RITORNARE A CASA – UN’ESPERIENZA DI ACCOGLIENZA MIGRANTE di ELENA CESARI

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Mi è stato chiesto dalla redazione della Macchina Sognante di scrivere qualcosa su di noi e sul nostro ospite.

Mi domando: a chi può interessare sapere qualcosa della mia vita e del mio ospite?

Perché “ospitare” sembra stia diventando oggi un gesto percepito come eroico, magnanimo e inusuale, tanto da meritare di essere descritto pubblicamente su una rivista online?

Cittadini proprietari

Può sembrare una domanda retorica e senza importanza, eppure mai come oggi, in un’epoca in cui il privato di tutti è messo in scena su tutti gli schermi come un grande e continuo spettacolo virtuale, un reality show globale, io continuo a pensare che il “privato è politico”; nella dimensione privata le persone hanno il potere di autodeterminarsi in relazione agli altri e sono a tutti gli effetti soggetti politici.

Oggi il privato è alla mercé dello sguardo e delle opinioni di tutti, “il privato è pubblico”: sono caduti o sono molto traballanti i confini tra queste due dimensioni, e siamo di fronte ad un processo di depoliticizzazione della vita.

Mi interrogo banalmente sul significato di parole come “casa” per me, e mi viene in mente il discorso pubblico dominante: “padroni a casa nostra”, “aiutarli a casa loro”, “tornatevene a casa vostra”…

“Nostra, loro o vostra”: il discorso pubblico sulla casa è diventato da molti anni il discorso di una lotta per la proprietà e il possesso così come del resto, per analogia, quello sulla nazione e lo Stato.

È la storia dello scempio dei beni comuni e del bene comune, e l’assorbimento del concetto di cittadinanza in quello di proprietà. I cittadini sono i proprietari, i proprietari sono i cittadini.

Mondo di comunità e famiglia

Poi ritornando a casa, scopro quotidianamente che non è mia, ma di tutti quelli che la abitano e che negli anni l’hanno abitata.

Un insieme variegato di persone che chiamo famiglia perché non trovo altro termine che descriva l’intimità, la vicinanza, ma che più esattamente potrei definire comunità. Mondo di Comunità e Famiglia è, come leggiamo sul web:

un’associazione aperta a tutti quelli che vogliono mettersi in cammino con altri […] Motore ed essenza di questa associazione è la convinzione che le persone e le famiglie, scegliendo di fidarsi le une delle altre e di valorizzare le reciproche diversità, potranno camminare verso la realizzazione della propria vocazione arrivando nel contempo a realizzare un altro modo di vivere che renderà felici loro e chi sarà loro vicino. Tale cammino è reso possibile dalla pratica quotidiana di fiducia, accoglienza, apertura, condivisione, sobrietà, solidarietà, responsabilità e accompagnamento reciproco.”

Scopro, quindi, che c’è una storia dietro di me e non è mia, ma è di tutti quelli e quelle che l’hanno vissuta. Di chi ha camminato nel solco delle parole, di cui sopra, che tracciano una dimensione di casa che nulla ha a che fare con la proprietà privata. La casa è il luogo della condivisione con altri di tempi, spazi, parole e silenzi che diventano un linguaggio comune. La casa è il luogo dove mi riconosco non allo specchio, ma nella pluralità degli altri che mi restituiscono immagini di me mai identiche.

Mi hanno chiesto di scrivere dell’ospitalità che dura da tre mesi di una persona che ha ottenuto il permesso di protezione umanitaria.

Ho deciso invece di parlare di casa.

Il modello patriarcale e capitalista riduce la famiglia a nucleo primario dell’economia dominante, determinandone gusti, desideri, paure, frustrazioni e quindi scelte di consumo.

Persino la parola famiglia è così culturalmente e socialmente codificata che utilizzarla fuori dal modello di cui sopra è quasi illusorio.

Mi illudo che possiamo ancora decostruire e ricostruire insieme il significato di parole come famiglia e come casa, ma anche di comunità e cittadinanza.

Ospiti

In Amidou (nome di fantasia) non c’è nulla di eccezionale rispetto alle altre persone che in questo luogo hanno vissuto.

In Italia, ormai, chiunque desideri allargare i muri di casa ha a disposizione diversi modi per farlo.

Gli enti locali possono promuovere l’ospitalità in famiglia dei minori stranieri non accompagnati grazie alla legge n. 184 del 4 maggio 1983, Diritto del minore ad una famiglia che disciplina l’affidamento familiare.

A solo titolo d’esempio sono presenti poi sul territorio diversi progetti come quelli portati avanti dall’associazione Refugee Welcome, fra le primissime in Italia, per promuovere la conoscenza e l’accoglienza di rifugiati e titolari di protezione umanitaria. Altri progetti che vanno nella direzione di una maggior conoscenza e di uno scambio fra persone rifugiate e “italiani con la cittadinanza” sono stati promossi negli ultimi anni da diversi enti e cooperative.

A Parma e Fidenza il CIAC (Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione Onlus) dal 2015 promuove il progetto Rifugiati in famiglia nell’ambito del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR). A Bologna e Ferrara è attivo Vesta, un progetto della cooperativa Camelot.

Io e la mia compagna non abbiamo seguito nessuno di questi modi, ma come molte altre persone silenziose in questo paese, abbiamo iniziato l’ospitalità a seguito di una mail con una richiesta d’ospitalità da parte di un operatore Sprar sulla mailing list di Campi Aperti per la Sovranità Alimentare, un’associazione di piccoli produttori e coproduttori biologici che oltre a produrre cibo sano, coltivano anche socialità, solidarietà fra le persone e la terra1” .

Abbiamo colto quest’opportunità perché ci sembrava giusto. Giusto e non generoso.

Tuttavia, prima ancora che giusto, ci è sembrato bello imbarcarci in quest’avventura.

Non mi piace la parola accoglienza perché alla fine della giornata non so mai chi è che ha accolto chi. Stiamo imparando ad accoglierci reciprocamente attraverso gesti quotidiani, lenti, ripetitivi che, credo, valgono di più di mille discorsi.

Amidou è una persona che ha sofferto, come troppe altre, la distruzione della sua famiglia d’origine per mano del fondamentalismo religioso e soffre la lontananza forzata con la terra nella quale è cresciuto e vissuto fin quasi ai trent’anni.

La sofferenza, quella vera, è una cosa che non si può conoscere fino in fondo, non si può curare, non si può condividere, no. Però impariamo insieme che si può camminarle accanto, le si può stare vicino.

La vicinanza, la condivisione dei pasti insieme, degli spazi, dei riti quotidiani del vivere, è una forma di stare con chi ha sofferto e soffre senza tentare di analizzare o razionalizzare il dolore. Senza ritoccarla con le parole.

La sofferenza non è più un tabù!

Credo che stare insieme ad Amidou ci stia regalando la consapevolezza che stare vicino al dolore non solo è possibile, ma è anche la sola strada che abbiamo per costruire un’alternativa ai muri, all’odio, alla paura che crea mostri, alla stupidità.

In una registrazione ascoltata di recente, il noto poeta recentemente scomparso Pierluigi Cappello affermava che la civiltà contemporanea cerca di rimuovere costantemente i traumi, la sofferenza, la morte che fanno parte dell’esperienza umana.

Oggi la sofferenza di moltitudini di persone è diventata il salotto delle vanità di altri. Il terreno di contesa di politici e politicanti.

Il fondatore di Mondo di Comunità e Famiglia Bruno Volpi diceva: “Non siamo una comunità del fare, siamo una comunità dell’essere”.

Mancano oggi le parole per pensare e costruire comunità dell’essere, dell’essere con gli altri.

Mancano, ma oggi e non domani abbiamo tutti l’opportunità di soffermarci e inventare parole nuove, lasciare le vecchie dimore difese con filo spinato, ordinanze anti-sbarchi, permessi di soggiorno, comizi televisivi, blog e tweet.

Valanghe di parole che perpetuano e rafforzano l’antico meccanismo coloniale di dividere e dominare, assimilare e sottomettere, controllare e ingabbiare.

Abbiamo l’opportunità di non sentirci più schiavi di schemi sociali rigidi e di rigide gerarchie culturali, di sentirci tutti ospiti su questa terra e di costruire fianco a fianco nuove geografie dell’abitare.

1Desidero segnalare il lavoro prezioso di Lucia Bertell, sociologa e ricercatrice eco femminista recentemente e tristemente soomparsa. Qui il ricordo appassionato di Alessandra Pigliaru https://ilmanifesto.it/lucia-bertell-se-lo-sguardo-si-innamora-del-mondo/

Nel suo lavoro “Il lavoro ecoautonomo” Lucia ci ha mostrato come la consapevolezza del nostro esere tutti interconessi abbia portato già molte persone ad agire “private e silenziose rivoluzioni”, nel senso di oltrepassare i confini, abbattere convenzioni, costruire piccole comunità di persone solidali tra loro.

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ELENA CESARI ha fatto parte del gruppo operativo de lamacchinasognante.com fino al numero 5. Elena Cesari abita a Salvaro in un condominio solidale. Nel 2014 esce la sua prima raccolta poetica, Una viola, una pigna, un’ombra (Fondazione Luzi, Roma). A luglio 2015 esce “L’essenziale delle cose perse” (LietoColle) . Educatrice e insegnante di italiano L2 ha condotto e collaborato alla realizzazione di corsi di italiano e progetti sperimentali di teatro e lingua con donne migranti. Attualmente lavora con un gruppo di richiedenti asilo bengalesi. Da tre anni collabora con il gruppo di teatro integrato Magnifico Teatrino Errante, realizzando progetti di teatro integrato e interculturale.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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