Sam Cornish è un poeta non legato a generi e mode letterarie. Per anni in ombra è rimasto appartato, benché i giovani bianchi e neri della poesia underground lo leggessero assiduamente. Citato nelle antologie dei poeti Afro-americani come quella di LeRoi Jones e Larry Neal Black fire: An Anthology of Afro-American Writing (1968) o nella più recente e canonica The Concise Oxford companion to African American Literature ( 2001) è sempre stato non abbastanza nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Poi improvvisamente la notorietà, quando un comitato di scrittori ha deciso che lui sarebbe stato il primo Poeta Laureato della città di Boston, nel 2008. Quello che distingue la sua poesia è l’uso singolare della memoria associata agli idiomi ed espressioni che attingono al grande serbatoio della cultura popolare, non solo Afro-americana. Fra i suoi libri più conosciuti vanno menzionati In this Corner(1964), Winters(1968), Generations(1971), Streets (1973), Sam’s World(1978), Folks Like Me(1993), Cross a Parted Sea(1996) e un libro molto bello di versi e prosa poetica che ha per titolo 1935 A memoir (1990). Dove la parola memoirtorna al suo significato più autentico, che affonda le radici nell’ antico persiano mer-mere indica ciò che ci rende ancora ansiosi. Da cui si deduce chiaramente che Sam Cornish sa bene che la memoria, specie pr quanto riguarda quella collettiva, serve anche per dimenticare. Per questo nei suoi versi tiene in costante equilibrio rabbia e perdono. Sentimenti che, con tocco tenero o sardonico, applica ad argomenti come: la povertà, il razzismo, l’abuso sessuale, il linciaggio, o la violenza di strada, senza mai privarle di drammaticià e una reale comprensibilità; senza quegli eccessi d’enfasi retorica che servono al potere per dilatare emotivamente la storia ed edulcorarne la visione. Ultimo libro pubblicato: un’antologia personale An Apron Full of Beans (CavanKerry Press 2008) stampata in occasione del riconoscimento; chiara testimonianza di una poetica maturata negli anni, trasversale ai generi e stili diversi. Un libro che come l’edera si arrampica con vigore sui manuali di storia per ricordarci quei milioni di Afro-americani che hanno pagato con sofferenze smisurate il progredire e sviluppo della civiltà industriale e dei consumi; ora ad una svolta culturale ed esistenziale apocalittica non meno ingiusta e crudele, che vorrebbe ‘liberarli’ ammutolendo il loro passato.
Quando ha iniziato a scrivere poesia seriamente?
Verso la fine del 1950, con il movimento Beat. Sull’onda delle mille riviste ciclostilate prodotte da giovani autori bianchi, e successivamente neri, sotto il nome di Black Arts Movement. Tanti si definivano parte dell’esperienza Beat e contemporaneamente saccheggiavano la ginnastica verbale innovativa di e.e. cummings. Va comunque sottolineata l’importanza delle edizioni ciclostilate di quel periodo. Erano centinaia di fascicoli che venivano auto-prodotti, distribuiti e lasciati nelle librerie, nei negozi, nelle bancarelle dei lustrascarpe. Nessuno doveva pagare per averle, come per le edizioni commerciali. C’era grande vitalità e un’inarrestabile circolazione di idée. Ricordo che erano pochi fogli ciclostilati, messi assieme a mano, graffettati in formato A4, con il nome di Camels Comingo Ole.
Che impatto ha avuto in lei, come persona e come poeta, vivere in una società segregata?
La mia era una vita fuori dal comune. Ero un topo di biblioteca. Un avido lettore di giornali, di fumetti e, sin da giovane, amavo i libri di fiabe per bambini. Quelle sono state le mie prime fonti scritte. Erano i tempi in cui Booker T. Washington, un famoso educatore Negro del XIX secolo, aveva grande influenza sulle famiglie nere. A quel tempo l’unico modo per lasciare il ghetto era avere un’educazione. Per molti di noi significava semplicemente leggere. Il che vuol dire che ho sempre avuto un grande rispetto per le parole stampate. Lo dimostravo leggendo di tutto: tutto quello che potevo trovare sugli scaffali di casa, nelle mensole dei negozi e, naturalmente, nella biblioteca di quartiere. C’è un episodio che mi diverte ricordare; quando mio fratello ha rubato un intero scatolone di libri dal fondo di un camion e mi ha quasi obbligato a leggere tutta la refurtiva. In quei giorni gli editori di libri economici avevano iniziato a stampare i classici della letteratura mondiale. Per cui chiunque poteva farsi uno scaffale con i testi di Omero, Conrad, Dostoevskij, Melville e Hawthorne. Spesso erano stampati con copertine fosche o accattivanti che rimandavano a storie d’avventure o racconti proibiti dai contenuti poco cristiani. Ho ricordi vividi di quando leggevo Alfred North Whitehead e John Dewey, senza capire sino in fondo quanto fossero complicati. Faticavo su ogni parola, come chi ascolta un concerto di musica moderna, dissonante. Poi, vivere in una comunità segregata significava che quelli che avevano avuto successo – insegnanti, avvocati, dottori e politici – spesso abitavano nella porta accanto della povera gente. Il vantaggio consisteva nel fatto che si percepiva uno standard alto per l’educazione e l’intelligenza. Nasceva a volte una competizione per raggiungere degli obbiettivi reali, visibili, che andavano oltre la propria esperienza. Ma, allo stesso tempo, significava anche che non potevi comprare nei negozi e nelle librerie del centro. Di questo me ne sono accorto pienamente solo verso i dieci anni. L’impatto del razzismo nella città di Baltimore e nella mia vita è stato, in qualche modo, sottile. Essendo il più piccolo ero molto attaccato a mia nonna e mia zia. Ascoltavo con loro la radio e andavamo al cinema assieme. Ho imparato ad apprendere molto del mondo attraverso la lettura; così quando ho cominciato a frequentare la parte Bianca della città ero piuttosto sprovveduto e naïve. Non sapevo cosa mi sarebbe potuto succedere per il semplice fatto di essere un nero che se ne va in giro per la strada. Ricordo che frequentavo le librerie e biblioteche come se facessi parte integrante di quel mondo. Forse le cose per me non erano poi così cattive come uno può immaginare. In quel periodo ho speso gran parte della vita dove molti dei miei simili e coetanei non andavano.
Ha scritto 1935: A Memoir, un libro in versi e prosa poetica molto bello. Si parla dei ricordi di un uomo di colore durante la Depressione degli anni ’30 e la seconda Guerra Mondiale. Per quale ragione passa da un genere all’altro?
Io sono un grande ammiratore del teatro musicale e ovviamente di Bertolt Brecht. Nel suo teatro si va spesso dal dialogo alla musica. Cito Brecht perché è l’esempio più sofisticato e politico di questo genere di teatro. Se si legge attentamente 1935, la prosa ha un importante fluire ritmico. Allo stesso tempo la poesia ha la semplicità diretta e tipica della prosa. Mi piace pensare a 1935 come a una memoria creativa e dinamica; un modo di raccontare che sfoci e si realizzi pienamente in una sorta di performance. Questa è l’origine e il segreto del blues. Il blues non è altro che una performance della voce.
Pensa a sé stesso come a un poeta Americano, un poeta Afro-Americano o a un poeta nel mondo?
In tutti e tre i modi. In quanto poeta Americano sono profondamente influenzato dalla storia della cultura Americana. La uso come gli scrittori che fanno parte della tradizione europea occidentale. Poi sono un uomo Afro-americano e un poeta Afro-Americano, perché quello è il mio retaggio di riferimento. Desiderando essere autentico, lo uso. Ma lo uso nel senso che Richard Wright, in quanto scrittore Afro-Americano, usava Delitto e Castigo;cioè come un’interpretazione della propria esperienza esistenziale. Ricordo che quando ho letto le mie poesie in Italia, mi sono sentito di presentarle al pubblico dicendo semplicemente che quelle poesie parlavano di famiglie, fatte di uomini e donne, che si relazionano in un contesto domestico e sociale. E non ho aggiunto altro. Non sono un poeta Afro-americano che scrive per un pubblico Afro-americano. In questo senso penso a me stesso come parte di una tradizione poetica universale.
Lei cita spesso l’influenza di scrittori francesi, italiani e russi – poeti, narratori e cineasti. Potrebbe chiarire meglio?
Quando ho letto Delitto e Castigo per la prima volta avevo circa 18 anni. Lavoravo come portiere notturno in un condominio. L’esperienza del protagonista in quel romanzo a me sembrava del tutto simile a quella di Bigger Thomas in Native Son di Richard Wright. La scoperta di sè, attraverso un atto di violenza. Poi la redenzione che passa attraverso la presa di coscienza; nel momento stesso che lui capisce qual è il suo posto nel mondo. Accetta la sua condizione. Voglio dire che Dostoevskij, Simenon e Moravia, e tanti altri, hanno modificato sostanzialmente il mio modo di sentire la vita; oltre che sviluppare le mie capacità di scrittore. I poeti hanno bisogno di leggere della buona prosa; anche per capire cosa significhi essere qualcosa di più che se stessi.
Il poeta ha un dovere nei confronti del linguaggio, ma il narratore ha un preciso dovere verso la verità. Silone e Moravia mi hanno influenzato in molti modi. Moravia mi ha fatto capire e apprezzare Omero, nel modo in cui solo un critico scaltro e sofisticato sa fare; così come Simenon è maestro nel farci capire come funzionano i sottili meccanismi che operano nella realtà.
E l’opera di Ignazio Silone?
Beh, grazie a Silone ho inteso meglio l’opera di John Steinbeck e altri scrittori epici americani di quel periodo. È come se tutti loro fossero stati toccati dalle stesse esperienze. Pur in società diverse hanno finito con lo scrivere romanzi in grado di dialogare a distanza. Sono testimoni di esperienze politiche, economiche e culturali molto simili fra di loro.
C’è qualche regista del cinema italiano che le piace particolarmente?
Per i film penso a Sergio Leone, un regista che è stato capace di inventare un genere completamente nuovo. Per noi americani i film western di Sergio Leone, sono molto importanti. Con la sua epica, è stato in grado di destrutturare i miti seminali che hanno alimentato la nostra infanzia. Bisogna essere americani per capirlo sino in fondo, per capire esattamente di cosa parla C’era una volta il west; dove si mischiano i film western di Hollywood con lo stile narrativo del cinema giapponese ed europeo; anche grazie alla musica straordinaria di Ennio Morrricone. Mi piace anche pensare che Morricone, a sua volta, sia stato influenzato da Dimitri Tionikin, essendo entrambi europei. Poi, naturalmente, ci sono anche Fellini e Antonioni, due registi e maestri del linguaggio cinematografico che non hanno niente in commune fra loro. Certamente De Sica, che è quello che sento più vicino a me per il suo impegno sociale, come in Ladri di biciclette. Un film importantissimo per la cinematografia Americana. Ancora oggi fa scuola e ispira l’ultima generazione dei nostri cineasti neo-realisti. Basta pensare a Man push cart (2008) ambientato nella New York di oggi, di Ramin Baharani, un giovane regista americano di origine iraniana di grande talento .
C’è un poeta o uno scrittore che lei preferisce in particolare?
Nel corso della vita ho avuto molti autori ‘preferiti’. In questo momento direi Omero, perché la sua scrittura equivale a una bibbia laica. Quando si legge l’Iliadeo l’Odissea è come se si leggessero i grandi libri della storia della letteratura in due soli volumi. Nell’Odissea, per esempio, Omero ci fornisce sia la difesa che la critica del fenomeno della Guerra. Ci fa capire cosa sia la Guerra. Ce ne mostra le conseguenze fisiche e psicologiche riassunte nella vita dei soldati, le stesse di sempre. E poi per quei suoi ritratti multidimensionali delle donne, spesso vittime, in una società dove non erano certamente viste come ‘eguali’.
Recentemente è venuto in Italia. Ha letto i suoi versi al Porto dei Poeti di Cesenatico. Come ricorda questa esperienza?
In verità è stato il mio primo viaggio in Europa. Ed anche la prima volta che ho letto di fronte ad un pubblico che parla un’altra lingua. È stato bello e importante, da un punto di vista personale. Mi ha fatto riflettere anche sui contenuti e l’importanza della letteratura. È importante per un autore vedere gli effetti sul pubblico della propria opera, mentre viene tradotta. È come veder nascere un altro sè stesso, a volte insospettato. In Italia ho sperimentato una nuova combinazione fra il linguaggio del corpo e della mia voce. Il fatto che i miei versi fossero in inglese, diveniva secondario. Questo perché il traduttore era alle prese con un lavoro estremamente complesso e sofisticato: cercava ti comunicare gli aspetti universali contenuti nei miei versi. È stato commovente ricevere i complimenti di un pubblico che parla un’altra lingua. Un pubblico che riusciva non solo a comprendere il mio lavoro, ma a coglierne certi aspetti che lo stesso pubblico americano non aveva inteso, malgrado l’identità linguistica. Credo fermamente nella funzione della traduzione, perché la traduzione apre nuovi accessi all’opera, mette assieme la gente. Allarga la dimensione della coscienza sociale. Vorrei tornare in Italia. Poi mi farebbe piacere se qualche editore si interessasse ai miei versi.
Come spiega il suo amore per la fotografia, le foto che ogni tanto espone?
Sono scatti estemporanei, fatti nella tradizione dei fotografi realisti come Lange e Evans. Io sono un fotografo dilettante, da molti anni. All’inizio volevo documentare la vita del bambino Negro. Oggi nessuno usa più questa parola, ma non si può abolire la storia con un parola. Volevo mostrare la fisicità e i luoghi in cui ho vissuto, che in quei tempi formavano due o tre Americhe separate, pur essendo all’interno della stessa nazione. Volevo preservare l’immagine del mondo com’ era. Per questo mi sono inginocchiato sui marciapiedi, ho scalato il Shaw Monument; per guardare attraverso l’obbiettivo le zampe dei cavalli, i piedi dei soldati di colore che si dirigono verso Sud per difendere i loro fratelli e fare la Storia. Sono stato immobile in piedi agli angoli delle strade per ore, aspettando che la vita degli altri si fermasse per me. Oggi lo faccio con una piccola fotocamera digitale. È molto più facile: sono i giorni e le notti, oppure i miei pomeriggi a Boston e a Cambridge che emergono. Sono luoghi che cambiano in continuazione. Spetta a noi chiederci le ragioni del loro cambiamento. Condividerlo oppure no. È un mondo che fugge e non si ferma mai, a meno che non lo si fermi noi.
SAM CORNISH: CINQUE POESIE
Traduzione di Elena Dolcini e Walter Valeri
LE FOTO DI MIA MADRE
Le foto di mia madre
Non mi somigliano affatto
Sono i miei antenati
Con un grembiule
Pieno di fagioli e la bocca
Sul punto di dire qualcosa
Sto ancora aspettando
Di udire le loro voci
PICTURES OF MY MOTHER
The pictures of my mother
Never look like me
They are my ancestors
With an apron
Full of beans a mouth
Ready to speak
I am still waiting
To hear their voices
DAL SIG. SANDERS IL BARBIERE
A mia madre a cui devo il primo taglio
di capelli dal Sig. Sander
Siediti raccontaci una storia questo sabato mattina
ora che la settimana è quasi finita mastica un po’
di tabacco accenditi una Camel dà una bella tirata
sulla sedia del Signor Sander il barbiere
(è quasi tua, dato che paghi e lasci la mancia)
fatti fare quel taglio speciale metti il tuo sederino
sulla sedia del Signor Sander che lui col suo tocco particolare
(chiedi alle donne) sa sistemare
i capelli crespi poi con un colpo di spazzola
li fa planare sul pavimento il Signor Sander racconta storie
di lavoro duro questa settimana e ti sconvolge
con quelle mani che sembrano rocce mentre stringono la scopa
e tu col tuo cappellino rosso stanco d’aspettare il treno
in piedi con in mano le borse e i vestiti eleganti
giovanotto dice il Sig. Sander “Conosco
tua mamma so che lavori duro
siediti raccontami la tua storia”
IN MR. SANDERS’ BARBERSHOP
For my mother, who got my first
haircut at Mr. Sanders’
Sit down tell us a story this Saturday morning
now the week’s almost done chew some
Tobacco light a Camel take a deep smoke
In Mr. Sanders’ barber chair
(you almost own it payin’ and tippin’)
Getting’ that hair cut that’s right put your behind
Here in Mr. Sanders’ chair him with the gentle touch
(ask the women) he makes your nappy
Hair lay down straight go through the comb
Drift to the floor Mr. Sanders tell stories
Of hard work this week done you out
Those hands are rock hard grippin’ that broom
You with the red cap on so tired of standin’
At the train liftin’ bags or fine clothing
Young man says Mr. Sanders “I know
Your mamma and you workin’ so hard
Sit down tell me your story”
MIO PADRE SE L’È SVIGNATA
Mio padre mi porta
In regalo
Del melone
E mais
Abbrustolito
Mio padre se l’è svignata
Di nascosto
Verso Nord
Mio nonno
Ha dato
A suo figlio
Una manciata
Di Mais
Abbrustolito
E gli ha detto
D’andarsene
Che non
Per molto
Se la sarebbe cavata
Qui
Mio nonno
Pregava
Gli Dei
Che vivono
In Africa
Pregò Dio
E
Suo figlio
Perché mio padre
Se la svignasse
Mio padre
Cantava
Canzoni
Da schiavi
Di amici
E famiglie
Mio padre
Non canta
Più
Mio padre
Se l’è svignata.
MY FATHER STOLE AWAY
My father brings me
Gifts
Of melon
Parched
Corn
My father stole away
Stole
Away north
My grandfather
Gave
His son
A handful
Of
Parched
Corn
Told
Him
To steal
Away
He ain’t
Got long
To stay
Here
My grandfather
Prayed
To gods
Living
In Africa
To God
And
His son
To let my father
Steal
Away
My father
Sang
The songs
Of slaves
Of friends
And families
My father
Sings
No more
My father
Stole away
DONNA VESTITA DI ROSSO
Vestita di rosso una donna
Piegata in ginocchio lava
Un pavimento vecchio di cent’anni
Da forma alla vita
Dei suoi piccoli lei crede
Di essere una donna libera
Un luogo buio nei boschi
Dove il Nord filtra fra gli alberi
Si chiede se la vita sia la storia
Se può perdere i suoi bambini
Se leggere sia un delitto
Non chiede di essere compatita
C’è da dare lo straccio
Non si lava i denti
Li strofina con fili di paglia
Si muove in ginocchio
Guarda il soffitto nell’acqua
Riflessa nell’acqua
Tutta la sua vita
Dura come il pavimento
Che lava
L’acqua è nelle sue mani
L’acqua è fra le sue gambe
Il corpo un sacco di muscoli
Le mani scure d’ acqua sporca
Si chiede dei suoi figli
Il numero dei figli
Se potesse contare oltre le dita
Che ha il suo corpo
Le parole da dire
Se sapesse leggere
Raccoglie l’acqua
Come suoni nella testa
Si inginocchia
Come una schiava
In chiesa
Come una schiava è pronta
A danzare
Di fronte a quella grande casa
Si finge calma
Mentre trita il vetro
E piscia
Di sera
Macina
WOMAN IN A RED DRESS
In a red dress a woman
On her knees washes
A floor one hundred years ago
She is shaping the life
Of her children she thinks
As a woman of freedom
A dark place in the woods
Where the North enters the trees
She wonders if her life is history
A woman losing her children
If reading is a crime
She does not ask for pity
There is a damp rag on the floor
Does not brush her teeth
She picks them with straw or sticks
She moves on her knees
Watch the ceiling in the water
Reflected in the water
Everything in her life
Is hard like the floor
She washes
The water is in her hands
The water is between her legs
Her body is like a sack of muscle
Her hands are dark with water
She wonders about her children
How many children
If she could count past her fingers
About her body
The words she would find
If she could read
She gathers water
Like sounds in her head
She kneels
Like a slave
In church
Like a slave preparing
To dance
In front of the big house
She pretends to be quiet
She is grinding glass
Pissing
In the evening
Meal
1976
alcuni di noi andranno
in Africa
alla Mecca
nel terzo mondo
nelle cantine illuminate
con un libriccino rosso
e strane donne bianche
col bacomat
alcuni di noi daranno
qualche centesimo
alla chiesa
nella speranza di comprare
piccoli pezzi di Dio
altri uccideranno le donne
che hanno sposato gli uomini
di Dio alcuni di noi
uccideranno
il verbo
1976
some of us will go
to Africa
to Mecca
to the third world
to basements with wire
and the little red book
strange white women
with credit cards
some of us will give
our nickels and dimes
to the church
buy we hope small
pieces of God
others will kill the women
who marry the men
of God some of us
will kill
the word
Sam Cornish è nato a Baltimore il 22 dicembre del 1935 e morto a Boston nel 2018. Citato nelle varie antologie dei poeti Afro-americani importanti, come quella di LeRoi Jones e Larry Neal Black fire: An Anthology of Afro-American Writing (1968) o nella più recente e canonica The Concise Oxford companion to African American Literature ( 2001) da molti viene considerato non abbastanza nero per i bianchi o troppo bianco per i neri. È stato nominato Poeta Laureato della città di Boston, nel 2008. Ciò che caratterizza la sua poesia è l’uso singolare di idiomi ed espressioni che attingono al grande serbatoio della cultura popolare, non solo Afro-americana. Fra i libri più conosciuti In this Corner(1964), Winters(1968), Generations(1971), Streets (1973), Sam’s World(1978), Folks Like Me(1993), Cross a Parted Sea(1996) e un libro molto bello di versi e prosa poetica che ha per titolo 1935 A memoir (1990). Coi suoi versi tiene in costante equilibrio rabbia e perdono. Con tocco tenero, asciutto, a volte sardonico, è la testimonianza di un poeta autentico che parla della povertà, del razzismo, l’abuso sessuale, il linciaggio o la violenza di strada, senza eccessi d’enfasi retorica. Ultimo libro pubblicato un’antologia personaleAn Apron Full of Beans( Cavan Kerry Press 2008) maturata negli anni, trasversale a generi e stili diversi. È il primo Laureate poetdella città di Boston.
Immagine in evidenza: foto di Mario Bellizzi.