Sab: un testo peregrino tra romanticismo, antischiavismo, femminismo (di Giovanna Minardi)

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Gertrudis Gómez de Avellaneda, una delle più grandi scrittrici in lingua castigliana, nacque a Cuba nel 1814, in seno a una famiglia relativamente benestante, di padre spagnolo e madre creola, proveniente da un’antica famiglia aristocratica cubana, gli Arteaga y Betancourt, che aveva sempre appoggiato l’educazione della donna. Tula, così la chiamavano in famiglia, pertanto ricevette lezioni da più tutori; non poté frequentare l’Università dell’Avana in quanto donna, ma, sì, poté leggere i classici della letteratura francese e spagnola della biblioteca di casa. Bisogna dire che in quegli anni a Puerto Príncipe, l’attuale Camagüey, vi era un’intensa vita intellettuale e politica e si conobbe anche un breve periodo di relativa libertà d’espressione, grazie al governatore Lorenzo. Tula probabilmente assisteva alle riunioni di famiglia e aveva accesso alle riviste locali e a quelle provenienti dall’Avana editate da membri della corrente liberal riformista di Domingo del Monte1. Ma tutto ciò venne represso dal Capitano Generale Tacón e tale repressione avrebbe motivato Tula ad appoggiare la proposta del padre di trasferirsi in Spagna, terra che lei immaginava grande e bella. Ma all’età di nove anni rimase orfana di padre e sua madre si risposò con il tenente colonnello Isidoro de Escalada. Secondo Doris Sommer (2014), una certa instabilità socio-economica e la minaccia di sollevazioni di schiavi (sull’esempio di Haiti) avrebbero determinato il trasferimento della famiglia in Spagna, nel 1836. Qui Tula trascorse prima un periodo con la famiglia del patrigno in Galizia, dove venne criticata dalle donne locali per le sue inquietudini intellettuali e il suo disinteresse per le faccende domestiche2. Probabilmente cominciò a scrivere Sab in quegli anni (1836-38), anni segnati, in Spagna, dalla prima guerra carlista (1834-1838) e dall’emancipazione degli schiavi delle colonie britanniche. In seguito, si trasferì a Siviglia, per conoscere L’Andalusia, la terra natale del padre, e qui ben presto s’inserì nel mondo letterario e intellettuale spagnolo, pubblicò delle poesie con lo pseudonimo “La Peregrina” e venne corteggiata da due pretendenti: Ignacio Cepeda3 e Antonio Méndez Vigo. Nel 1840, una volta andato via Cepeda da Siviglia, decise di trasferirsi a Madrid, dove, nel 1844, conobbe lo scrittore e giornalista Gabriel García Tassara, col quale ebbe una appassionata e tormentata relazione. Ma questi preferirà la carriera diplomatica all’amore e l’abbandonerà quando lei è incinta di una bambina, Brenhilde4, che morirà quattro mesi dopo esser nata (1845). Nel 1846 contrasse matrimonio con Pedro Sabater, uomo politico e affetto da una malattia incurabile, di cui Tula era a conoscenza. Egli, infatti, morì a Bordeaux pochi mesi dopo il matrimonio e lei, per un breve periodo, si rinchiuse nel Monastero di Loreto di quella città, dove compose Manual del cristiano, che verrà pubblicato nel 1853. Nel 1855 si risposò con Domingo Verdugo (colonnello e deputato), col quale, nel 1859, fece ritorno a Cuba, dove venne accolta con tutti gli onori, ma anche con tanta invidia e incomprensione (alcuni scrittori cubani le rimproverano la sua lunga assenza dall’Isola e la sua scarsa ‘cubanità’) che faranno sì che, una volta rimasta vedova, nel ’63, si vide costretta a tornare in Spagna, dove morirà nel 1873, a 59 anni, a Madrid. Qui aveva coltivato l’amicizia di Manuel José Quintana e di Juan Nicasio Gallego, tra gli altri, aveva collaborato all’unico numero de La ilustración de las damas con l’articolo “Capacidad de las mujeres para el gobierno”, forse una delle più importanti rivendicazioni del Romanticismo spagnolo dei diritti politici e sociali della donna5, ma Madrid vide anche frustrati due suoi desideri: essere dama delle Regina, per rafforzare la sua posizione socio-economica, ed essere ammessa alla “Academia de la Lengua española” in quanto donna (!)6.

Catherine Davies (2003) sottolinea come Tula, per farsi spazio nel mondo letterario maschile, sia stata ingegnosamente capace di tessere relazioni con le alte sfere della società spagnola, sposandosi con uomini legati alla Corte e coltivando amicizie con letterati, quali Manuel José Quintana, Alberto Lista, Juan Valera, ecc. La stessa in “Due parole al lettore” che precede Sab scrive di aver fatto leggere il suo romanzo a “persone intelligenti” che l’avevano apprezzato. Tuttavia, pur essendo sostenuta da una notevole rete di padrini, la sua vita è stata segnata da un cumulo di disgrazie, a cominciare dalla morte del padre, in seguito le seconde nozze della madre con un uomo con il quale non andava d’accordo, fino a una serie di matrimoni combinati da lei sempre rifiutati. Possiamo ritrovare tutti questi elementi, direttamente o indirettamente, nei suoi scritti. Inoltre, a una vita sociale e intellettuale colma di successi e riconoscimenti, non corrisponderà una vita sentimentale felice e, sebbene si sposò due volte, non poté mai coronare il suo sogno d’amore con lo scrittore Ignacio Cepeda e, come già segnalato, si vide abbandonata da Gabriel García Tassara.

Avellaneda scrisse un corpus consistente di poesie, teatro, articoli e testi di prosa, ed è proprio qui dove possiamo ritrovare il paradigma della sua evoluzione come letterata e come scrittrice femminista. Pubblicò sei romanzi7, ognuno dei quali rappresenta, in maggior o minor misura, un contributo alla problematica di genere. I personaggi che abitano questi testi vengono creati come ‘figure di resistenza’ che riflettono il conflitto interiore dell’autrice in quanto donna frammentata tra la propria identità e la necessità di aderire alle norme culturali del momento, così come si evince anche dalla sua Autobiografía e dalle sue lettere.

Sab è il suo primo romanzo, pubblicato nel 1841 e per il quale riceverà molte critiche, in quanto andava contro la sua stessa classe sociale d’appartenenza e contro la schiavitù. Nonostante provenisse da una famiglia schiavista in cui era abituale avere schiavi di razza negra, Gómez de Avellaneda crea uno schiavo negro superiore al suo antagonista bianco, meschino e calcolatore, al fine di dimostrare che siamo tutti uguali. La circolazione iniziale del romanzo venne ostacolata sia in Spagna che a Cuba. La prima edizione di Madrid venne sequestrata e ritirata dalla circolazione dagli stessi familiari della scrittrice per le sue idee abolizioniste8. Le autorità di Cuba si resero subito conto che dietro l’apparenza inoffensiva di Sab si celava la sovversione dei valori sociali, morali, economici e politici su cui poggiava la società cubana d’allora, pertanto il “censor regio de imprenta” decretò nel 1844 il fermo alla dogana di Santiago de Cuba di Sab e Dos mugeres, in quanto “la prima (contiene) idee sovversive sul sistema di schiavitù in questa Isola contrarie alla morale e al buon costume, e la seconda è piena di immoralità” (Maxwell 2016: 22). Gli esemplari vennero così rimandati in Spagna, nel 1845. Tuttavia, nel 1871, l’opera vide la sua prima riedizione, voluta dal movimento indipendentista cubano a New York, che ‘si appropriò’ del romanzo per il suo presunto contenuto abolizionista.

La storia è ambientata a Cuba nell’ingenio (luogo dove si lavorava la canna da zucchero) di don Carlos agli inizi del XIX secolo; si racconta l’amore non corrisposto tra uno schiavo, Sab, e la figlia del suo padrone, una donna di razza bianca, Carlota. Sab è figlio di una schiava negra, ex-principessa, e forse il padre era un uomo bianco e ricco, per questo il protagonista preferisce chiamarsi “schiavo e mulatto”. Egli inizia a lavorare per la famiglia Bellavista e diventa il compagno di gioco della figlia, ma dopo qualche anno s’innamora perdutamente della ragazza, che non contraccambia il suo amore perché innamorata di un giovane inglese, Enrique Otway. Quest’ultimo però è più interessato alla sua fortuna che alla donna; infatti, quando la famiglia Bellavista è costretta ad affrontare dei problemi economici, chi salverà le sorti della ragazza sarà Sab, il quale, grazie a una vincita della lotteria (vi è qui un topico romantico: la soluzione del problema grazie al caso, alla fortuna), fa sì che Carlota ed Enrique possano sposarsi. Sab sacrifica il suo amore, in più sarà lui stesso a consegnare a Enrique la lettera del padrone, in cui informa il futuro genero che Carlota ha vinto alla lotteria e che il matrimonio si può quindi celebrare. Purtroppo, un incidente avuto durante il viaggio e soprattutto il malessere interiore per aver perso la donna amata conducono il protagonista alla morte. Prima di morire Sab scrive una lettera a Teresa, anche lei adottata dalla famiglia Bellavista perché, come il protagonista, orfana; qui denuncia tutte le sofferenze patite a causa dalla società ingiusta in cui è vissuto. La lettera è anche una specie di manifesto della sua passione amorosa e non solo: il protagonista parla anche della schiavitù delle donne e in particolare di quella di Carlota, arrivando alla conclusione che la schiavitù delle donne, bianche o nere che siano, è peggiore della sua.

L’ambiente in cui si sviluppa la storia è ben descritto, tutto succede a Cuba, a Puerto Príncipe. I paesaggi cubani e gli animali del luogo sono descritti secondo i canoni romantici, in base ai quali la scenografia esotica, per un lettore europeo, deve occupare uno spazio rilevante: uccelli, piante, ecc. Si notano l’uso di aggettivi ‘estremi’, quali torrido, malinconico, vergine, giovane, vigoroso, notturno, tra gli altri; la presenza di elementi tipicamente romantici (sole, tramonto, nuvole, raggi, rondini, ecc.); colori quali porpora, argentato; tutto ciò riporta a una natura esuberante, ma al contempo offre qualche indizio sullo stato d’animo del narratore e/o preannuncia, simbolicamente, quanto accadrà a breve9. Sab, tuttavia, è un ‘testamento letterario universale’, che va oltre la realtà cubana, pur non perdendo la sua carica descrittiva né di denuncia sociale del sistema politico di Cuba. Ciò che risalta a una prima lettura è come l’autrice descriva la schiavitù e come la nobiltà sia intesa soprattutto come una qualità dell’anima. Lo schiavo Sab è intelligente, nobile e dotato di grandi valori, Gómez de Avellaneda vuole dimostrare che non ci sono razze né colori della pelle, che uno schiavo è semplicemente un essere umano come tutti e che dovrebbe godere degli stessi diritti dei bianchi. Ecco perché crea due personaggi in contrasto tra di loro, Enrique e Sab, il primo, bianco senza scrupoli e il secondo, uno schiavo buono: i valori morali sono universali, non conoscono negro o bianco, uomo o donna, siamo tutti uguali.

Nel contesto del romanzo antischiavista cubano, Sab si distingue soprattutto perché l’enfasi della narrazione non è posto sulle relazioni sociali presenti in testi quali Petrona y Rosalia (1838) di Félix Tanco; Francisco (1839) di Anselmo Suárez o il più celebre Cecilia Valdés (1939) di Cirilo Villaverde. In Sab si omette la dimensione testimoniale per concentrarsi sul conflitto di tipo sentimentale, sull’amore impossibile nutrito, tradizionalmente, dalla differenza sociale. I personaggi sono più importanti dell’azione e, secondo i canoni del momento, questi vengono descritti fisicamente (prosopografia) e moralmente (etopea), anche se, nel caso del nostro protagonista, all’immediatezza del ritratto fisico non corrisponde quella del profilo morale, che invece viene creato gradualmente, in modo quasi introspettivo e confidenziale (le sue riflessioni sentimentali).

La critica, in generale, ha indicato che nel romanzo si può individuare una molteplice ‘articolazione’ di tre personaggi – Sab, Carlota e Teresa -, proiezioni dell’io dell’autrice. Si basa su due triangoli amorosi che s’intrecciano tra di loro: Carlota è amata da Enrique e da Sab, e, a sua volta, Enrique è amato da Carlota e da Teresa.

Sab è un personaggio molto complesso: è appassionato e la sua forza sta proprio nella capacità di amare incondizionatamente, egli, infatti, si affida completamente all’amore. Si trova in una posizione di privilegio rispetto alla sua condizione e a quella degli altri schiavi, in quanto è il “mayoral”, l’uomo di fiducia del suo padrone ed è avvantaggiato dal suo aspetto e dalla sua nobile discendenza. Gómez de Avellaneda mostra il dramma della schiavitù, ma invece di descrivere la violenza cui erano costretti “questi poveri cristiani” si concentra maggiormente sulla sofferenza spirituale del protagonista. Quest’aspetto lo ritroviamo fin dagli inizi della storia e servirà da cornice all’intero romanzo, i cui personaggi rispecchiano in parte la realtà sociale del tempo e in parte sono riferimenti autobiografici. Possiamo definire Sab un eroe romantico che, per esempio, salva dalle fiamme il nipote di Martina:

Sab lo salvò! Tra le fiamme e con i piedi bruciati e le mani insanguinate, soffocato dal fumo e dal calore, cadde svenuto ai miei piedi, mettendomi tra le braccia Luis e Leal … questo cane, che allora era piccino e dormiva nel letto di mio nipote. Sab li salvò entrambi! Sì, la sua umanità si estese persino al povero animaletto.

Carlota invece rappresenta la donna innamorata, che ama incondizionatamente il suo uomo ed è accecata dalla passione. È molto ingenua e idealista:

Quando sarò la sposa di Enrique […] nessun infelice respirerà accanto a me l’aria avvelenata della schiavitù. Daremo libertà a tutti i nostri negri. Che importa essere meno ricchi? Saremo per questo meno felici? Una capanna con Enrique è sufficiente per me, e per lui non ci sarà ricchezza preferibile alla mia gratitudine e al mio amore

Carlota a sua volta è idealizzata dal protagonista, che la vede come una “donna angelo” che, con i suoi modi gentili ed eleganti, può salvare qualsiasi uomo. Viene descritta come una fanciulla bella, aggraziata, vestita di bianco (simbolo di purezza, verginità) e appare illuminata dalla luce della luna, altro simbolo di femminilità:

L’insieme dei suoi delicati lineamenti, e lo sguardo pieno di vita dei due grandi occhi, scuri e belli, davano alla sua fisionomia, illuminata dalla luna, un non so che di angelico e penetrante, impossibile da descrivere. Aumentava la perfezione di quella bella immagine un vestito bianchissimo, che disegnava i contorni della sua figura snella e piena di grazia, e nonostante si trovasse seduta, era evidente che fosse di elevata statura e ammirevoli proporzioni.

L’altra protagonista, Teresa, è completamente diversa dalla cugina Carlota. È quasi priva di emozioni, in apparenza, è fredda, tiene tutto dentro, ma anche lei è capace d’amare con generosità. La sua svolta avviene quando – nel secondo capitolo della seconda parte – in un dialogo con Sab, si offre a lui:

Io sono la donna che si affida a te: entrambi siamo orfani e sfortunati … siamo entrambi soli sulla terra e abbiamo ugualmente bisogno di compassione, amore e felicità. Lascia, dunque, che io ti segua verso climi remoti, in seno ai deserti … Io sarò tua amica, tua compagna, tua sorella!

Teresa condiziona l’evolversi narrativo del romanzo, convincendo Sab a usare il premio vinto alla lotteria per arricchire Carlota (Sab inizialmente voleva darlo a lei, affinché si sposasse con Enrique e così lui poter sperare di avere Carlota), inoltre, affinché l’onore di Carlota non venga macchiato da nessuna falsa supposizione, ammette come vera l’esistenza di una relazione amorosa con Sab, fatto assolutamente falso. Infine, Teresa indica a Carlota il cammino da seguire: l’amore e la compassione sono l’unica alternativa al mondo positivista e volgare. Se Sab rappresenta la passione e, una volta che non riesce a ottenere l’amore di Carlota, muore, Teresa incarna la capacità intelligente di dominare tale passione, per questo accetta il matrimonio di Enrique e Carlota, sovrapponendovi il suo carattere “fermo e deciso”.

Sab non riflette l’immagine stereotipata dello schiavo e Avellaneda lo fa portavoce della denuncia delle ingiustizie non solo degli schiavi ma anche della condizione sociale della donna d’allora. Gli schiavi, come la donna, “sono condannati a vedere uomini […] ai quali la fortuna e l’ambizione aprono mille cammini di glorie di potere; mentre loro non possono avere ambizioni, non possono sperare in un futuro”. È degno di nota come Sab esprima la propria frustrazione, i propri sentimenti, le proprie aspirazioni a una donna (Teresa), attraverso il mezzo privato della lettera, o nelle riflessioni tra sé e sé, per indicare forse come sul tema dell’uguaglianza delle donne vigesse pubblicamente il silenzio. Anche se la voce narrante ha l’ultima parola in ogni capitolo, la voce di Sab è quella che emerge con più forza in tutto il romanzo, attraverso la quale si porta avanti un discorso alternativo e autorevole che sfida il discorso dominante maschile.

Certamente nel romanzo sono presenti diversi passaggi antischiavisti, ma il fatto che in nessuna delle sue opere successive Avellaneda faccia riferimento alcuno alla schiavitù negra, fa pensare che la sua idea centrale non fosse l’abolizionismo, bensì l’analogia condizione femminile-schiavitù, tema che appare in Dos mugeres e in altri testi successivi a Sab.

Nel contesto dell’inderogabile opposizione di due ordini antagonistici e inconciliabili l’amore è percepito, secondo i canoni romantici, come un’attività spirituale che trascende le meschinità del mondo creato dagli uomini per far ritorno alle perfezione delle origini e per ricongiungersi a Dio. Nelle lettere e negli scritti autobiografici di Avellaneda è evidente come lei si autodefinisse un essere eccezionale e come, ideologicamente, la sua concezione dell’amore fosse affine a quella di numerosi scrittori romantici letti in gioventù. Nella sua Autobiografía (Gómez de Avellaneda 1907) leggiamo: “il principio eterno della vita che sentiamo in noi e che vediamo, per così dire, affiorare nella natura, questo soffio divino, che circola nelle sue creature, non può essere altro che amore. Un Amore spirituale che non si distrugge con il corpo e che esiste fin quando esisterà il gran principio, di cui è emanazione”. L’amore come forza trascendente ed eco della Divinità fa dell’amata una bellezza sensibile che conduce verso la bellezza eterna, visione platonica che da a Carlota la qualità di “eco dell’eterna melodia del cielo”, mentre il suo respiro è simile alla brezza pomeridiana e il suo corpo si paragona all’aurora in campagna. E a livello ontologico l’essere di Sab si definisce solo in termini di Passione, ragion per cui afferma: “Il mio amore, questo amore insensato che mi divora, ha avuto inizio con la mia vita e solo con essa può aver fine; i tormenti che mi causa formano la mia esistenza; nulla possiedo fuori di esso, non sarei niente se smettessi di amare”. Come tipico eroe romantico la sua condizione sociale di schiavo risulta essere uno stratagemma letterario per rappresentare il leit-motiv dell’amore impossibile (Guerra 1985).

Da una prospettiva critica femminista, tuttavia, non sembra fortuito il fatto che l’enfasi del romanzo sia posta sul piano metafisico, poiché la schiavitù non è vista come un fenomeno esclusivo della razza negra. Al contrario, estendendo i limiti di questo ideologema esplicito, l’autrice allude alla schiavitù della razza indigena rappresentata da Martina per, in ultima istanza, alla fine del romanzo, porre in evidenza che la schiavitù più intollerabile è quella della donna bianca nella società patriarcale borghese. Nella sua lettera, Sab descrive la sua visione dell’amata dopo essersi sposata con i seguenti termini enfatici:

È lei, è Carlota, con il suo anello nuziale e la sua corona di vergine … però la segue una schiera squallida e odiosa! Sono la delusione, il tedio, il pentimento … e più indietro questo mostro dalla voce sepolcrale e dalla testa di ferro … l’irrimediabile! Oh, le donne! Povere vittime cieche! Come gli schiavi trascinano pazientemente la loro catena e chinano la testa sotto il giogo delle leggi umane. Senz’altra guida che il loro cuore ignorante e credulo, scelgono un padrone per tutta la vita. Lo schiavo, almeno, può cambiare padrone, può sperare che accumulando oro comprerà un giorno la propria libertà: ma la donna, quando alza le deboli mani e la fronte oltraggiata, per chiedere libertà, ode il mostro dalla voce sepolcrale che le grida: “Nella tomba.” Non sentite una voce, Teresa? È quella dei forti che dice ai deboli: “Obbedienza, umiltà, rassegnazione … questa è la virtù.” Oh, io ti compatisco, Carlota, io ti compatisco anche se tu godi e io muoio, anche se ti addormenti tra le braccia del piacere e io in quelle della morte. Il tuo destino è triste, povero angelo, ma non rivoltarti mai contro Dio, e non scambiare mai le sue sante leggi con quelle degli uomini. […] Dio è il Dio dei deboli come dei forti, e mai chiede all’uomo più di ciò che gli ha dato.

Per quanto riguarda Carlota, se ci atteniamo alla norma testuale romantica, Avellaneda la caratterizza come un oggetto d’amore non diverso da altre rappresentazioni letterarie dell’epoca; la sua carnagione bianca come un giglio, il suo collo di cigno reiterano il suo indissolubile legame con la Natura come ambito divino. Nella sua rappresentazione stereotipata Carlota è priva, da una prospettiva femminile, di un corpo reale, di una femminilità esperita in un contesto domestico e in un ordine biologico. Tuttavia, si possono notare in lei delle ‘note a margine’ dell’estetica romantica maschile che ne fanno un’eroina dalla configurazione e dalla traiettoria complesse. In primo luogo, la sua caratterizzazione come Soggetto amante è elaborata a partire dall’asse disgiuntivo illusione- disinganno. Alla rappresentazione del suo sentimento idealizzato verso Enrique si giustappongono i commenti della voce narrante che profetizza la sconfitta delle illusioni in quanto prodotto di una immaginazione che idealizza l’amato e che irrevocabilmente si scontrerà con la realtà. Si produce così una tensione ossimorica tra l’amore presente e il disinganno futuro. D’altra parte, e in modo significativo, Carlota come coscienza rifiuta i valori pragmatici della società e si oppone alla violenza della conquista dell’America e alle ingiustizie della schiavitù. Similmente a Sab, la sua è una lotta tra la sua natura intrinseca e il destino assegnatole dalla società. Ma se in Sab l’essere/apparire equivale a un’anima e a un corpo, in lei questa dualità è più complessa. Deve mantenere le apparenze, far finta di essere una sposa felice, pur essendo legata alla natura e alla divino, in quanto esser femminile. Significativamente, la sua condizione è descritta facendo allusione contemporaneamente al piano sociale e individuale: “Carlota non poteva disapprovare con giustizia la condotta del marito né doveva lamentarsi della sua sorte, ma, ciò nonostante, si sentiva oppressa dalla serietà e dalla materialità di quel mondo del commercio”. Questa sua inadeguatezza implica come la condizione della donna vada contro lo stesso ordine divino, concetto che sarà il nucleo ideologico basilare della narrativa femminile a venire per denunciare il potere alienante dell’organizzazione patriarcale. La sua abdicazione si può considerare come l’inizio delle cosiddette ‘eroine dalla vita frustrata’ che appariranno in romanzi quali Ifigenia (1924) di Teresa de la Parra; La última niebla (1934) di María Luisa Bombal, per fare solo due nomi ormai ‘canonici’.

È esattamente questo processo di agnizione e la conseguente sconfitta del soggetto romantico femminile che dà a Carlota una funzione protagonica legata all’ideologia femminista di Avellaneda, anche se questo suo messaggio non va oltre il livello astratto della fatalità, così come la sua difesa della donna nei saggi del 1860 omettono il fattore basilare dell’infrastruttura economica. Ma la sua concezione femminista la porta a concludere il romanzo con due elementi significativi: la voce narrante finge di ignorare la sorte di Carlota, presupponendo “verosimilmente” che il marito si è stabilito in una città europea e lei ha dovuto seguirlo:

Vorremmo dare al lettore notizie anche della bella e addolorata Carlota, ma anche se abbiamo cercato di indagare sulla sua sorte attuale, non abbiamo potuto conoscerla. Verosimilmente suo marito, le cui ricchezze erano aumentate considerevolmente in pochi anni, morto il padre, avrà creduto conveniente stabilirsi in una città marittima più grande di Puerto Príncipe. Forse Carlota, come aveva previsto Teresa, attualmente vivrà nella popolosa Londra […]

“Verosimilmente” è sinonimo di imposizione sociale per la donna, ma, al contempo, lascia spazio al dubbio, all’incertezza, forse ci dice il narratore, e questo forse può anche significare che Carlota abbia abbandonato il marito. Tuttavia, il fatto che non si sappia nulla della sua sorte finale allude all’universalità della sua condizione sottomessa di donna, concepita allora come qualcosa d’irrevocabile.

Avellaneda va oltre il semplice parallelismo donna-schiavo, osa dire che la condizione della donna è peggiore di quella dello schiavo, perché questo “almeno può cambiare padrone, può sperare che accumulando oro potrà comprare un giorno la libertà”. Teresa, per scappare alla soffocante oppressione culturale, si rifugia nella solitudine del convento, reclusione che rappresenta in un certo senso una liberazione ma che è anche un indiretto atto d’accusa dell’inevitabile destino della donna nel mondo patriarcale. Le parole conclusive del romanzo, riferite a Carlota, – “Avrà potuto dimenticare la figlia dei Tropici lo schiavo che riposa nella sua umile sepoltura sotto quel bel cielo?” – contengono, segnando un finale inconcluso, il messaggio essenziale dell’autrice. È evidente che la risposta implicita che si aspetta Avellaneda è una reazione attiva contro le leggi patriarcali che rendono la donna schiava. Sia in Sab che in altre sue opere la nostra scrittrice vuole mettere in discussione la condizione sottomessa della donna e pertanto assumere una posizione femminista rivelando l’anelo di trovare una voce e un linguaggio propri che definiscano l’essere femminile libero.

In conclusione, Sab è un romanzo sentimentale, antischiavista, autobiografico, femminista, di denuncia; molto probabilmente le intenzioni dell’autrice, esplicitamente progressiste al momento della scrittura, quando uscì la prima edizione, subivano già un processo di ripensamento e di autocritica, ma tali ‘ripensamenti’ dipendono dal tempo che le è toccato vivere: cubana, quando Cuba era ancora colonia spagnola ma piena di fermenti indipendentisti, spagnola, ma donna e ‘indiana’, maschile e femminile, ribelle e ambiziosa. Tutte queste componenti ‘giustificano’ le contraddizioni e i controsensi evidenti nel percorso umano e artistico di “La Peregrina”, che in senso figurato significa strana, speciale e rara, straordinaria o insolita. Questo suo atto di battesimo letterario rivela il suo essere cosciente della sua ‘differenza’, una “differenza […] che ha proiettato dalla prospettiva di genere per mettere in discussione l’iniquità umana (Araújo 1997: 48).

Forse è eccessivo considerare Avellaneda una scrittrice femminista, ma concordo con Pastor quando asserisce che il ‘femminismo’ de “La Peregrina” possa aderire alla definizione e alla metodologia di Luce Irigaray, che ridefinisce il femminismo “un tentativo di creare un processo in cui le donne (e il femminile) possano essere soggetti del proprio discorso, essere agenti come donne. […] Al di sotto di quello che si dice, è possibile scoprire la materia, l’economia della materia, l’energia potenziale, le relazioni con l’altro e con il mondo. Il soggetto può essere mascherato, sotterraneo, coperto, paralizzato o può essere generato, può arrivare a essere e crescere attraverso il discorso” (in Pastor 2014). Non v’è dubbio alcuno che l’intenzione di Avellaneda fosse intervenire come donna e promuovere dei cambiamenti nella scrittura femminile. La sua scrittura può leggersi come un discorso dalla doppia voce, che contiene una storia ‘dominante’ e un’altra ‘messa a tacere, che si denomina palinsesto, prendendo in prestito un termine impiegato da Elaine Showalter. Avellaneda manipola con destrezza la retorica convenzionale maschile col proposito di creare un nuovo stile e una nuova identità femminile. Implicito in questo concetto è il voler preservare il vincolo con la madre, Teresa appare in connessione con la linea femminile della madre, come si evince dalla sue parole a Carlota: “Dobbiamo piangere eternamente una perdita che ci ha private, a te della migliore delle madri, a me, povera orfana abbandonata, della mia unica protettrice”. I lessemi piangere, perdita, abbandonata, unica protettrice suggeriscono la sua presa di coscienza e la sua vulnerabilità in quanto donna nella società patriarcale, fissando, indirettamente, le basi del parler femme di Irigaray. Quando “La Peregrina” non venne ammessa alla “Academia de la lengua” cominciò a promulgare apertamente le sue idee emancipatrici nella rivista letteraria Album cubano, da lei fondata al suo rientro a Cuba nel 1860. Nei dodici numeri pubblicati, incluse il suo polemico articolo “La mujer” in cui dimostra i meriti del suo sesso arrivando a riconoscere la superiorità del talento e dell’intelligenza femminili. I suoi sforzi vennero costantemente frustrati dalla società che lei criticava, fino ad arrivare a dire, in una lettera a Cepeda: “Sono stanca del mondo, degli ossequi, delle calunnie, della gloria e persino della vita” (Avellaneda). Verso la fine della sua carriera letteraria Tula apprese una dura lezione: per sopravvivere come scrittrice doveva trovare un compromesso tra la ribellione e un conformismo strategico alle norme sociali, per non essere così censurata né ridicolizzata.

La lettura dei suoi testi apparentemente fallocentrici non deve servire per definire l’identità della donna, bensì per porre in evidenza i codici culturali che l’apparato fallocentrico ha costruito per opprimerla. In tal senso, Gertrudis Gómez de Avellaneda rappresenta un importante contributo alla conoscenza della letteratura femminile e occupa uno spazio indiscutibile all’interno del canone della letteratura in lingua spagnola del XIX secolo e della storia del pensiero femminista. Per tutto ciò, la traduzione di Sab (ben curata da Rita Cardillo), che oggi propone Arcoiris, la prima in italiano, è un’operazione estremamente valida, in quanto viene a colmare un annoso vuoto.

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Servera José, “Introducción” a Gertrudis Gómez de Avellaneda, Sab, Cátedra, Madrid, 2009 (8ª edición), 11-93.

Giovanna Minardi

1 Nato a Santo Domingo, nel 1804, all’età di cinque anni, Domingo del Monte si trasferì a Cuba con la famiglia e risiedé prima a Santiago, poi a L’Avana, dove passò quasi tutta la sua vita. Fece parte del gruppo di creatori della “Academia de Literatura Cubana, e fu direttore della Revista Bimestre de la Isla de Cuba (18311834), dove pubblicò una piccola parte della su ampia, sia pur non eccelsa, produzione letteraria. Fu anche editore de Moda o Recreo semanal del bello sexo, nel 1829, e de El puntero literario, nel 1830, e fu membro della Sociedad Económica de Amigos del País Gli si riconosce di essere stato il primo critico professionale dell’Isola, in quanto, per mezzo delle sue iniziative editoriali e dei suoi salotti letterari a Matanzas, diffuse molto le lettere e la cultura cubane. In seguito alle accuse che gli vennero lanciate d’aver partecipato alla “Conspiración de la Escalera, abbandonò Cuba e morirà a Madrid, nel 1853. L’intellettualità creola che si riunì attorno a Del Monte a Cuba era favorevole a una abolizione graduale della schiavitù, alla transizione dal lavoro da schiavi a ‘operai con salario’ e soprattutto al fomento dell’immigrazione bianca, che avrebbe contribuito sia alla fine progressiva della schiavitù che alla creazione di una società retta dai bianchi. Tutto ciò era in sintonia con gli interessi di una circolo ristretto di “sacarocracia” (aristocrazia dello zucchero) che appoggiava la modernizzazione del sistema di produzione agricolo al fine di aumentare la produzione destinata al mercato mondiale, ma senza compromettere né la loro sicurezza né la loro condizione economica. Per quanto riguarda le relazioni tra Avellaneda e Del Monte, la scrittrice non partecipò ai suoi salotti letterari, in quanto abitava a Santiago de Cuba, e, sebbene entrambi risedettero a Madrid, coincisero solo sporadiche volte. Tuttavia, Del Monte conosceva l’opera di Avellaneda e questa era a conoscenza delle idee riformiste sulla schiavitù che circolavano a Cuba (cfr. Gomariz 2009).

2 Le donne di casa la chiamavano “la doctora”, “la atea” (Cruz 1976: 23). Inoltre, la Galizia non le fece una buona impressione, le appare come una terra povera: “A qualsiasi americano colpirebbe la povertà della Galizia. Nei primi giorni del mio arrivo a La Coruña mi rendeva malinconica il vedere per le strade una truppa di mendicanti, ricoperti di stracci schifosi, assediare il forestiero, importunarlo, e commettere qualsiasi bassezza pur di ottenere una moneta di rame […] Non avevo ancora visto un simile eccesso di miseria e di degrado umano” (in Servera 2009: 14).

3 Cepeda era nato a Osuna nel 1816, pertanto era due anni più giovane di Tula. Nel 1840 si laurea in Legge, fu poi consigliere provinciale a Siviglia e deputato alle Cortes. Morì nel 19006. La relazione di Cepeda con l’artista durò dal 1839 al 1840, ma i due ex-amanti continuarono a scriversi fino al 1854, quando Cepeda convolò a nozze con María de Córdova y Govantes. Tale relazione tormentata alimenterà il dramma Leoncia (1840) e un ricco e intenso epistolario tra i due. Cepeda, forse per vanità, conservò tutte le appassionate lettere di Tula che vennero pubblicate a Huelva nel 1907 dalla vedova.

4 Come Brenilde de La copa de marfil (1844) di Juan Zorrilla.

5 Sebbene non facesse parte del gruppo delle poetesse, Tula segnalò sempre le difficoltà delle donne ad affermarsi come scrittrici e reclamò il loro diritto all’attività intellettuale. Si vedano a tal proposito, gli articoli pubblicati in La América, Madrid, 1862, raggruppati sotto il titolo “La mujer”.

6 Morto Juan Nicasio Gallego, restò vacante il suo posto e alcuni importanti scrittori invitarono Tula a presentare la sua candidatura, nel 1853, ma non venne eletta. Bisognerà aspettare il XX secolo, quando una donna verrà ammessa alla “Academia de la lengua”: Carmen Conde. Nonostante ciò, Tula alla sua morte dona alla Academia la proprietà di tutte le sue opere.

7 Oltre a Sab, Dos mugeres (1842); Espatolino (1842); Guatimozín (1846); Dolores (1851) e El artista banquero o los cuatro cinco de junio (1861).

8 Emilio Cotarelo, invece afferma che il romanzo non è mai stata ritirato dai parenti di Avellaneda: “En mi juventud recuerdo haberla visto en casi todos los baratillos de libros de Madrid” (Cotarelo 1930: 392).

9 Carmen Bravo-Villasante, per esempio, scrive che in Sab l’elemento più rilevante è: “il canto alla natura americana, tropicale, esuberante, sconosciuta, e soprattutto il descrivere il sentimento di un mondo primitivo” (in Servera 2002: 50).

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Giovanna MinardiGiovanna Minardi è professore associato di Letterature ispano-americane presso l’Università di Palermo. Si è occupata soprattutto di narrativa contemporanea del Perù e del Messico. Ha pubblicato, oltre a diversi articoli, una monografia sul racconto ispano-americano e sullo scrittore peruviano Julio Ramón Ribeyro e una sulla minifinzione ispano-americana e su Augusto Monterroso. Ha curato un’antologia di scrittrici messicane, una di scrittrici peruviane del ‘900, una della minifinzione ispano-americana e un’altra della minifinzione peruviana. Ha tradotto: Passioni e scrittura. Antologia di narratrici messicane del XX secolo (1988); Silvio nel roseto. Racconti di Julio Ramón Ribeyro (1990); Cartucho. Racconti della rivoluzione nel Nord del Messico di Nellie Campobello (2011); Mani di madre di Nellie Campobello (2015); Montamaiali di Cronwell Jara (2015); Idee femministe latinoamericane di Francesca Gargallo (2016).

Immagine in evidenza: Foto di Marvin Collins.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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