Riflessioni a partire da Giulia Grechi, Decolonizzare il museo, Mimesis, 2021 – di Jessy Simonini

Eres Mi Todo 1- Photo Credit Steve Weinik

 

È complesso rendere conto in maniera strutturata e organica dei numerosi spunti di riflessione offerti da questo volume di Giulia Grechi, uno studio che ha la grande qualità di unire rigore teorico e profondità di analisi (se si pensa, in particolare, ai passaggi riguardanti opere d’arte o installazioni museali specifiche) a una dimensione limpidamente divulgativa, capace di coinvolgere un lettore quasi del tutto digiuno di studi antropologici ed etnografici sulle questioni trattate, benché interessato ai rapporti fra questione coloniale e pratiche artistico-culturali.

Come sottolinea Anna Chiara Cimoli nella sua introduzione, la forza dell’opera in questione risiede proprio nel suo rifuggire lo sterile accademismo, passando con duttilità “dall’analisi antropologica della storia del mostrare al racconto in prima persona, e poi all’intervista, all’intersezione con la poesia, la filosofia, l’arte contemporanea, sempre mescolando i registri e costruendo una costellazione di punti luminosi che chiedono a noi lettori di stare all’erta” (p. 9, Prefazione). Una scelta stilistica e metodologica non secondaria, che facilita la lettura e, soprattutto, nutre la scrittura di altri spunti e di altre voci, dalla sociologia alla letteratura, dall’arte contemporanea all’antropologia[1].

Altrettanto rilevanti mi paiono le implicazioni politiche e militanti che emergono dal lavoro di Grechi, nel processo di decostruzione e decolonizzazione dello sguardo che viene condotto, tentando di ribaltare alcuni assunti fondamentali del nostro rapporto con le collezioni archivistiche e museali, proponendo pratiche ed esperienze radicalmente diverse dall’approccio normativo, occidentale, coloniale che vi si può dispiegare e che, in molti casi, è connaturato alle stesse collezioni e alla loro primiera concezione[2]. Del resto, come afferma l’autrice nella sua introduzione “il museo come istituzione storica di matrice europea, nata in piena epoca coloniale allo scopo di riempire di contenuti l’immaginazione delle nascenti nazioni, istituzionalizza un modo di vedere e più in generale di percepire, organizza lo spazio della fruizione, normalizza e controlla i corpi che lo attraversano” (p. 19).

Sono questioni di dirompente attualità che possono anche spingerci fuori dall’eterotopia del museo, verso la città, i suoi monumenti, la sua odonomastica legata a un passato coloniale[3] sommerso, negli ultimi anni al centro di un dibattito profondissimo su cui non vale la pena ritornare in questa sede. Mi piacerebbe, al contrario, proporre alcune immagini, filtrate dall’esperienza della mia soggettività.

Il sottoscritto, privo di una formazione antropologica, da alcuni anni si occupa di musei e di politiche culturali in diversi comuni dell’Emilia-Romagna. L’esperienza del “museo civico”, sulla carta lontano dagli esempi di musei di cui si parla nel volume in questione[4], può in realtà avvicinarvisi.

Mi sono sempre interrogato, anche per aver contribuito a realizzare allestimenti o a riallestimenti, sulla specifica configurazione delle sezioni “etno-antropologiche” di alcune strutture museali, che nella pianura emiliana sono talora specchi deformati e opachi di un passato cui si guarda con nostalgismo, un piccolo mondo antico scomparso dopo il definitivo tramonto della civiltà contadina[5]. I musei presentano uno sviluppo simile fra loro: ricostruzione di spazi di case rurali, descrizione delle attività agricole che scandiscono il lavoro e la vita nei campi, focus dedicati alla tessitura o ad altre attività artigianali. In molti casi, le collezioni sono frutto di donazioni di privati e la narrazione che normalmente viene proposta si limita a ricostruire le giornate di lavoro dei contadini, nei campi, al telaio o nella stalla.

Mi è sempre parso che in queste collezioni vi fosse qualcosa di mancante e, per trovarlo, sarebbe stato necessario in qualche modo ridirezionare o ripoliticizzare lo sguardo e le proprie pratiche interpretative. Del resto, conducendo ricerche storiche e d’archivio o affrontando la questione con dei testimoni, il rovescio di quel piccolo mondo antico non ha tardato a disvelarsi: il mondo contadino, soprattutto a queste latitudini, è stato un luogo di conflitti- sociali e politici; luogo dove la violenza di classe si è espressa nelle relazioni fra soggetti dominanti e subalterni; dove anche la violenza di stato – dello Stato liberale post-unitario, del Fascismo, dello scelbismo… – si è manifestata in crimini efferati come l’assassinio di Maria Margotti, nell’argentano, e altri episodi minori o dimenticati, sommersi in “polvere d’archivi”.

L’appiattimento museografico sull’oggetto, l’utensile, il macchinario (e sul lavoro contadino o artigianale) ha contribuito a cancellare dalle narrazioni quello che mi sembra invece sia il tratto caratteristico della vita contadina: la violenza di classe, rivolta dai padroni nei confronti dei braccianti; il legittimo odio di classe dei braccianti nei confronti della classe padronale agraria, violenta e sopraffattrice.

Sarebbe necessario sviluppare, in futuro, un allestimento che mostri il carico di violenza, dolore e sofferenza subiti da intere generazioni di subalterni, facendo effettivamente del museo in questione un “possibile laboratorio di contronarrazioni” (p. 19) e non semplicemente l’esposizione di oggetti muti e in realtà deprivati, ai nostri occhi, di ogni significato. Ciò vale per il passato coloniale dell’occidente- un passato per decenni sommerso dal discorso pubblico, in molti casi cancellato dalle narrazioni dominanti e ridotto a un elemento marginale – ma pure per il racconto della vita contadina, vita di subalterni, ma oggi raccontata nella maggior parte delle collezioni senza mettere in rilievo questa tensione determinante.

Gli archivi istituzionali rappresentano, in questo senso, un territorio ancora in parte da esplorare: i documenti espressione del potere (Questure, Prefetture, Uffici del Giudice istruttore[6]…) ci trasmettono numerose storie di ribellioni, di rivolte violente, di esistenze misere e oppresse che potrebbero diventare, anche alle nostre latitudini, il punto di partenza di pratiche artistiche conflittuali, che deformino la narrazione dominante e propongano uno sguardo radicalmente divergente. Non condivido, dunque, l’idea che “gli archivi storici, coloniali e nazionali” siano (in quanto tali) “forme di colonialismo rappresentazionale” (p. 88) o che i “dispositivi archiviali” veicolino- di per sé- narrazioni dominanti, giacché l’archivio è semplicemente uno spazio nel quale sono conservati carte e documenti prodotti da diversi soggetti, nel corso del tempo. Con questi documenti si può, in prospettiva, fare qualsiasi cosa, agire qualsiasi tipo di narrazione, anche nella forma di pratiche artistiche sovversive. Uno scandaglio profondo negli archivi può, a dire il vero, mostrare con impressionante nitore il rovescio della “storia ufficiale”, consegnarci materiali e documenti essenziali per comprendere e anche agire politicamente in chiave decoloniale : più che “rovesciare l’archivio” (p. 88), sarebbe utile esplorare, in profondità, gli archivi per rovesciare radicalmente il discorso e definire collettivamente nuove pratiche narrative o artistiche[7].

Un’altra immagine a cui ho ripensato è quella di uno spazio espositivo che si trova a Sant’Antioco, nella Sardegna meridionale. Alcuni anni fa ho visitato le “case a ipogeo” della vecchia necropoli fenicia, abitate fino agli anni sessanta del secolo scorso. Mi ha colpito come la narrazione imbastita negli spazi espositivi si limitasse a presentare la vita quotidiana di coloro che vivevano nell’ipogeo, ricostruendo con dovizia di particolari gli ambienti domestici, mostrando gli utensili tipici dell’attività contadina o artigianale. Nulla, almeno in maniera diretta, mostra la miserabile vita condotta per secoli dagli abitanti di queste grotte scure e profonde. La guida si limita a trasmetterci un episodio, accaduto dopo lo sgombero degli spazi e il trasferimento degli abitanti nelle moderne case popolari sull’altro lato del vallone, negli anni sessanta. Nottetempo, alcuni abitanti lasciavano le case popolari per tornare nelle case a ipogeo, cui si sentivano particolarmente legati. Più che gli utensili o gli oggetti della vita quotidiana, mi sarebbe piaciuto trovare riferimenti alle vite di queste soggettività, alla storia notturna del loro ritorno nell’ipogeo o anche, semplicemente, le fotografie del glottologo tedesco Wagner, che rappresentano una testimonianza essenziale[8] della vita sull’isola a cavallo fra Ottocento e Novecento.

Tale discorso può estendersi agli spazi museali cui fa riferimento Grechi nel suo lavoro, dove l’invisibilizzazione dei subalterni è in realtà espressione di una prospettiva eurocentrica e coloniale profondamente interiorizzata. I musei diventano, così, spazi nei quali “l’Europa inizia a organizzare la propria rappresentazione di sé e della diversità, e i/le cittadin_, attraverso la messa in scena spettacolare della modernità stessa, si lasciano andare alla contemplazione della propria identità nazionale e coloniale, riconoscendosi come il “motore del progresso” dell’intera umanità. Fra questi spazi, il museo istituzionalizza un modo di vedere, e più in generale di percepire, organizza lo spazio della fruizione, normalizza e controlla i corpi che lo attraversano, e costruisce il suo oggetto (così come il suo pubblico) precisamente attraverso l’attività del mostrare” (p. 47).

L’ambizione manifestata da Grechi è chiara : “decolonizzare il museo” come pratica museografica ma pure come pratica di sé, decolonizzarsi per uscire dalla dimensione eurocentrica storicamente connaturata al dispositivo museale, mettere in crisi i canonici meccanismi di mostrazione presenti nello spazio espositivo. Se è vero che “il colonialismo è stato indubbiamente e profondamente “materiale” e sensoriale. Corpi e oggetti sono sempre stati al centro del progetto coloniale, spesso condividendo lo stesso statuto: corpi razzializzati e sessualizzati da disciplinare e sfruttare, materie prime, artefatti e opere d’arte” (p. 145), la sovversione/lo scardinamento di tali pratiche passa anche per un ripensamento del ruolo dei corpi nello spazio (alla questione è dedicato il secondo capitolo).

In questa prospettiva, la maggiore qualità del volume di Grechi è espressa dai numerosi esempi di pratiche di sovversione artistica condotte in Occidente, negli ultimi anni, unite a un corposo apparato iconografico in appendice. Mi riferisco, in particolare, a EXHIBIT B, di cui l’autrice fornisce una precisa e intima descrizione. EXHIBIT B è un’installazione artistica composta da diversi tableaux vivants “che raccontano le storie irraccontabili o non raccontate del colonialismo europeo nei territori africani” (p. 225), attraverso vari dispositivi: la presenza di due persone che osservano lo spettatore[9] e la presenza di oggetti legati alla storia coloniale o delle migrazioni (Found object #1). Mi pare che l’elemento metodologico più significativo sia qui la capacità dell’autrice di riportare e trasmettere la singolarità della propria esperienza come spettatrice o partecipante interna all’installazione, unendo al piano di analisi un piano narrativo legato alla propria soggettività in relazione con precise pratiche artistiche.

 

Emerge, anche qui, una delle tesi di fondo dell’intero volume: l’idea che per “decolonizzare” il museo non sia sufficiente dare voce ai marginali e agli esclusi effettuando un ribaltamento della narrazione. Se la sommersione di certe esistenze e è un aspetto ancora presente negli spazi museali, è altrettanto necessario agire sul “potenziale di scandalo” (Mbembe) di tali esistenze e degli oggetti esclusi o forclusi dalle pratiche curatoriali e, più in generale, dal discorso pubblico. Mi pare che questo sia il nodo fondamentale dell’operazione di Grechi e che a partire da qui sia necessario un ripensamento complessivo delle pratiche curatoriali, anche in contesti all’apparenza lontani dal museo etnografico, che permane il più fulgido retaggio del colonialismo europeo.

 

[1] A pagina 166, l’autrice consiglia di vedere quattro scene di film “prima di continuare a leggere questo libro”: “1. Jean Luc Godard, Bande à part, film, 1964- la scena della corsa sfrenata e liberatoria dei tre protagonisti nelle sale del Louvre. 2. Tim Burton, Batman, film, 1989- la scena di Joker e della sua banda che fanno irruzione nel Museo di arte moderna. 3. Alfred Hitchcock, Vertigo […], film, 1958 – la scena del pedinamento della misteriosa protagonista che sosta a lungo davanti al ritratto di una donna che le assomiglia incredibilmente, nel Legion of Honor Museum di San Francisco e una scena della serie Sense8. Mi sento di aggiungere una scena, forse meno nota ma ugualmente significativa per raccontare la possibilità di una “indisciplina” nel contesto del museo: faccio riferimento alla scena di Les Amants du Pont-Neuf di Carax nella quale, al lume di una candela, due personaggi entrano a Louvre e osservano Le radeau de la Méduse di Géricault.

[2] La prima parte del volume approfondisce la questione, determinando il contesto di nascita e sviluppo degli spazi museali, in una prospettiva storica necessaria per comprendere gli sviluppi successivi.

[3] Si dice “passato coloniale”, ma occorrerebbe ribaltare anche questa facile espressione rivendicando come si tratti, a tutti gli effetti, di un presente.

[4] I riferimenti sono, in particolare, a musei etnografici dove si dispiega nel profondo la violenza coloniale esercitata da alcune potenze europee: si pensi ad esempio al museo del quai Branly, che elude ogni tipo di discorso sul colonialismo. Penso invece, a margine, al Musée de l’histoire de Nantes, oggetto negli ultimi anni di dichiarate operazioni di decolonizzazione (riuscite o meno) in quella che fu la “città negriera” per antonomasia.

[5] Nella sede della regione Emilia-Romagna, in viale Aldo Moro a Bologna, trova posto una vasta pittura murale di Aldo Borgonzoni dall’inequivocabile titolo: Il tramonto del mondo contadino, del 1988.

[6] Faccio riferimento a queste istituzioni perché nel corso degli ultimi due mesi, per motivi di ricerca e di lavoro, ho frequentato assiduamente l’Archivio di Stato di Ravenna, interessandomi in particolare ai documenti prodotti dalla Questura e dall’Ufficio del Giudice Istruttore.

[7] Più condivisibile la riflessione condotta sulla scia di Appadurai: “Se è vero, come scrive Appadurai (2003), che un archivio è spesso l’anticipazione di una memoria collettiva- non la sua realizzazione ma una aspirazione alla costruzione della memoria di una collettività- allora quale memoria può oggi anticipare un archivio come quello coloniale? Per quale collettività? Appadurai racconta di differenti modalità usate da gruppi e comunità di migranti per costruire la loro identità e le loro memorie […]: forme di archivi diverse da quelle a cui siamo abituat_, archivi intimi, privati, affettivi, trans-nazionali, orizzontali, itineranti, non gerarchici, strumenti culturali indispensabili per costruire e raccontare un’identità collettiva, una comunità immaginata”.

[8] E profondamente coloniale, a modo suo, anche considerando quanto l’isola continui ad essere il fulcro di un vero e proprio colonialismo ora in prevalenza economico e turistico ma pure intellettuale. Si veda l’interessantissimo lavoro condotto negli ultimi anni dal gruppo Filosofia de Logu.

[9] In un contesto che è un « classico exhibit di museo etnografico o di storia naturale, con animali impagliati e artefatti di vario genere, e in fondo due esseri umani, un uomo e una donna, esposti seminudi, in piedi, all’interno di due nicchie » (p. 224).

 

 

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Jessy Simonini (Castel San Pietro, 1994), dopo studi letterari all’Università di Bologna e all’École Normale Supérieure di Parigi, è attualmente dottorando in letteratura francese all’Università di Nantes. La sua raccolta di poesia d’esordio, Campi di battaglia, è stata pubblicata dalla casa editrice Sensibili alle foglie nel 2021. È direttore della rivista di poesia «Le Voci della Luna». Ha scritto di romanzo medievale, poesia occitanica e letteratura italiana (Ortese, Ceresa, Vicinelli).  Traduce dal francese e dall’occitano.

 

 

 

 

Immagine di copertina: Michelle Angela Ortiz,“Eres Mi Todo”/ Familias Separadas Project- Phase 1, 2018,City Hall Courtyard, Philadelphia, PA, Photo Credit Steve Weinik.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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