Riflessioni di un’italiana a Bonn, sui fatti di Colonia (MariaGrazia Patania)

IMG_0095

Il 31 Dicembre 2015 iniziava il mio quarto anno a Bonn. Mentre io ero in Sicilia, a Colonia si verificavano dei fatti gravissimi: aggressioni, borseggi, violenze di vario genere. Principalmente ai danni di donne, ma non solo. Non sono una giornalista e non intendo scimmiottare questo mestiere pertanto lungi da me tentare ricostruzioni più o meno veritiere dei fatti (che tanto non conosceremo mai).

 

Curiosi sono certamente i risvolti psicologici e pratici di questi tristi eventi. Curioso è credere che contemporaneamente in svariati luoghi della Germania si sia scatenato un girone infernale in cui “giovani uomini dai lineamenti arabi” hanno assalito verbalmente, fisicamente, sessualmente un numero esasperatamente alto di donne. Numero che è cresciuto a dismisura nei giorni successivi quando -con inspiegabile ritardo vista la meticolosità tedesca- i fatti sono stati resi noti al pubblico. Affamato di scandali.

 

In prima battuta, netta e inequivocabile, arriva la rassicurazione del capo della polizia tedesca che dice che non esiste alcun legame fra le aggressioni, le sembianze arabe degli assalitori (?!) e i richiedenti asilo accolti a migliaia. Manco il tempo di tirare un sospiro di sollievo che emergono indiscrezioni ad insinuare il dubbio: beh, forse alcuni erano rifugiati, anzi non solo alcuni… Mi sa che erano proprio tanti. Quasi tutti. C’erano giusto quei pochi bianchi (autoctoni e non) che magari forse avevano bevuto troppo… Tutto qui. Sono stati quelli dalle sembianze arabe a commettere i misfatti. E il caos fu. DER SPIEGEL ha messo in luce questa strategia anomala fatta di rassicurazioni, smentite, insinuazioni e sapiente orchestrazione del dubbio. E da parte mia, ho collocato l’ultimo tassello del mio personalissimo puzzle interpretativo.

 

Impossibile credere alla storiella di una follia coordinata da centinaia, migliaia di uomini “arabi” che –eludendo ogni controllo- hanno infierito sulle “nostre” donne emancipate, indipendenti e non represse come le musulmane. A quel punto ad ogni latitudine -soprattutto italica- sono state dissotterrate le clave che decenni di pseudo-evoluzione avevano riposto in cantina ed è partita la guerra ai muSSSSulmani che non sanno rispettare le donne, che non accettano la libertà delle “nostre” donne. Lì ho smesso di seguire e ho cominciato a guardare.

 

Colonia è stata sotto assedio. Il 14 Gennaio sono andata in stazione centrale per incontrare una amica e pensavo stessero girando un film su qualche dittatura sud-americana degli anni 70. Pochissime persone in giro, polizia a gruppi di sei a ogni angolo che fermava persone seguendo schemi a me ignoti, dieci camionette nel piazzale immediatamente di fronte e altre sei davanti il Duomo. E ancora polizia nei vicoli, polizia nelle strade, fermi ovunque. Brutto scenario insomma. Da quel momento sottilmente la presenza di personale di polizia è aumentata in ogni dove. Insieme al senso di paura e insicurezza generale.

 

Ed è questo il punto cruciale: paura ed insicurezza. Le armi migliori per zittire, assoggettare, reprimere, far cedere (in)consapevolmente e di buon grado la propria libertà -preziosissima- in nome di una presunta sicurezza benignamente offerta da gente armata.

 

La Germania è la patria che mi ha adottata e chiunque provi a parlarne male con me, casca male, malissimo. Perchè io amo questo paese: qui ho imparato cosa vuol dire davvero essere libera -economicamente e fisicamente. Ho fatto cose che in Italia non avrei fatto fra cui viaggiare e andare a concerti o festival. Sempre rigorosamente da sola. Il tedesco io l’ho imparato sui treni e negli aeroporti, coi loquacissimi nonni teutonici a cui non importa un fico secco se non parli la loro lingua perché loro devono comunque raccontarti le vacanze in Italia, nei musei chiedendo informazioni, al lavoro con la pazienza dei miei clienti che non si scoraggiavano. Il tedesco l’ho imparato viaggiando avvolta da un benefico senso di sicurezza che mi ha fatto spiccare il volo emotivamente e visitare luoghi stupendi. La Germania mi ha commossa col suo netto rifiuto per l’associazione islam-terrorismo dopo l’attentato a Charlie Hebdo quando la Cancelliera Merkel disse “L’Islam appartiene alla Germania“. La Germania mi ha regalato speranza con le immagini della stazione centrale di Monaco piena di famiglie e bambini tedeschi che -con cartelloni e giocattoli- accoglievano famiglie e bambini in fuga da morte certa. Io stessa ho preso parte a iniziative per accogliere i nuovi arrivati e coi miei occhi ho visto famiglie tedesche -con prole al seguito- arrivare sorridenti ai centri d’accoglienza con torte e regali.

 

E quindi ora non capisco. E taccio. E osservo preoccupata, molto preoccupata questa pericolosa china che si sta prendendo.

 

Personalmente mi riconosco nelle attiviste di Colonia che seccamente hanno risposto che “I coglioni sono coglioni ovunque” e “Il femminismo rimane anti-razzista“. E mi pongo delle domande: io che sembianze ho? Sembro araba? Sembro tendente all’ariano anche se i capelli mi tradiscono? Non so… Quando dite le “nostre” donne, di chi parlate? Perché io sono mia e intendo rimanerlo finché campo. Di certo non appartengo a un uomo. Quando parlate di “proteggere le nostre donne“, ci potreste dire anche da cosa? Il chi l’abbiamo capito: le sembianze arabe, i muSSSSulmani, il Corano e una serie di scorrettezze grammaticali che offendono vista e buonsenso. No, perché a ben vedere -siccome non vivo nella giungla e al supermercato trovo il cibo senza dover andare a caccia nei boschi- la prima cosa che mi metterebbe paura mentre cammino per strada la sera è l’incontro con uno di questi galanti della protezione o con qualcuno che intende stuprarmi o ferirmi. E vi garantisco che del colore della sua pelle, della sua religione, della sua provenienza non me ne fregherebbe nulla. Quindi, invece di proteggerci, imparate a rispettarci. Tutti.

 

10991402_10206053789846225_8393546476364343128_n-3

Maria Grazia Patania. Vengo da un piccolo paese della Sicilia vicino Siracusa e Catania. A 18 anni ho lasciato il paesello per andare a coronare il mio sogno di diventare interprete. Mi sono laureata a 21 anni per le lingue inglese e francese e subito dopo sono volata a Roma per specializzarmi in traduzione tecnico-scientifica visto che la via dell´interpretariato non era percorribile. Due anni dopo mi sono specializzata e dopo master vari ho deciso di prendere la seconda laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali. Inutilmente visto che nel frattempo il mio mondo veniva investito dalla crisi economica che tutti conosciamo. Sono crollati sogni, certezze e aspirazioni ed è seguito un lungo periodo buio in cui non sapevo cosa fare della mia vita. A nulla serviva l´esperienza come interprete o traduttrice, a nulla servivano i sacrifici e le ore sui libri. Da questo tunnel sono uscita grazie al mio attuale capo: un tedesco conosciuto ad una fiera dove gli feci da interprete e che mi diede una opportunità. Sono ancora qui. Ho imparato faticosamente il tedesco e ora mi dedico allo spagnolo mentre la mia carriera –impensabile in Italia- procede senza dover rinunciare alla mia dignità.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

Pagina archivio del macchinista