Il mio percorso nelle lingue e con la traduzione ha sempre avuto ai miei occhi come marchio distintivo l’eterogeneità e la pluralità. Pluralità di lingue di formazione, innanzitutto, visto che sono nata e cresciuta in un contesto culturale multilingue – la Svizzera – all’interno di una famiglia dove, come spesso avviene in Italia, si parlavano due diversi dialetti regionali (il lombardo di mio padre e il leventinese di mia madre). L’italiano, mai. Oltre a questo aspetto diciamo biografico, forse di poco conto, va detto – e questo sì, mi sembra piuttosto importante- che ho studiato a fondo per anni più lingue allo stesso tempo (francese, inglese, tedesco, spagnolo), e ho vissuto per anni in una città di lingua francese, sovrapponendo d’improvviso alla lingua materna l’onda forte del francese, e soprattutto l’alta marea dello spagnolo che costituiva il nucleo centrale degli studi universitari e delle intense relazioni personali che hanno man mano modificato la mia visione del mondo. Per molti anni ho vissuto una situazione di trilinguismo al quotidiano, dove mi ritrovavo a dover usare le tre lingue (quando non quattro o cinque…) quasi contemporaneamente nello spazio di pochi minuti, o in situazioni molto informali come seduta attorno al tavolo di una mensa universitaria.
Ma qual era poi questa lingua materna, o fino a che punto la si può considerare come tale, se il mio nucleo d’origine, famigliare, entrava nella vita della giovane studentessa che ero, sempre e solo attraverso il dialetto? Durante gli anni universitari nei quali vivevo a Ginevra e studiavo lettere ispaniche, italiane e filosofia, l’italiano era diventato un’isola, quello dei testi letterari e del teatro universitario. Già in passato, in fondo, l’italiano era stato per me la lingua della scolarità, dei rapporti con il mondo, una lingua di mediazione, diciamo, tra il mio nucleo “interno”, intimo, e il mondo. Una lingua che traduce, quindi (o che prova a farlo) una realtà personale sentita in un’altra lingua.
Infatti, i sentimenti più profondi e vissuti sin dall’infanzia (amore, rabbia, frustrazione, dolore, lutto) li ho verbalizzati per la prima volta in dialetto, sia con la famiglia, sia dentro di me. Ma non ho mai imparato a scriverli così come li ho sentiti la prima volta, visto che non so scrivere in dialetto. E questo la dice lunga, credo, sul desiderio di imparare più lingue in grado di rendere conto di quel (mio) nucleo originario, un archivio di vissuti inaccessibili alla lingua italiana. E credo che la dice lunga anche sul ruolo della traduzione, appunto, che è il tema di queste brevi riflessioni.
Ecco perché la riflessione sulla lingua materna mi è cara, visto che mi aiuta a capire anche il livello di distacco o la relativa facilità e curiosità che venni poi a manifestare nell’apprendimento di lingue straniere. Francese, spagnolo e portoghese sono oggi tre lingue che occupano in misura piuttosto simile il mio universo linguistico-affettivo, e con le quali intrattengo un rapporto promiscuo molto creativo, amoroso.
Detto questo, la traduzione è un’attività che mi accompagna da sempre, in parallelo all’attività di scrittrice e di docente. Ci sono stati periodi in cui ho dovuto scegliere quale attività priorizzare – soprattutto durante le fasi di vita in cui la maternità ha richiesto un’attenzione maggiore rivolta verso i figli, e il tempo si sbriciolava tra le mie mani.
Tuttavia, negli ultimi anni ho trovato un equilibrio più sereno tra le diverse attività che occupano il mio quotidiano. Durante questi lunghi mesi di pandemia in Brasile (dove adesso vivo, siamo tutt’ora in una situazione di semi-clausura autoimposta, visto che non abbiamo un governo che si assuma le responsabilità di determinate decisioni mirate alla tutela della salute della popolazione), la traduzione si è imposta naturalmente nel mio quotidiano con un piacere e una testardaggine rinnovate. Tradurre, tradurre e tradurre, come se le altre voci fossero, sono, gli amici che vorrei incontrare, ascoltare, e come se fossero qui con me, parlandomi del loro mondo. Tradurre è sempre stato per me il tentativo di rendere presente quel qualcosa che non poteva esserlo, quel qualcosa di leggermente deviato, incomprensibile, perché espresso in un’altra lingua e perché dischiude a sua volta un altro mondo, spesso sconosciuto.
Tradurre è rodere i margini del silenzio, di questo silenzio che è calato su di noi, improvvisamente. O di un silenzio che diverso, appartenente a un mondo antico, a lingue antiche, ai morti che però continuano vivi nei loro scritti. Tradurre è anche questo, attualizzare il passato, spingerlo su su fino al presente. Così facendo, mentre traduco, mi sembra di riuscire a raccogliere i frammenti sparsi di quella che sono, di quelli che siamo, metterli assieme, con criterio e bellezza, per dare voce a un qualcosa che era smembrato. Anch’io mi ricompongo, attraverso questa attività, unendo in una specie di conversazione corale, le varie lingue che mi abitano e che parlano in me. Così avanzo nel giorno, con una piccola torcia che mi aiuta a leggere le orme di chi è venuto prima, di chi è già passato da qui, per aprire il passaggio a chi porto con me, cammin facendo.
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Normalmente traduco poesia (dal francese, dallo spagnolo e dal portoghese, molto raramente dal tedesco o dall’inglese), è questo il campo nel quale ho più esperienza. E mi dedico in particolare alla poesia contemporanea. Ma ultimamente ho iniziato a lavorare anche alla traduzione di romanzi, attività che richiede un approccio diverso, di lunga tenuta, che trovo stimolante perché mi permette una compagnia prolungata con il testo, una sfida a dovermi confrontare con un polmone e un ritmo da maratoneta. Quando lavoro con la poesia, invece, mi sento come una specie di sommozzatore che scende, scende, nelle profondità abissali della lingua, laddove a volte il silenzio è assordante.
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Mi piace il lavoro che precede la traduzione. Cerco di essere un po’ come il radar di quello che succede qui e adesso – anche perché la produzione poetica contemporanea dialoga con il mio lavoro come poeta, quindi le due attività sono legate, in un primo momento. Cosa decido di tradurre? Pur potendo spaziare in più universi linguistici, quando la scelta ricade su di me, oggi tendo a lavorare con la poesia di lingua portoghese, in particolare con la brasiliana, che seguo da vicino, e che vive una specie di primavera, tante sono le voci che fioriscono, le case editrici indipendenti che promuovono questa fioritura. È un privilegio poter seguire da vicino, dal suo interno (visto che trascorro parte dell’anno in Brasile e frequento la scena poetica nazionale, anche come autrice) questo momento dinamico della letteratura brasiliana contemporanea, attraversata da una lama affilata e tagliente (la crisi politica, istituzionale, civile che stringe in una morsa il paese) e al contempo, dalle rivendicazioni crescenti da parte della maggioranza della sua popolazione (neri, donne, indigeni, omosessuali, ecc) perché il mercato e le istituzioni letterarie e accademiche si aprano a questi mondi diversi e ricchi che compongono la complessità e l’identità del Brasile. Ecco, davanti a questo scenario, la traduttrice può operare delle scelte, sulla base di criteri che sono suoi, ovviamente, ma che dialogano con il “sentimento del mondo”, per citare Drummond de Andrade, del mondo nel quale vive e dal quale riceve stimoli, domande, riflessioni anche radicali.
Ovviamente questo discorso trova dei limiti concreti, in base alla libertà che uno ha di muoversi all’interno di determinate esigenze editoriali, finanziarie o di mercato. Se sono richiesta come consulente editoriale, in tal caso il mio sguardo sulla letteratura brasiliana (da proporre in Italia) o sulla letteratura italiana (da proporre in Brasile) sarà appunto quello di chi pensa non solo al pubblico al quale sono destinate le traduzioni, ma anche all’immagine tradotta di questa cultura, al come arriva dall’altra parte del ponte mostrando il mondo in trasformazione che è il nostro, e non un’immagine rigida o chiusa su se stessa della realtà.
Quando ho l’opportunità di proporre più nomi, a seconda del taglio che devo dare alla scelta, tendo a privilegiare uno sguardo che possa abbracciare la pluralità, sempre attenta alla presenza di voci femminili. Se invece mi devo soffermare su pochi nomi o su uno soltanto, in tal caso interrogo il repertorio della ricca tradizione poetica del Novecento portoghese e di quella vasta e sfaccettata brasiliana, purtroppo troppo poco conosciuti in Italia.
In definitiva, credo che per il lavoro di traduttrice, oltre alle conoscenze tecniche e approfondite delle lingue in gioco, sia essenziale avere uno sguardo sempre attualizzato e sensibile sulla produzione letteraria della realtà culturale con la quale si lavora. Per rimanere aperti ai movimenti, spesso sotterranei, che toccano la nostra sensibilità, individuale e epocale.
PRISCA AGUSTONI è nata a Lugano, Svizzera. Dal 1994 al 2003 ha vissuto a Ginevra, dove ha ottenuto la Laurea in Lettere ispaniche e italiane e Filosofia e un Master in Gender Studies. Dal 2003 vive tra la Svizzera e il Brasile, dove lavora come docente di letteratura comparata presso l’Università di Juiz de Fora, nel Minas Gerais. È poeta e traduttrice. Scrive poesia in italiano, francese e portoghese. I suoi ultimi lavori sono L’ora zero (lietocolle, Pordenonelegge, la gialla, 2020) e O mundo mutilado (São Paulo, Brasile, Editora Quelônio, 2020).
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Foto in evidenza: From Image to Shape, Biennale di Venezia, 2019, di Marino Colucci, per gentile concessione della Fondazione Pino Pascali.
Foto di Prisca Augustoni, a cura dell’autrice