ROSARNO. Conflitti sociali e lotte politiche in un crocevia di popoli, di sofferenze, di speranze (Giuseppe Lavorato)

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Nel giorno in cui ricorre l’assassinio di Peppe Valarioti (10 giugno), ecco alcuni stralci dal libro di memorie di prossima uscita di Giuseppe Lavorato, memoria storica, esponente politico e  attivista, coerente e accanito sostenitore della lotta contro la ndrangheta, per i diritti dei lavoratori.

 

Nella primavera del 1980, giunge la consultazione elettorale per il rinnovo dei consigli regionale e provinciale. La ‘ndrangheta “ripristina contatti con gli alleati politici tradizionali… e, per rafforzare i legami, candida anche propri congiunti.” (Ficoneri)…..; le ‘’recenti sentenze di Locri e della Corte d’Appello di R.C.  la tranquillizzano’’(Lacaria).

E diviene più aggressiva, violenta e  spavalda. In provincia di Reggio Calabria i pezzi da novanta sono tutti in prima fila nella campagna elettorale: vogliono completare il disegno di penetrazione nel governo della cosa pubblica.

A Rosarno il capomafia Giuseppe Pesce prolunga il suo permesso dal confino per  essere presente fino all’ultimo giorno del voto.

I giorni e le notti divengono roventi (non è metafora). I nostri manifesti, freschi di affissione, vengono staccati e riaffissi a testa in giù (preciso segnale di minaccia grave). Ma i nostri comizi non cambiano linguaggio, anzi lo rendono più fermo ed efficace. A quindici giorni dal voto, nella stessa notte, appiccano il fuoco alla mia macchina ed alla sezione del partito. Rispondiamo con una manifestazione pubblica e nel suo intervento Peppe Valarioti grida: ‘’Se pensano di intimidirci si sbagliano. I comunisti non si piegheranno mai’’. È un grido che certamente giunge alle orecchie dei massimi esponenti mafiosi calabresi, convenuti quel giorno in Rosarno per partecipare ai funerali della madre di Giuseppe Pesce.

Nelle sere successive, per diffondere coraggio, svolgiamo comizi nei quartieri popolari, nei quali le case dei braccianti e di tanta povera gente sono vicine  a quelle di boss mafiosi. In quelle piazzette o incroci di strade esponiamo ai cittadini il nostro programma e con parole semplici e chiare ricordiamo ai genitori che voler bene ai propri figli comporta il dovere di proteggerli, impedire che vengano attratti dalle  sirene mafiose e finiscano uccisi o in galera.

La ‘ndrangheta fiuta l’umore degli elettori e sente che è diverso da quello dell’anno precedente. Nei giorni del voto, il capomafia si aggira preoccupato e minaccioso anche attorno ai seggi elettorali. Ha un battibecco con un militante comunista. È l’alta tensione nervosa di una campagna elettorale vissuta da entrambe le forze  contendenti come vera e propria battaglia campale. Noi la combattemmo con tutta la nostra passione politica e civile, che mobilitava un alto numero di compagni.  La ‘ndrangheta la condusse con la violenza, gli attentati, le intimidazioni. Finalmente  giunge lo scrutinio delle schede elettorali, che diviene un successo, un esaltante successo del partito comunista ed una sconfitta pesante e cocente della ‘ndrangheta  di Rosarno.

Sotto gli occhi dell’intera comunità cittadina, il lungo ed asperrimo  braccio di ferro  viene vinto dai comunisti.

In molti paesi della provincia le cosche mafiose già festeggiano la loro vittoria elettorale, ma a Rosarno no! Non lo possono fare. A Rosarno festeggiano i nemici pubblici della ‘ndrangheta: i comunisti, i quali, la sera stessa, portano la buona novella nei quartieri popolari  con un nutrito corteo di militanti accolti dal saluto, dal sorriso e dall’abbraccio delle numerose persone oneste che vi abitano e, come apprendiamo dopo, dalle parole avvelenate e cariche di odio di famigliari dei boss mafiosi.

La ‘ndrangheta diviene una belva ferita. Sente il pericolo di apparire come una tigre di carta che mostra i denti, ma non morde e viene sconfitta. Si convince che per ripristinare prestigio e comando, non bastano minacce ed attentati, ma serve  un atto estremo che incuta terrore. Ed uccide. Uccide con quella tempistica e quelle  modalità perché intenzionalmente vuole lasciare la sua firma: per fare capire a tutti che nessuno può permettersi di sfidarla, sconfiggerla e mettere in discussione il dominio che pretende di esercitare sulla comunità di Rosarno e della Piana.

Basta riflettere su un semplice fatto: Peppe Valarioti ogni sera o notte, chiudeva l’auto nel garage di suo cognato e, per raggiungere la propria abitazione, percorreva da solo lunghi tratti di strada isolati e bui, dove sarebbe stato facilissimo colpirlo.

 La ‘ndrangheta  vuole, di proposito, colpirlo quella notte, mentre è insieme ai suoi compagni, per strozzarci in gola la gioia della vittoria. Vuole che il giorno appresso i cittadini onesti di Rosarno non gioiscano ed acquistino coraggio vedendo in festa una forza politica libera e combattiva, ma la vedano in lutto e piangente per avere osato sfidare la prepotenza mafiosa. Per la ‘ndrangheta rosarnese è insopportabile il pensiero che il giorno successivo, mentre in tanti altri paesi i mafiosi avrebbero festeggiato l’elezione dei loro uomini, a Rosarno, invece, festeggino i comunisti, i nemici che l’avevano sconfitta.

Uccide anche per dimostrare alle altre famiglie mafiose (a quella di Gioia Tauro in particolare) che la ‘ndrangheta di Rosarno continua ad avere i titoli per fare parte del gotha mafioso calabrese e partecipare alla spartizione della grande torta del denaro degli investimenti pubblici.

Gianfranco Manfredi su l’Unità del 2 novembre 1980 scrive che Giuseppe Pesce ‘’nel ‘73 partecipò alla riunione segreta tra i capi mafia calabresi ed i rappresentanti delle ditte appaltatrici di lavori per il quinto centro siderurgico di Gioia Tauro per definire tutta la partita degli appalti e dei subappalti. Il boss conquistò notevole spazio nell’’affare’ e le circostanze saranno tutte accertate dai giudici al processone di Reggio Calabria contro la mafia nel ’78 ; il clan da lui diretto ha finora ricavato dai lavori per lo sbancamento nel porto do Gioia Tauro 280 milioni pagati dalle ditte appaltatrici. I giudici lo condannarono a nove anni di reclusione ma in appello gli vennero più che dimezzati.”

                                   L’appalto più ricco di ogni tempo

Non c’è dubbio che la ‘ndrangheta avesse nel mirino anche la cooperativa Rinascita, come ogni attività produttiva. Però, le stesse dimensioni delle poste in discussione testimoniano che la cooperativa costituiva un interesse secondario a fronte degli investimenti per gli interventi industriali nel territorio provinciale e per la costruzione del porto di Gioia Tauro, il più importante e ricco appalto di ogni tempo indetto nel territorio italiano. L’appalto divenuto il pozzo senza fondo, il bottino dal quale le più grandi famiglie mafiose calabresi hanno lucrato somme immense  successivamente investite nei traffici degli stupefacenti.

Ecco l’affresco con cui Giacchino Lauro, collaboratore di giustizia, descrive nel 1992 alla D.D.A. di Reggio Calabria  l’impatto degli investimenti pubblici sui maggiori boss della provincia di Reggio Calabria :

‘’Cercate di immaginare il discorso della industrializzazione fatto ai Piromalli, ai Mammoliti, Pesce, Bellocco, Crea, Raso e Lombardo tanto per citare qualcuno della Piana. Oppure pensate ai fratelli De Stefano, ai Libri, agli Araniti, pensate  a Ciccio Canale il quale, si disse, fece un salto dalla sedia fino a toccare il lampadario, nel soggiorno della sua villa al mare, sentendo parlare di miliardi che stavano per arrivare. Pensate a Domenico Tripodo e Natale Iamonte, a Natale Iannò e Pietro Pilello (il quale si mise a firmare montagne di cambiali per acquistare automezzi dicendo in giro che presto sarebbe diventato ricco). Pensate ai fratelli Frascati ed ai tanti altri che dalla mattina alla sera si scoprirono autotrasportatori, diventarono impresa quando fino al giorno prima avevano venduto frutta ai mercati generali’’[1].

L’assassinio di Peppe Valarioti  fu il momento più drammatico dello scontro politico-sociale che percorse la Piana di Rosarno-Gioia Tauro negli anni ‘70. Scontro che assunse la dimensione della lotta di massa contro la ‘ndrangheta, che è la sola dimensione che ha la forza per fronteggiare adeguatamente il fenomeno mafioso.

Oggi la mafia si è camorrizzata, dice Leoluca Orlando in una recente intervista, Un tempo era verticale oggi è orizzontale. Oggi è il tempo delle formiche; la lotta alla mafia, per essere efficace, deve diventare lotta di popolo.

Il sindaco di Palermo parla del mutamento dei comportamenti di ‘cosa nostra’. Ed individua nella partecipazione popolare la dimensione che deve assumere la lotta contro la mafia per essere efficace. È un pensiero semplice, chiaro, convincente. Perché Orlando non elabora un’analisi astratta. Legge la realtà che ha sotto gli occhi e ne trae, con intelligenza, le necessarie conseguenze.

La ‘ndrangheta, a differenza di ‘cosa nostra’, è sempre stata un fenomeno orizzontale (dagli anni ‘70 è anche unitario e verticale), molto presente in tutte le pieghe della società calabrese. I vertici sono formati dai capi delle famiglie mafiose, che operano in rapporti di cointeressenza con imprenditori, uomini della politica e delle istituzioni collusi. La manovalanza è fatta, in prevalenza, da giovani dei ceti sociali più disagiati o da giovani sbandati, assoldati inizialmente per piccole imprese e progressivamente impegnati per reati più gravi.

Chi vive nei territori infestati dalla ‘ndrangheta non ha bisogno di elaborare analisi astratte per capire che lo scontro, la contesa tra la democrazia e la ‘ndrangheta si incentra sugli interessi materiali ed avviene nelle teste dei cittadini, in particolare in quelle dei giovani e delle fasce sociali più deboli. Per essere vincente, la lotta democratica deve costruire piattaforme concrete credibili, sul lavoro innanzitutto. Piattaforme capaci di corrispondere ai bisogni dei giovani e delle fasce sociali più povere. E deve farle camminare sulle gambe di persone e di movimenti altrettanto credibili.

Il movimento di lotta nella Piana degli anni ’70 è forte perché ha questo carattere e questa fisionomia. E li difende con la fermezza dimostrata nella ripulsa pubblica dei personaggi chiacchierati. Il nucleo centrale del movimento è composto da persone conosciute perché veramente immerse nel popolo, i suoi problemi, i suoi bisogni. Persone che raccontano come la prepotenza, gli arricchimenti illeciti della ‘ndrangheta e dei suoi complici derubino tutta la popolazione onesta, laboriosa e soprattutto la povera gente ed i giovani senza lavoro. E non lo raccontano in interventi anonimi, ma nelle piazze centrali ed in quelle piccole dei quartieri popolari, di fronte alle case degli stessi boss mafiosi.

Ma nemmeno la ‘ndrangheta ha bisogno di analisi astratte. Essa è la prima che apprende e conosce, perchè vede con mille occhi, ascolta con mille orecchie. E sa. Sa che protagonisti fondamentali di questo lavoro sono i militanti comunisti.

E sa, inoltre, che la partita politica nazionale è ancora aperta e si può ribaltare, che la vicenda processuale di Reggio Calabria contro i 60 boss mafiosi è ancora sub iudice e che la stessa sentenza di appello riconosce e lascia “in piedi un principio giuridico molto importante ed innovatore, che configura il reato di associazione mafiosa e allarga l’ orizzonte della lotta alla mafia da lotta e repressione dei singoli delitti, per quanto gravi, a lotta contro la struttura mafiosa in quanto tale”.

Consapevoli di tutto ciò, i vertici della ‘ndrangheta avvertono il pericolo (e lo avvertono anche i loro complici e protettori) che la lotta sociale e politica possa spingere le indagini giudiziarie a proseguire con fermezza nel lavoro iniziato con il processo di Reggio Calabria (durante il quale sono iniziati a volare gli stracci tra personaggi importanti del sottobosco politico e anche tra uomini di governo),  raggiungere il coacervo degli interessi che premono sugli investimenti pubblici in Calabria e rivelarne tutto il torbido intreccio politico, affaristico, mafioso.

E sanno che i comunisti non si fermeranno. Li vedono e li ascoltano, nelle piazze e nelle manifestazioni popolari, parlare delle testimonianze dei loro compagni e della sentenza di Reggio Calabria come comportamenti ed esempi da seguire. Gli ‘ndranghetisti sanno tutto ciò, fanno due più due, e decidono che devono colpire per impaurire e disperdere quanti ancora non si piegano e continuano a combattere.

E colpiscono a Rosarno. Perché Rosarno è uno dei paesi più combattivi, nel quale la lotta contro la ‘ndrangheta ha assunto la dimensione della lotta di massa e della costruzione di organismi associativi che liberano i contadini dalla morsa mafiosa, richiedono il cambiamento dei meccanismi criminogeni nell’erogazione del denaro pubblico e dimostrano concretamente che “nella Piana, dominata dalle cosche più forti, è possibile un’altra via allo sviluppo”.  Ecco la battaglia democratica di Rosarno.

L’assassinio di Peppe Valarioti viene deciso dai vertici mafiosi della Piana. Sull’esempio e la spinta di ‘cosa nostra’ (che in Sicilia ha già assassinato il giornalista Mario Francese, il segretario della D.C. Michele Reina, il capo della mobile Boris Giuliano, il capo dell’ufficio istruzione Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il capo della Procura Gaetano Costa), anche la ‘ndrangheta decide di  manifestarsi apertamente come soggetto politico, con il quale devono fare i conti tutti: gli irriducibili oppositori, e anche i complici e i protettori.

Nel libro di Danilo Chirico ed Alessio Magro Il caso Valarioti  è riportato un articolo di Stefano Cingolani scritto dopo una riflessione con i compagni di Rosarno, pochi giorni dopo l’assassinio. ‘’Un omicidio politico come questo non si decide in famiglia. Vanno previste tutte le conseguenze; va organizzato meticolosamente. E la scelta dei tempi è stata accurata, calibrata attentamente. L’assassinio del compagno Valarioti deve essere discusso, esaminato, concordato tra le diverse cosche. E deve avere avuto il beneplacito di chi sta in alto. Lì dunque bisogna puntare.’’ E i due giovani scrittori calabresi chiosano “Sono passati alcuni decenni e, ancora, la verità scritta a una settimana dall’omicidio non è verità di tutti.”[2] Hanno ragione. Rileggendo mi assale una immensa tristezza.  Dopo tanto tempo e le innumerevoli notti bianche, cambierei solo ‘beneplacito’ con ‘mandato’…

 Giugno 2016.

 

 

[1] Stefano Morabito (a cura di), Mafia,’ndrangheta, camorra nelle trame del potere parallelo, Gangemi editore, Roma 2005.

[2] Danilo Chirico, Alessio Magro, Il caso Valarioti. Rosarno 1980: così la ‘ndrangheta uccise un politico (onesto) e diventò padrona della Calabria, Round Robin, Roma, 2010.

lavorato2Giuseppe Lavorato, maestro elementare, fin dagli anni sessanta importante protagonista del Partito Comunista Italiano della Piana di Gioia Tauro e della Calabria. In quegli anni, precisamente nel 1965, viene eletto in Consiglio Comunale a Rosarno con il PCI rimanendo ininterrottamente fino al 2003. Sono decenni caratterizzati dal forte condizionamento delle cosche della ‘ndrangheta sulla vita sociale ed economica di quelle zone. L’impegno dai banchi dell’opposizione è totale al fine di denunciare i soprusi e le illegalità che favorivano gli interessi loschi e l’intreccio politico – affaristico – mafioso. La sera dell’11 giugno 1980 si trovava assieme a Giuseppe Valarioti (suo compagno di lotte) quando questi venne ucciso, a colpi di lupara, dalla ‘ndrangheta all’uscita di un ristorante dopo una cena tenuta insieme ai compagni di partito per festeggiare la vittoria elettorale. Il dirigente comunista Valarioti morì tra le braccia di Lavorato che per primo cercò di soccorrerlo raccogliendo le sue ultime parole, il suo ultimo sguardo. Nel 1994 viene eletto Sindaco del comune di Rosarno. Più volte minacciato di morte dalle cosche, da Sindaco di Rosarno ha dato vita alla Primavera Rosarnese contrastando concretamente la Criminalità organizzata sul piano politico-amministrativo costruendo un grande movimento antimafia che portò Rosarno ad essere il primo Comune d’Italia a costituirsi parte civile in un processo antimafia. Oggi si è ritirato dalla vita politica ed è memoria storica fondamentale per la Calabria e la società rosarnese.

Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo.

Foto dell’autore a cura di Andrea Sabbadini.

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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