potendoli quindi interrogare, continuando a far loro lezione e magari lanciando qualche battuta per sdrammatizzare la situazione… insomma, in poche settimane la scuola italiana è uscita dal giurassico diretta verso il XXI secolo!

Ma, se da un lato la pandemia ha permesso alla nostra scuola di colmare (almeno in parte) il gap tecnologico che la separava da molti altri paesi europei, dall’altro ha evidenziato in modo sempre più netto alcuni problemi insoluti del nostro sistema scolastico. Credo sia venuto il momento, per noi docenti e non solo, di affrontare questi attraverso una seria riflessione; io vorrei, in questa sede, focalizzarmi su due di questi: la valutazione e la bocciatura.

La valutazione

Negli ultimi sei mesi moltissimi sono stati gli insegnanti che, alle prese con la DAD, hanno evidenziato difficoltà nella valutazione dei propri alunni: valutare on line è stato più difficile soprattutto perché imbrogliare per gli studenti era più semplice…

Il problema della valutazione è però antecedente alla DAD: negli ultimi anni l’insegnante della scuola secondaria di secondo grado (quella che conosco meglio) ha ricevuto infinite direttive in merito ad essa e spesso poco coerenti fra loro: “bisogna dare tanti voti a quadrimestre quante sono le ore settimanali che si passano con quella classe”, “non uno di meno!”; “i voti possono assumere un valore percentuale (in una data situazione daremo un voto al 20%, in un’altra al 50% e così via a seconda dei casi)”; “ci sono griglie di valutazione da rispettare pedissequamente”; “anche le virgole diventano essenziali (un 5,9 non è per forza un 6!)”. Questo caos ha creato grandissimo stress, gli insegnanti hanno iniziato a rincorrere in modo sempre più sistematico le valutazioni e gli alunni: “sono già due giorni che non si presenta, sta scappando e io non so come dargli il secondo voto!”; “vorrei spiegare il dato argomento, ma sono indietro con il giro delle interrogazioni!”.

Le prove orali e scritte a distanza (in DAD) hanno ulteriormente messo in difficoltà i docenti, che per riuscire a valutare in modo oggettivo gli alunni hanno escogitato strategie sempre più machiavelliche: come far spegnere all’alunno il cellulare e tenerlo bene in mostra durante il compito, far riprendere lo scolaro da angolature diverse magari dai genitori, e per concludere, in extrema ratio, c’è chi ha fatto bendare gli alunni durante l’orale.

La DAD ha insomma esasperato il clima da guardie e ladri, già ben noto al mondo della scuola. Ma è davvero questo l’unico modo di fare didattica? Di insegnare?

Innanzitutto, sono certo che gli studenti italiani hanno aggirato in modo agile molti di questi stratagemmi, ma sono altresì convinto che non sia in ogni caso questo il percorso che noi professionisti della scuola dobbiamo intraprendere.

Dobbiamo a mio parere (e non dico certo niente di originale, perché dagli inizi del ‘900 la riflessione degli specialisti di pedagogia e didattica va in questa direzione) superare il concetto di didattica votocentrica, con il quale abbiamo abituato gli alunni a studiare per ottenere un buon voto, e solo secondariamente per conoscere meglio il mondo che li circonda. Abbiamo addirittura dato al voto una funzione di controllo: “se non la smetti ti metto 2!”.

La valutazione così perde il suo autentico valore, diventa una lettera scarlatta o un’aureola a seconda dei casi, ma mai un metodo per insegnare a conoscere e superare i propri limiti. Carl Rogers (psicologo e ricercatore in ambito didattico), già negli anni ‘60 del XX secolo, spiegava come il voto nella scuola diventi spesso un modo per giudicare, e non aiuti invece a comprendere e a far comprendere.

La scuola italiana, ormai alle soglie del terzo decennio del XXI secolo, dovrebbe iniziare a riflettere sull’inefficacia del voto giudicante.

Perché è solo sbagliando che si impara, e quindi il vero amico dell’esploratore (in ogni ambito) è l’errore.

La pedagogia da anni (decenni) ha rivalutato l’errore come fondamentale e imprescindibile passaggio per arrivare alla conoscenza. In Italia, in moltissimi casi, si valutano negativamente gli errori, pur di non commetterli e di non prendere un brutto voto gli alunni sono pronti a copiare, imbrogliare, e questo genera il teatrino del gatto e dei topi, tipico di ogni verifica scritta.

Dovremmo sviluppare una didattica che ammetta e valorizzi l’errore nel percorso conoscitivo. Allora non ci sarebbero più i bigliettini e le soffiate: non avrebbero senso…

La valutazione intesa come voto numerico dovrebbe essere solo l’ultima parte di un percorso nel quale il ragazzo, attraverso errori debitamente segnalati dal docente, impara ma soprattutto conosce: altrimenti noi insegnanti continueremo ad essere solo erogatori di voti, semplici burocrati della scuola, e gli studenti, considerandoci tali, affronteranno la nostra disciplina come una sorta di prova di abilità, un videogame nel quale chi sbaglia di meno vince.

Richard Feynman (premio Nobel per la fisica) già nel dopoguerra avvertiva questa incongruenza tra il voto e l’effettiva conoscenza: non vedevo a cosa servisse un sistema di autoproduzione nel quale si superano esami per insegnare ad altri a superare esami, senza che nessuno impari mai niente. (Sta scherzando Mr. Feynman! 1985)

 

Bocciare

La ministra Azzolina nel bel mezzo della pandemia ha dichiarato, dopo una serie di titubanze, che nessuno sarebbe stato bocciato a giugno, al tutti promossi si è scatenato un dibattito acceso tra i docenti e nell’opinione pubblica; in molti (la maggioranza) si sono distinti come alfieri della bocciatura, e non solo insegnanti, ma anche giornalisti e opinionisti.

Ma come mai bocciare nella scuola italiana è visto come un diritto inalienabile dell’insegnante?

Tra noi docenti (non tutti, per carità) gira, un falso mito: quello secondo cui senza la paura della bocciatura e del brutto voto gli studenti non ci ascolteranno, anzi, peggio, non ci rispetteranno. I 2 sul registro e le note disciplinari sono sgabello e frusta per noi insegnanti/domatori, senza queste armi non abbiamo nessun potere in classe; ed è questo il motivo delle tante lamentele di molti professori a proposito del tutti promossi indicato dal MIUR.

Ma qual è il reale valore della bocciatura? Aiuta a migliorare gli studenti?

Sembra proprio di no, infatti è ormai acclarato che l’insuccesso scolastico concorra in modo considerevole alla dispersione: […] tra gli studenti respinti almeno una volta, più della metà ha lasciato la scuola. (dati Tuttoscuola Anief, 2019)

I numeri quindi provano che la bocciatura per lo studente non è, nella maggior parte dei casi, un momento di riflessione sugli errori commessi durante l’anno appena conclusosi, non è un aiuto a comprendere come migliorare il metodo di studio o su come affrontare determinate materie, ma è una punizione: “non hai lavorato come si deve? Non ti sei comportato come la scuola richiede? Bocciato!”

Ma chi sono le ragazze e i ragazzi che non ammettiamo alla classe successiva? Esiste un identikit del ripetente?

Esiste eccome!

Sono i figli degli operai e degli immigrati: sono loro che perdiamo durante l’iter scolastico (e in questi mesi sono loro che più difficilmente sono stati raggiunti dalla didattica a distanza). La scuola in questo modo diventa classista, ovvero mettiamo i 2 a chi parte con debolezze e lacune, bocciamo chi proviene da situazioni di disagio, in pratica cristallizziamo le situazioni di partenza e questa non è un’opinione: La prematura uscita dal sistema scolastico e formativo degli alunni è legata, e ampiamente influenzata, dal contesto sociale in cui essi vivono […] in particolare i fattori che influiscono sulla dispersione scolastica sono rintracciabili, principalmente, nella povertà economica e culturale dei territori di appartenenza e delle famiglie di origine. (Relazione Ufficio Gestione Patrimonio Informativo e Statistica, Luglio 2019)

Il professore diventa così una sorta di Pizia e predice nel giro di pochi giorni il futuro di molti dei suoi studenti. Facciamo letteralmente delle previsioni che aiutiamo ad avverarsi.

L’anno del tutti promossi dovrebbe imporre una seria riflessione sul paradigma non studi-non vai avanti sostituendolo con: non studi-perchè?

Dobbiamo quindi ricominciare a farci domande, pronti ad affrontare difficili scenari. Dobbiamo soprattutto riavvicinarci agli studenti per conoscere, comprenderli, non semplicemente giudicarli.

Tenendo bene a mente che gli studenti che abbandonano sono destinati a diventare i cosiddetti analfabeti funzionali, coloro che credono alle fake news, quelli che si dice sarebbe meglio non avessero il diritto di voto, quelli che un domani non ci pagheranno la pensione, coloro i quali già ci chiedono un sussidio. Demotivati e sfiduciati, questi ex-alunni sono in Italia un esercito che sta mancando alcuni dei suoi obiettivi sociali: lavoro e stile di vita soddisfacente. E rischiano di fare andare a gambe all’aria anche alcuni dei nostri: sicurezza sociale e tenuta del tessuto democratico.

In gioco c’è di più che una semplice bocciatura.

  

Conclusione

Per affrontare queste straordinarie sfide ci vogliono professionisti preparati e motivati; la scuola italiana ha un obbligo nei nostri confronti pari a quello che noi abbiamo nei confronti dei nostri alunni: prepararci!

L’insegnante deve essere formato nel senso più completo e classico del termine: va seguito, deve avere dei mentori che lo instradino, diamo più spazio nelle classi ai giovani insegnanti durante le lezioni dei colleghi veterani, diamo l’esempio. E poi: aggiorniamoci, studiamo la letteratura pedagogica… non possiamo andare avanti soltanto con l’esperienza, ci vuole metodo, cultura! E se la scuola in questo momento non è in grado di fare di più, non possiamo arrenderci al contesto desolante del presente. Cominciamo a riflettere sugli errori commessi fino ad ora, facciamolo insieme, organizziamo tavole rotonde, meeting, seminari. Scambiamoci consigli e raccontiamoci frustrazioni, chiudiamo il periodo della solitudine dell’insegnante!

Dobbiamo scardinare alcuni paradigmi scolastici per poter ripensare alla scuola in modo nuovo, al fine di consegnare ai nostri alunni, la generazione che dovrà riscrivere il presente e il futuro prossimo, un modello di conoscenza più idoneo alle sfide di un mondo inevitabilmente diverso.

Se non ora quando? Alessandro Baricco, in piena emergenza Covid, sulle colonne di Repubblica, ha invocato l’audacia. Ecco, diventiamo audaci nel riprenderci il ruolo che ci spetta: quello di intellettuali.

Siamo insegnanti, ricordiamocelo spesso, noi, più che giudicare, promuovere e bocciare… lasciamo il segno!

Perché il finale della canzone di Alice Cooper profetizza in modo sinistro e prepotente…

School’s been blown to pieces

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Vincenzo Aulizio

Vincenzo Aulizio (Foggia, 1976) Insegnante di Lettere, storico specializzato nell’epoca contemporanea, formatore e appassionato di didattica, impegnato a mettere a punto metodologie funzionali per l’insegnamento della storia e della lingua italiana.

 

Foto in evidenza di Alberto Guadagno

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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