Il regista racconta lo spettacolo di teatro creato insieme a 10 studenti delle scuole superiori del Trentino nell’ambito del progetto “Visto Climatico”(1), promosso dall’Associazione Viração&Jangada
Teoricamente esistono infiniti modi per raccontare qualcosa a qualcuno. Da regista non posso che ritenermi fortunato, perché raccontare attraverso il teatro oggi vuol dire confrontarsi con una ipotetica vastissima interpretabilità di ciò che si sceglie di raccontare. Sabbia è sì un granello, tanto specifico da poter essere inquadrato sotto la lente di ingrandimento come ‘spettacolo teatrale di nicchia sui cambiamenti climatici e le migrazioni’, ma allo stesso tempo è anche un mare, di interpretabilità, talmente sconfinato da poter essere chiamato semplicemente ‘cambiamento’.
Oggi, Sabbia – dieci storie vissute che attraversano un palcoscenico, ve lo racconto così.
Alcuni anni fa mi capitò di guardare un documentario nel quale si parlava di un vecchio villaggio coloniale ormai abbandonato in Sudafrica o Botswana, non ricordo di preciso. Nel corso del tempo il villaggio era stato gradualmente invaso dal deserto che avanzava inesorabile; entrando nelle stanze l’operatore inquadrava vere e proprie dune formatesi tra una parete e l’altra, e una sensazione di impotenza mista ad ammirazione invadeva lo spettatore maschio adulto medio, nato e cresciuto in un Occidente ormai assuefatto da troppe immagini per considerare la recondita possibilità che una di esse potesse imprimersi ancora nel proprio subconscio così profondamente da far scaturire dopo anni le stesse sensazioni al pronunciarsi della parola ‘sabbia’.
Ecco che, dopo anni appunto, mi ritrovo all’interno di una stanza, due colonne in cemento, tre panchine in ferro, rosse, tende nere che aperte lasciano interdetti sull’opacità dei vetri tanto quanto sul panorama incombente, un pavimento che non riesci mai a pulire in profondità, dieci ragazzi e un’aspettativa, una durata presumibile: e quando questa attesa sarà esaurita? Esplorare. Questa è la parola d’ordine. Prima impressione: dieci entità a se stanti, pianeti lontani, nulla li lega, sembrano radicalmente diversi: “Buongiorno. Parleremo dei cambiamenti climatici e delle migrazioni ad essi associate. Cosa vorreste dire a chi verrà a vedere questo spettacolo?” “Che non c’è più tempo / che quanto sta accadendo altrove oggi, potrebbe accadere qui domani / che sono i piccoli gesti a cambiare il mondo / che dobbiamo fare qualcosa / che!” Approccio a dir poco banale, ma pur sempre necessario per comprendere ciò che è meglio evitare: retorica, frasi fatte, slogan, copertine patinate. Riformulo la domanda: “Abbracciatevi. Cosa provi?”.
Ecco che incomincia, lentamente, giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, si apre una breccia, abbraccio dopo abbraccio, lacrima dopo lacrima, la linea che sembrava dritta diviene curva, si spezza, emergono contrasti, dubbi, tutto lentamente assume forme diverse: “Sono un ragazzo sensibile / sono arrabbiata ma non lo posso far vedere / devo essere perfetta / ho paura / non mi sento mai all’altezza / non posso sbagliare / sono una persona che!” Lentamente – perché ci vuole tempo – scopriamo di essere veramente diversi, e scopriamo che questo è ciò che ci lega. Non la pienezza di sembrare diversi, ma di essere consapevolmente diversi trasforma una premessa accademico-rivoluzionaria in un afflato di vita intensamente vissuta, condensata ed espressa con semplicità su di un palcoscenico; perché il teatro non è un’aula scolastica, assomiglia incredibilmente più ad un campo da gioco.
Ma la bellezza del gioco chiamato teatro sta proprio in quell’assoluta interpretabilità che lega noi che stiamo da questa parte, registi, attori, drammaturghi, tecnici, a voi che state dall’altra. “E allora?” Dopo una delle prime repliche in una scuola di Madrid un ragazzo alza la mano e chiede: “E allora? Cosa volevate dire?” Da regista non potrei mai rispondere a questa domanda, così osservo quei dieci ragazzi seduti in proscenio, finché una di loro prende il microfono e, portandosi una mano allo stomaco, replica al ragazzo in platea,: “Tu cosa hai sentito?” Ecco, appunto. Passano due mesi, debuttiamo in Italia con Sabbia in un piccolo teatro alla periferia di Trento. Sono presenti genitori e famigliari degli attori. Dopo lo spettacolo una ragazza seduta in proscenio chiede al pubblico: “Cosa avete sentito?”.
(Immagine tratta dal sito della Provincia Autonoma di Trento)
La maggior parte di loro non parla. Due settimane dopo replichiamo, sempre a Trento. Nel corso del dibattito a fine spettacolo la mamma di uno dei ragazzi seduti in proscenio chiede di poter parlare: “Due settimane fa ero presente al debutto di Sabbia ma non avevo capito molto; tornata a casa, nei giorni successivi, ho riflettuto e ho deciso di tornare a vederlo. Oggi ho capito. Mi sono lasciata andare, non mi sono più posta domande, ho ascoltato, ho lasciato che dentro di me emergesse non ciò che inizialmente cercavo sul palcoscenico ma ciò che era già dentro di me.”
Sabbia è lì, già presente dentro di noi, è reminiscenza che si fa catarsi, o più semplicemente è ‘teatro del cambiamento’.
Regista: Michele Trotter
Coordinatori del progetto: Paulo Lima (Presidente dell’Associazione Viração&Jangada) e Giulia De Paoli
(1)“Visto Climatico” è un progetto triennale di educazione alla cittadinanza globale dell’associazione Viraçao&Jangada, co-finanziato dalla Provincia autonoma di Trento, realizzato in collaborazione con il Centro europeo Jean Monnet, Fondazione Fontana, Associazione Mazingira, Associazione Culturale In Medias Res, MED – Associazione Italiana di Educazione ai Media e alla Comunicazione e con il supporto scientifico dell’Osservatorio Trentino sul Clima.
Immagine di copertina: Foto tratta dal sito della Provincia Autonoma di Trento.