Le scarpe vengono esposte nelle vetrine dei negozi a scopo di vendita, e chi le guarda considera l’opportunità di comprarle. Ognuno le valuta a suo modo, che è per tutti quello di immaginarsele nei piedi.
In pratica, chi vaglia l’acquisto di un paio di scarpe vede solo ciò che gli interessa.
L’effettiva apparenza della scarpa può essere riconosciuta soltanto da chi non approccia utilitaristicamente l’intorno come il santo e il folle, da chi non usa scarpe come il cane e il gatto, oppure dal pittore, perché la pratica di indagare la suggestività dell’esistente, lo abitua a considerare essenzialmente il visibile.
La scarpa … esibisce un aspetto a cui nessuno presta attenzione: l’apertura in cui si infila il piede. Non gli si presta attenzione perché la mente prefigura il piede nella scarpa, il buco sparisce, e il dato viene declassato a trascurabile dettaglio.
Occhi e cuore funzionano diversamente.
(A.G.)
DEI CRITICI NON SO NIENTE
Dei critici, non so niente. Delle recensioni non leggo mai più di due righe, che scorro mal volentieri tanto per scrupolo: non si sa mai, delle volte, chissà? Invece, niente, niet, nada de nada. Per cui, non avendole mai trovate interessanti, non mi sono mai interessato di chi le redige. Ai critici che invitavo in studio prestavo attenzione soltanto per quel poco che vi sostavano, e quando proferivano delle osservazioni attinenti me ne stupivo parecchio. “Come è possibile?” chiedevo a me stesso”Come ha fatto? Da dove è passato? Per me, è diverso: ci sto, ed è più facile. Vengo frastornato dal coinvolgimento, ma usufruisco del riscontro pratico, e se l’opera non mi consentisse delle verifiche, non saprei orizzontarmi. Ma che testa ha, questo critico? Dev’essere un genio!”
In somma, se gradiva il mio lavoro lo giudicavo in gamba, e l’incontro risultava solitamente piacevole, però al termine si arrivava sempre al “Caro caro, bravo bravo, arrivederci e grazie” lo accompagnavo all’uscio, e lo osservavo allontanarsi soddisfatto senza che riuscissi a capacitarmene: “Tutto qui?” pensavo “Ma come? Gli artisti sono delle mosche bianche, di critici sono pieni i fossi, e questo da cui mi faccio trovare non approfitta della scoperta? Chi li capisce, i critici?”
Non mi riuscì di inquadrarli, finché non visitai l’abitazione del più cordiale che conobbi, così che osservando i pezzi della sua raccolta, ricevetti un’illuminazione istantanea: “Lui che gradisce sta’ roba” mi dissi “Capisce la mia? Non è possibile! E’ volenteroso, preparato, curioso, acuto, colto e intelligente, nelle sculture che fabbrico sa leggere delle implicazioni che non sospettavo, però, non coglie la specificità dell’opera, per cui mi pare sbagliato giudicarli ignoranti, perché discriminano una vasta gamma di aspetti, ma quel sapere non ne fa degli esperti, perché non gli consente di riconoscere le insensataggini. Sta lì, il loro tallone di Achille: non vedono il brutto! Sicché, cosa criticano?”
I critici constatano un’infinità di dettagli, ne rintracciano la genealogia, poi accertano i modi in cui viene riciclato il già fatto. Sanno fare unicamente questo ed è forse utile che vi si impegnino, però, non dovrebbero allargarsi, perché sono capaci soltanto di inventariare il carico, senza avere consapevolezza dello scafo che effettua il trasporto. Stanno sempre a trafficare in sentina! Misurano la barba di un profeta, la confrontano col crine di un cavallo di bronzo, poi si baloccano a rollare da un compartimento all’altro sino al loro spazzolino da denti. Che accidenti ne sanno, di mare e di barche? Sanno solo che gli gira la testa, questo, sanno. Sanno che l’opera gli suscita un capogiro, tant’è che finiscono per gradire anche le randellate, per cui, cosa criticano, i critici? Criticano il loro personale stordimento. Alcuni, sono sinceramente appassionati d’arte ma, come chiunque non ne produca la valutano soltanto attraverso lo sbandamento emotivo che gli procura, e quel metro, li annebbia. Li annebbia avvertire qualcosa che non può essere circoscritto da ciò che conoscono, così finiscono per considerarsi eccezionalmente consapevoli dell’inesplicabilità di quello che non sanno. Perché lo sanno, di non saperne nulla, i migliori, lo sanno bene, non sono mica stupidi, tuttavia, il prolungato sballottamento artistico li abitua a rilevare anche le oscillazioni più lievi, si scoprono più avveduti di quei sempliciotti degli artisti, al che finiscono col reputare l’opera una sorta di materia vergine certamente speciale, ma ancora bisognosa di un vate che ne ritualizzi l’essenza misterica, e lì, se la menano. Se la menano pavoneggiandosi nella significazione del demenziale, dell’inesistente, dell’orrido. Sciorinano un’infinità di sciocchezze! Però non bisogna supporre che siano così fessi da crederci, perché non possono più assolutamente riuscirci. Non possono più credere in nulla! E’ una loro deformazione professionale. E’ una patologia che contraggono a volersi impicciare proprio di quella cosa che non può essere pensata, così che non riuscendoci si smarriscono, poi ci fanno l’abitudine, quindi si convincono che il pensiero sia la sola dimensione dell’essere, snobbano ogni ipotesi di realtà, e diventano quasi pazzi. Sono sempre tentati di dire: “Sono io! il vero artista. E’ il mio intervento! che infonde valore all’opera. E’ la significazione di me stesso che effettuo attraverso quella! che la trasla nell’ empireo dell’effimero assoluto. E finché non la degno” si dicono “l’opera, non esiste.” Se lo dicono, se lo dicono; se lo dicono magari in bagno quando non li sente nessuno, ma se lo dicono. C’è poco da fare, è inevitabile, perché non conoscendo la funzione né l’oggetto né la fattura di ciò che considerano, giungono a reputare l’arte una specie di trastullo, e cercano conseguentemente d’imporre i loro giochetti. Gli serve un elaborato senza capo né coda o un aggeggio qualsiasi però fuori posto, poi cominciano a vaticinare: “E’ altro! è’ oltre! è’ di là!” “Eh sì!” dico anch’io “è di là e come, però è generalmente altro dal di là del qui e adesso, che è quell’oltre a cui solamente l’opera sa riportarci.”
Le opere d’arte sono sempre assai emozionanti ed è infrequente che i critici non le apprezzino, ma non sapendo riconoscere gli sgorbi incensano anche un mucchio di obbrobri, disgustano la maggior parte del pubblico, sviando così i pochi volenterosi sempre fuori dal nocciolo delle cose in se stesse per noi, la cui qualità è così lontana dal modo di conoscere e di supporsi dei critici, da risultare loro assolutamente invisibile. Non vedono l’oggetto dell’opera! Non ci riescono perché vengono irretiti da una prassi che li induce a scrutare dovunque un concetto, così che osservando una quercia in giardino si sforzano di rintracciarvi delle indicazioni stradali e, tanto si ostinano a corrompere la linfa del così com’è con la solita risciacquatura del così come lo pensiamo, da diventare il più pernicioso parassita di ogni espressione artistica. Che dire? Se le inquinassero di proposito gli si potrebbe riconoscere una capacità, invece sono banalmente limitati da un’incontrovertibile insufficienza, perché anche se riuscissero a capire che il pensiero è soltanto uno strumento, che la comprensione del nostro giardino passa di là da quello, e che le opere ci raccontano ciò che si trova per l’appunto dopo, non sapendo come si costruisce quel dopo, ancora non potrebbero distinguere la qualità del tramite e, con ciò non intendo affermare che le opere possono essere giudicate soltanto da chi le produce, ma più semplicemente che, la mancata conoscenza della loro organizzazione materiale, impedisce poi di stimarle nel contesto in cui la nostra specie si manifesta più tipicamente: non vedono il costruito! Il critico scova apparentamenti insospettabili, collega avvenimenti distanti, si picca di incassettare ogni cosa, poi infila una mano in tasca a cercare la caramella, e non la trova. La caramella è scivolata in una scucitura, è sprofondata in fondo alla fodera del cappotto, sottraendosi alla ricognizione di chi non possiede la mappa del proprio indumento. Gli accade o può facilmente succedergli, perché ignorano la fisionomia del costruito. Non lo considerano! Non lo valutano adeguatamente, tant’è che prendono degli abbagli grossi come città dove infatti, dovrebbe risultare chiaro a chiunque che il nostro spazio è zeppo di fabbricati e, chi non si accorge che i milioni di metri cubi di materiali sovrapposti sagomati incastrati cementati saldati e connessi in vario modo gli uni agli altri hanno una logica, e che quella logica manifesta un’estetica, e che l’estetica del costruito impronta la nostra percezione della plausibilità, poi non comprende che la plausibilità dell’opera, deve necessariamente passare attraverso una traduzione ottica della personalità del circostante. E’ imperativo! E per non rendersi conto di questo, bisogna che i critici non sappiano neppure visualizzare la fisionomia dei ragionamenti sensati, perché in caso contrario noterebbero che il costruito non è il risultato di un pensiero di seconda classe, ma uno dei vertici di concretizzazione del nostro, e la scoperta, gli svelerebbe l’impotenza espressiva delle opere che non si mostrano pregevolmente allestite.
Chi costruisce possiede spesso soltanto le poche informazioni utili ad assemblare il proprio prodotto, però chi non ne realizza non vede il sapere indispensabile a quel tipo di compimento; di ciò che facciamo ed usiamo comprendiamo individualmente pochissimo, ma la massa dei fabbricati ha tanto carattere da marcare la percezione di tutti senza che quasi nessuno se ne accorga e, a chiunque abbia aperto un ombrello, le opere che non sfoggiano un bel costruito o una trattazione tecnicamente apprezzabile, paiono giustamente improbabili.
Modelliamo il paesaggio, viviamo in simbiosi coi manufatti, abitiamo la forma della nostra laboriosità e delle nostre conoscenze. E’ il nostro super-naturale, perché pur non essendo naturale per nulla, lo sondiamo così bene da rapportarci conoscitivamente soprattutto con quello. Il costruito ci risulta più reale del naturale, perché dietro il rubinetto del lavandino di porcellana leggiamo anche il tubo zincato dentro il muro di mattoni rivestiti di intonaco, e la sua radiografabilità, ci fa sentire senzienti. E’ quello, il nostro più grande sapere; tant’è che le domande del tipo chi siamo da dove veniamo e via di questo passo, sorgono a sconclusionarci di notte sotto le stelle, ma non nel corridoio di casa nostra. E’ l’approfondita conoscenza del corridoio di casa! che ci permette di raggiungere un notevolissimo grado di integrazione con l’ambiente. Non ci eguagliano neppure i pigmei nella foresta! non ci riuscirebbero nemmeno se sapessero distinguere un milione di piante diverse! non potrebbero sentirsi partecipi del loro spazio come noi del nostro, perché noi che lo fabbrichiamo, non incontriamo mai nulla di sconosciuto.
L’organizzazione di quello che è fatto ci è così manifesta che pur travisando ogni cosa riusciamo ad imperversare cognitivamente dovunque; padroneggiamo una sterminata quantità di informazioni, discriminiamo delle differenze infinitesimali, di ciò che vediamo sappiamo quasi sempre parecchio, e del costruito conosciamo immancabilmente di più. E’ l’indagine che effettuiamo incessantemente sul circostante, che ci certifica esistenti, è lo stile della sua massa incommensurabile, che ci fornisce la misura della realtà e, ben oltre il possesso di qualsiasi grimaldello interpretativo della medesima, la cognizione che ne abbiamo e anche la certezza di starci, ci viene dal panino, dal tavolo, dalla sedia. La forma di ciò che è presente influenza quella del nostro pensiero e viceversa, siamo soliti specchiarci in ogni dove e saperci di rimbalzo, non conosciamo precisamente nulla, e ci percepiamo ugualmente bene, perché le cose ci obbligano, ci ubbidiscono, ci somigliano e ci piacciono. Ci intratteniamo con loro così incessantemente da non prestargli più caso, ma se vogliamo allestire una rappresentazione persuasiva, dobbiamo fare in modo che l’occhio vi possa riconoscere la stessa tensione logica che riscontriamo dappertutto; ed invece osservando ciò che viene solitamente magnificato dai critici, finisco quasi sempre per domandarmi: “Ma queste scemenze, da che mondo provengono?” Mi offendono i sensi, mi disturbano fisicamente, le leggo come una negazione di quello che c’è e di quello che sono, tanto da non trovare la possibilità di immaginare mediazioni possibili, perché so che le cose mi dicono quello che sento, mentre all’opposto quando guardo le baggianate che circolano vedo che sono mute, che non rispecchiano la realtà di nessuno, e che servono soltanto a far blaterare i cialtroni che le commentano.
Mi scandalizzano! Le scempiaggini accozzate per non manifestare e per rendere impossibile ogni tipo di approccio, mi indignano al punto, che non riesco assolutamente a sopportarle. Aborrisco la spudoratezza di chi tenta spacciare per arte delle banali contravvenzioni di tutto, e trovo intollerabile che nello spazio dove abbiamo sempre indagato e prefigurato il nostro rapporto col mondo, si intrufolino delle rappresentazioni che figurano soltanto l’abdicazione a tentarne. Le detesto perché l’arrosto dice addentami e il pulsante schiacciami, mentre quelle non dicono niente. Le disprezzo perché le cose che ci circondano sono ben costruite invece quelle sono realizzativamente miserrime. Le spregio perché sono soltanto pensate, e pensate banalmente. Mi procurano una così profonda avversione, che per toglierle di mezzo sarei disposto a mangiarmi un critico tutti i giorni, perché quelli fagocitano un’arte inumana mentre avremmo bisogno di tenerci ben stretti a noi stessi, e snobbano il bel costruito che è invece indispensabile a corroborare il nostro sentimento più necessario. Quello fondamentale! quello di base su cui si alternano gli altri; quello così sempre vivo in chiunque da non essere solitamente mai notato; quello di cui non potremmo tollerare la mancanza, che ci fa sopportare le seccature: quello di esistere!
Quello che nasce dall’intima corrispondenza col luogo che ci ospita, e che si nutre del godimento istintivo di ciò che vi si trova; quello che ci dà la misura del funzionante e l’emozione del meraviglioso, tanto da farci concepire l’idea del reale e del bello. Di questo, tratta l’opera d’arte, di noi e del nostro spazio. Ne tratta delucidando le sinergie che fondono cose spirito e pensiero in una rappresentazione del così com’è che appaga ed esemplifica la totalità dei nostri processi; per costruire un’immagine che ci coinvolga a quel modo bisogna postulare e risolvere delle equilibrazioni sofisticatissime, e quelle procedure, i critici d’arte non le capiscono. I critici impegnati in altri settori non so cosa sappiano, ma so per certo che i critici che si occupano di arti figurative, sistematicamente alla prova dei fatti, dimostrano di non capire sostanzialmente niente. Proprio niente! Niente di niente! Ce ne sono che stimano soltanto i prodotti conformi al loro sapere ed altri che si affidano alla prima impressione, ma anche questi assai meno ottusi dei primi, sono alla produzione artistica ugualmente nocivi, perché non sapendo cosa cercare finiscono per interessarsi soltanto alle trovate, e così facendo fomentano la vacuità. Si ritengono sensibili e sono soltanto informati; credono di possedere del fiuto e sono invece semplicemente scaltriti dal prodotto che frequentano. Se si appellano alla sensazione sbagliano, se si affidano al ragionamento sbagliano, e anche quando esprimono giustamente un plauso, è per sbaglio, perché l’insolito non è necessariamente pregevole, la sua incondizionata approvazione è capziosa, e per verificare le aberrazioni indotte da questa pratica basta fare una rapida carrellata di ciò che viene solitamente proposto, e si fa prestissimo, perché la pluralità dell’offerta è soltanto nominale, tant’è che le tipologie frequentate sono facilmente riconducibili a due: il niente, e lo schifo. I prodotti del primo filone risaltano per vuotezza, e quelli del secondo per repellenza, gli uni sconcertano e gli altri fanno vomitare, al ché si viene generalmente sospinti in un dedalo di supposizioni insolubili, o si resta orripilati da truciderie abominevoli. Non è, arte, è cronaca. E’ un rendiconto della condizione cultural-esistenziale dei critici, e continuerò sempre a disinteressarmene. (A.G.)
Alan Gattamorta Nato a Boston (usa) 14/04/1953 da genitori italiani, e trasferito in Italia dopo la morte del padre a un anno di età. Conseguiti diploma istituto arte mosaico Ravenna, e laurea accademia belle arti Bologna. Da allora continuativamente impegnato alla produzione di opere, ha fatto uso – in ordine cronologico – di acquerello, mosaico, ceramica, acquarello, mosaico in carta e tempera su carta, dando vita a una vasta quanto varia produzione. Vive e lavora a Cesenatico.
Immagine di copertina e all’interno dell’articolo: Dipinti di Alan Gattamorta.