SALTANDO IL MURO DELL’AMBASCIATA ITALIANA: FUGGIRE DALLA DITTATURA CILENA.

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LA STORIA DI VITA DI DAVID MUÑOZ
INTERVISTA A CURA DI LINA SCARPATI MANOTAS

David Muñóz comincia la sua militanza nel partito socialista cileno all’eta di 14 anni in un piccolo paese a 700 km a sud della capitale, chiamato Gorbea. I giovani socialisti dell’epoca partecipavano alle attivitá dei Licei. Sia come Presidente di classe  che come dirigente dei Giovani socialisti del Paese, si introdusse nella vita attiva come militante del suo Partito. Correva l’anno 1970 e i giovani socialisti partecipano attivamente nella divulgazione dell’informazione dei programmi che il Presidente Allende voleva implementare. David si trasferisce nella capitale della sua provincia e tutto va per il meglio. A Temuco la sua partecipazione nelle Gioventú finisce quando viene eletto dai compagni per dirigere/coordinare il Partito Socialista. Si implementa allora un’azione partecipativa, necessaria per l’applicazione della riforma agraria in un territorio con una grande popolazione indigena come quella dei Mapuche, popolo indigena combattivo che ha sempre lottato contro la discriminazione per mentenere tradizioni e diritti. A soli 23 anni, David viene eletto segretario Provinciale del Partito Socialista di Cautín.

L: David, come e quando ricevi la notizia del Colpo di Stato?

D: Ero andato a Santiago per assistere ad una riunione con tutti i segretari provinciali del Partito Socialista, era tra il 7 e  l’8 di settembre, ero anche per fare pratiche nei Ministeri (trasporto, educazione etc) e cosí chiedere di agevolare delle procedure per la nostra provincia. La mattina dell’11 settembre capimmo che in tv si sentivano solo marce militari. L’amministratore dell’albergo ci comunicó che era in corso un Colpo di Stato.

L: Ve lo aspettavate?

D: Era avvenuto un tentativo il 29 di giugno di quell’anno… sempre i militari! Carlos Prats, Generale capo dell’esercito, si mise davanti ai carri armati e ne fece scendere il comandante. Alcuni giornalisti morirono.

L: Cosa accadde?

D: Mi avevano avvisato di stare attento. Quel giorno tentammo di andare alla sede del Comitato centrale del nostro partito, in mezzo alle pallottole e agli spari dei soldati! Fummo ad un cantiere della Metropolitana di Santiago, allora in costruzione, i lavoratori non sapevano cosa fare… non si riuscí ad  arrivare al Palazzo di Governo. C’erano tanti gruppi di persone che per strada ascoltavano dalla radiolina il discorso di Allende, che invitava la gente a rimanere nei loro posti di lavoro, mentre lui rimaneva nel Palacio de la Moneda. Verso le 11.00 vedemmo arrivare gli aerei che lanciavano le bombe sopra il Palazzo di Governo. A quel punto era tutto irreversibile! Verso sera, si sentivano solo le notizie che i militari facevano trasmettere ai giornalisti, appelli ai cittadini per farli restare in casa, altrimenti sarebbero stati uccisi. Eravamo isolati! Dopo venne il coprifuoco continuo fino a giovedí ed io salutai i miei compagni ai quali furono concessi dei permessi per tornare a casa. Passarono altri otto giorni e dopo non ebbi piú notizie di nessuno. Ero solo a Santiago. Avevo uno zio che abitava a Santiago ed era impiegato pubblico, era stato già deposto dal suo  lavoro dai militari, accusato di collaborare con gli “estremisti” (socialisti o comunisti, terroristi ecc). Secondo loro eravamo una minaccia vera per la sicurezza nazionale, quando invece molti di noi, militanti o simpatizzanti furono torturati, fatti sparire o fatti prigionieri nelle carceri del regime.

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L: Come hai sopravissuto a quei giorni?

D: Una notte arrivarono 40 soldati al nostro albergo con l’accusa di aver ricevuto un attacco dalla nostra postazione. Portarono via 8 ragazzi. Io riuscì ad scappare nonostante irruppero in tutte le camere. Mi colpirono con un fucile alla schiena, mi interrogarono, ma con la scusa di fare il turista assieme al mio compagno di albergo che aveva il tesserino di tassista e grazie ad una distrazione in corridoio, ci lasciarono in pace!  Gli altri ragazzi che come me arrivarono a Santiago a lavorare per le proprie province furono portati via. Da lí in poi, iniziarono a sterminarci tramite diverse strategie. Dall’appello a presentarsi alle caserme, rivolto ad impiegati di alti ruoli dello stato, alle false notizie che servirono a coprire le uccisioni. La cronaca locale non faceva altro che pubblicare articoli in cui noi, cioé i “terroristi”, venivamo sterminati dalle forze militari negli agguati o nei combattimenti. Sia la tv che la radio rilasciavano ogni genere di “fake news”.

L: Ti cercavano nella tua provincia?

D: Si, mi cercavano vivo o morto, c’erano dei cartelli seminati nella mia provincia. Lo appresi da persone che trovavo per strada: “Devi cercare l’asilo politico” mi dissero. Cercai di raggiungere l’Ambasciata dell’Argentina (impossibile) ed anche quella della Finlandia. Qualche settimana dopo, arrivò una persona dal Sud che mi portò dei soldi. Anche un cugino, il giardiniere dell’ambasciata americana, mi avvisò che anche il mio contatto era ricercato. Il 9 ottobre, un giorno di pioggia, salì su un bus e vidi  qualcuno che mi fissava, scesi ma mi seguì. Quella stessa mattina tornai a casa di mio zio e proprio lì venni contattato da una suora per mezzo della persona che mi aiutò coi soldi. Mi disse che la mia vita era in pericolo e che dovevo scappare subito all’Ambasciata italiana. Erano in due, una suora in abito e l’altra vestita da laica e con una croce appesa al collo. Mi misero nel furgoncino che usavano per andare al mercato. Quella che guidava diede le istruzioni all’altra ed appena arrivati dal muro dell’Ambasciata disse: “camminate lungo il muro, lei vi aiuterà a saltare” . Così fu, lei mise le sue mani incrociate, io misi il piede e lei mi diede l’impulso per saltare, non senza dirmi: “mi chiamo Valeria, salutami gli altri che sono già dentro”.

L: Hai mai saputo di lei?

D: Si, in una Festa dell’Unità trovai un libro in cui si citava la suora Valeria, la quale telefonava tutti i giorni all’ Ambasciata Italiana in tono di protesta, perchè secondo lei: “lo Stato italiano non faceva poco e avrebbe potuto fare di più per aiutare i cileni che cercavano di scappare!”

L: Cosa hai sentito quando sei passato dall’altra parte del muro?

D: Vidi il giardino con piscina, un palazzo di 3 piani e salirono 2 o 3 compagni che mi accolsero. C’erano già dentro 25 persone. Rimasi 11 mesi lì! Vidi passare tanta gente che andava verso l’Italia. Eravamo 8 i differiti.

L: Cioé? 

D: I militari non ci davano il permesso per lasciare il Cile. Ogni volta che i funzionari italiani andavano al Ministero per chiedere l’uscita dei richiedenti asilo, rimandavano la nostra uscita dal Paese. Ad un certo punto eravamo solo in 8… e poi si produce un’invasione di persone che saltavano il muro. I militari invasero i quartieri popolari e molte persone cercavano aiuto disperatamente. In quattro giorni, arrivarono 150 persone. A luglio del ‘74 finalmente ho avuto il visto per uscire! Non eravamo più 8 ma 9, la Giunta Militare voleva smentire che eramo dei perseguitati.

L: Come vi trasportarono in aeroporto?

D: In 3 macchine, coi vetri completamente oscuri così da non poter vedere la città.

L’ARRIVO IN ITALIA

Era il 22 di agosto del 1974, piena estate, quando David Muñoz arriva in Italia vestito come fosse inverno, visto che veniva dall’emisfero opposto. Il calore era soffocante. Arrivò a Roma, ma assieme ad altri vennero subito condotti a Grottaferrata dove li aspettava un assistente sociale ed un funzionario del Ministero dell’Interno. “Nessuno dei miei compagni sapeva l’italiano. Ci dissero subito che la situazione economica italiana era difficile e che a causa della crisi energetica non era facile nè sopravvivere nè ricevere tante persone. Tra l’altro in quello stesso periodo, arrivarono gli italiani espulsi da Ghedaffi in Libia, erano profughi e si trovarono nel nostro stesso albergo. Eravamo in 50. L’assistente sociale ci disse subito di fare richiesta di asilo ad altri Paesi d’Europa e di andare alla Questura per registrarci e fare la richiesta di Asilo Politico. Dopo un po’ la Commissione dell’Acnur ci comunicò che eravamo profughi politici. Quindi potevamo muoverci e, in teoria, richiedere lavoro in città.

L: C’era lavoro?

D: Si!!! Ma la politica era quella di metterci in testa che potevamo andare in un altro Paese. Il direttore dell’albergo ci consigliò di andar fuori con un cestino. Da Grottaferrata al Colosseo bisognava prendere il bus, ma senza la lingua e i soldi…c’era solo da correre il rischio. Il cestino era tutto quello che avevamo (pane, frutta…). A quei tempi il turismo non era una priorità in Italia, tutto era a libero accesso, senza controllo. Il problema era che non avevamo neanche dei soldi per comprare un libro. Sull’Italia sapevo molto poco, ciò che avevo imparato a scuola.

L: Che facesti in quei giorni?

D: Mi recai subito agli Uffici del Partito “Cile Democratico”, trovai dei compagni e raccontai la mia storia. Mi dissero subito di introdurmi nelle prime manifestazioni di solidarietà per l’anniversario del Colpo di Stato. Feci promozione in diverse cittá: Milano, Firenze, Torino (200.000 persone manifestando contro il golpe). Poi, il Ministero dell’Interno italiano ci  disse di lasciare l’albergo temporalmente per andare a cercare lavoro in giro per l’Italia in cambio di un contributo di 50 mila lire. Se pensi che neanche un corso d’italiano ci avevano offerto, quindi era molto difficile andare in giro da soli a cercare lavoro. Inoltre avevamo un permesso in qualità di profughi, da cambiare in uno da lavoratori, ma per averlo dovevi avere un domicilio e una richiesta del datore di lavoro che decideva di assumerti…insomma una situazione difficile. Io invece mi sono messo a lavorare con l’ufficio del Cile Democratico che si era installato a Roma e gestiva la solidarietà con il Cile che si svolgeva in Italia e nel mondo. C’era una rappresentanza di ogni Partito de la Unidad Popular e del MIR e qualche segretaria, lavoravano alla classificazione delle notizie che arrivavano dal Cile per preparare le denunce presso le Nazioni Unite, ecc e per coordinare i compagni che andavano alle manifestazioni di solidarietà che si realizzavano dappertutto, anche perchè si avvicinava il primo anniversario del colpo di stato.

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L: Come erano gli italiani?
D: Molto solidari. I partiti anche, ma ognuno a modo suo. La gente voleva sapere cosa succedeva in Cile. Il contatto umano si vedeva nelle piccole riunioni, nelle fabbriche si raccontava la situazione del Cile, parlando agli operai un po’ anche in
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L: Come facevi con la lingua?

D: Leggevo tantissimo. Mentre ero all’Ambasciata lessi tanti giornali italiani, alla fine sapevo tante parole e frasi intere ma non riuscivo a farne un discorso completo. Un giorno mi venne proposto di andare alla Magliana…ero solo io…e così fu il mio primo intervento. Rimasi nell’albergo solo due mesi. Siccome loro dicevano che c’era la crisi, arrivò di nuovo l’assistente sociale ed offrì 50.000 lire per 15 giorni per chi volesse cercare lavoro e cosí girare l’Italia…alcuni accettarono, mentre altri decisero di andar a vivere in altri Paesi: Canada, Inghilterra, Romania e Jugoslavia, alcuni di questi ultimi tornarono. Dopo ci inviarono a gruppi di 40 negli autobus verso altre città italiane. Io scelsi Milano, ci sistemarono in un albergo nella zona della Stazione Centrale, 3 persone per ogni camera, donne esiliate con bambini piccoli. Nessuno ci spiegò che l’inverno era alle porte, neve fino alle ginocchia, chiamiammo l’assistente sociale…non avevamo nemmeno scarpe adatte. Ci procurarono delle scarpe, almeno per camminare. La situazione era tale, che le ragazze andavano ai grandi magazzini e per pura necessità mettevano mano alla merce per aiutarci…

L: Hai vissuto il “dolore migratorio”?

D: No, inserendomi in queste attività mi sono sottratto alle possibili crisi depressive in quel momento… Così, mentre alcuni giravano l’Italia per trovare lavoro, io giravo per denunciare quello che faceva la giunta militare al potere in Cile e allo stesso tempo dicevo a chi mi voleva ascoltare che i compagni cileni avevano bisogno di trovare lavoro e abitazione per inserirsi nel Paese, dato che non si sapeva quanto avremmo dovuto vivere qui… Questa richiesta la facevano tutti i compagni che facevano questo “tour politico”. In molti casi hanno avuto ascolto… e si sistemarono in questo modo diversi compagni, con l’aiuto delle sezioni dei partiti di sinistra e con la collaborazione delle cooperative che venivano sollecitate dai Comitati di Solidarietà con il Cile che si costituirono in molte città d’Italia. Devo dire però che molti compagni passarono per una depressione molto forte, alcuni avevano già una quarantina d’anni e per loro era molto più difficile imparare la lingua per esempio, e in molti casi avevano acquisito molte parole ma non riuscivano a sbloccarsi e incominciare a parlare l’italiano, questi ovviamente avevano ancora più difficoltà a trovare lavoro…

L: Quanto tempo perdurò questa situazione?

D: Ci rivolgemmo alle sedi dei nostri partiti, coscienti del fatto di voler tornare a fare una vita normale!!! Eravamo consapevoli che non avremmo avuto incarichi di governo come in Cile. Oltre che… c’erano persone con tanti studi e carriera (professori, ingegnieri, impiegati). Un compagno che si chiama Juan Contreras González andò ad una manifestazione di solidarietà a Novate Milanese e dopo aver parlato del dramma del Cile disse che noi avevamo bisogno di lavoro e casa…Lì in quella riunione c’erano dei dirigenti della Coop Italia di Milano e loro si impegnarono a parlare con la loro cooperativa…qualche giorno dopo questi compagni comunicavano che avevano creato le condizioni per assumere 12 compagni cileni. Il Compagno Contreras ha comunicato questo a tutti quelli che eravamo in albergo e volontariamente si è completato il numero di compagni che avevano deciso di provare il lavoro in cooperativa. Inoltre il Comune di Novate Milanese ha messo a disposizione due alloggi da utilizzare collettivamente provvisoriamente, finché non si creassero le condizioni per trovarne altri…E così cominciai a lavorare nella COOP Italia, a Bollate, i compagni del Municipio di Novate Milanese ci procurarono una casa da affittare. Eravamo in 11, appartamenti con il corridoio esterno ed il bagno alla turca fuori. Così iniziò la mia sistemazione. Non smettemmo mai di riunirci, ogni sabato, con la speranza di riprendere i contatti con i nostri cari e di sapere di più sulla situazione in Cile.

L: Avevate notizie?

D: Qualcuno riusciva a telefonare. Dai miei non c’era il telefono. Dovevano andare in un ristorante e a loro volta mandavano qualcuno a chiamarmi. Non si esprimevano, frasi monosillabiche senza far trapelare dettagli, perchè già mio padre era stato in prigione per conto della dittatura (3 mesi), era un funzionario pubblico (delegato sindacale degli operai ferroviari), lo fecero rinunciare tre anni prima di arrivare alla pensione. Lo fecero apposta. Tutto era limitatissimo. Almeno erano tranquilli… certo!!! Ma mi mancava tutto. Mi mancava soprattutto quello che avevo fatto per cambiare il mio Paese. Nel 1971 il rame era stato nazionalizzato, tolto dalle mani alle multinazionali americane. Pensammo che grazie al rame come risorsa della nazione avremmo potuto costruire tanti progetti. Invece, la borsa a Parigi fece calare i prezzi e ci fu grande pressione contro l’economia del nostro Stato. Avevamo un sogno e ci fu tolto dalle mani.

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LA VITA IN ITALIA

Dopo aver vissuto a Milano e a Palermo, dove nacque la sua figlia Millaray (parola Mapuche che si traduce come Fiore della mattina, Fiore d’oro, dell’alba dorata, ecc.), David si trasferì a Bologna dove attualmente risiede con sua moglie, conosciuta nei giorni in cui il dittatore Pinochet fu fermato a Londra e a Bologna si era costituito un Comitato per chiedere che il dittatore fosse processato all’estero, dato che in Cile avrebbe trovato tutte le protezioni e non sarebbe stato processato.

 

L: Cosa ti ha dato l’Italia?

D: A dire il vero, ho avuto meno possibilità di stare male che diversi altri miei compagni di esilio…Vero è anche che diversi miei compagni arrivati in Italia sono stati molto meglio di me dal punto di vista lavorativo, economico e politico, ma così è la vita, non possiamo lamentarci più di tanto…certo, credo che allora lo Stato Italiano avrebbe potuto fare qualcosa di più, per esempio spendere qualche soldino per darci un corso di lingua, in modo da farci affrontare meglio la nuova vita che iniziavamo.


L: Come vedi  la situazione attuale  dell’esiliato politico in Italia?
D: Oggi credo che la situazione dell’esiliato politico è molto diversa da quando siamo arrivati noi nel 1974. Allora non c’erano leggi in grado di regolamentare la situazione. A quei tempi, i rifugiati politici in Italia per la maggioranza erano europei, provenienti dalla Spagna, del Portogallo e della Grecia e moltissimi dell’Est Europeo che scappavano dal Comunismo, specialmente della Polonia, e molti di questi rimanevano in campi profughi a Latina. Poi si sono aggiunti quelli che sono stati espulsi da Ghedaffi in Libia. Comunque il fatto che non ci fosse una legge in grado di regolare la situazione dei richiedenti di asilo politico era una questione che creava confusione ed in alcune città le questure ci trattavano in modo diverso da altre…poi eravamo relativamente pochi. Oggi c’è una legge e ci sono tantissimi richiedenti. Questo fa sì che la situazione sia molto difficile. Noi abbiamo avuto molto aiuto anche dai singoli cittadini, dato che in tanti si sentivano politicamente vicini a noi. Oggi non si può fare nessun paragone con quello che abbiamo vissuto noi…oggi i richiedenti che arrivano soffrono per davvero! Altrochè i momenti di depressione che potevamo vivere noi! Oggi è una tragedia quello che vivono le persone che arrivano, e dico una tragedia quando decidono di abbandonare il proprio Paese, una tragedia quando s’imbarcano per il viaggio, una tragedia quando arrivano. Non vorrei trovarmi nei loro panni. È cambiata anche la gente, sono cambiati i partiti, è cambiata la società. Quello che c’era prima non c’è più ma bisogna ricostruire una società solidaria che si è persa.

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Lina ScarpatiLina Scarpati nasce in Colombia dove si laurea in Scienze della Comunicazione Sociale con indirizzo audiovisivo alla Universidad del Norte (Barranquilla). Dopo aver lavorato per il canale di televisione della sua Regione come scrittrice e nell’ambito della gestione culturale
per il governo Italiano in Colombia, riceve una borsa di Studio per realizzare studi di perfezionamento in Marketing Culturale all’Universitá di Bologna. In Italia ha lavorato per documentari come “Sacco e Vanzetti” e nell’ambito delle comunicazioni a livello imprenditoriale sviluppando progetti d’indole editoriale nonché strategie di promozione. Nel 2016 crea il sito “Mujeres en Travesía”
www.mujeresentravesia.com, blog bilingue (spagnolo ed italiano) dedicato alle donne immigrate ed ai processi di interculturalità vissuti nei paesi di accoglienza durante il percorso per arrivare al “sogno migratorio”. Nel 2018 è stata selezionata dalla Cineteca di Bologna per il progetto “Autoritratti nell’era del selfie”, mostra di autoritratti esposti in sede. Attualmente, lavora come copyrighter per diverse agenzie di comunicazione nel territorio bolognese.

Foto di copertina dall’archivio personale di David Muñoz, per gentile concessione.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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